Tuesday, June 27, 2006

Linguistica

ETIMI E TOPONIMI DI DERIVAZIONE TEDESCA NELLA LINGUA ITALIANA

E’ un fatto acquisito che la quasi totalità dei termini culturali moderni provengano dal greco o dal latino. Le parole “filosofia”, “chimica”, “geografia”, “nevralgia”….entrano pacificamente a far parte del patrimonio linguistico di tutti i paesi, ma forse il fenomeno del prestito linguistico è più vasto di quanto si creda.

Un esperimento su un dizionario etimologico francese contenente 4.635 vocaboli francesi ha evidenziato le seguenti derivazioni, come risulta dalle relazioni degli studiosi della Columbia University:

n. 2.028 dal latino
n. 925 dal greco
n. 604 dal tedesco
n. 154 dall’inglese
n. 285 dall’italiano
n. 119 dallo spagnolo
n. 34 dal turco
n. 99 da lingue asiatiche
n. 62 da lingue amerindiane
n. 146 dall’arabo
n. 96 dal celtico
n. 10 dal portoghese
n. 36 dall’ebraico
n. 25 dallo slavo
n. 4 dall’ungherese
n. 2 da parlate australiane
n. 6 da altre radici
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4.635.= (*)
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I conti tornano, ma non c’è un solo termine in quel dizionario che possa essere considerato completamente francese. Per quanto riguarda la lingua italiana potrebbero variare gli addendi, ma la somma non cambierebbe.
Si ha subito l’impressione che vocaboli come “abbandonare”, “allocco”, “landa”, “borgo” e “gualdrappa” siano di derivazione germanica. Ma quanto vasto è in realtà il fenomeno? Il presente studio è appena indicativo e non esaustivo.
I toponimi con le desinenze in “ago”, “aga”, “igo” ed “iga” (Asiago, Soligo, Lorenzaga, Alpago, Grassaga, Maniago, Moriago, Osigo, Orsago, Umago, Vedelago, Lancenigo, Francenigo, Pianica, Lonigo….) risalgono alle antiche fattorie protoceltiche e galliche. Lo stesso si può, almeno in parte, dire delle località, come Basalghelle, che hanno conservato in qualche modo uno dei suoni suddetti nel corpo del toponimo.
Le desinenze in “lano” (Conegliano, Milano, Terlano, Martegliano, Pianzano, Primolano….) derivano dal tedesco “Land”. I fiumi hanno spesso dato il loro nome alle vicine località. Le radici celtiche “avon”, “asio”, “esa”, “iso” (Piavon, Treviso, Nervesa….) indicano insediamenti sui fiumi. Dal termine celtico “Bona = Burg = Castrum = Castello) derivano Bonomia = Bologna, Bonassola, Bonate, Bonea, Bonavigo e molti altri nomi di paese. La “Berghem” dei Galli Cenomani (“Bergheim “ in longobardo = Casa sulla montagna). Il termine celtico “brigo” voleva dire “altura”. Lo steso dovrebbe valere per i toponimi Berico, Spilimbergo, Solimbergo, ed altri. Dal vocabolo “seg” (tedesco “Sieg = vittoria”) derivano Susa, Segusio, Segusino…, Susegana, ma anche il nome del fiume “Rasego”, il quale indica una località nei cui pressi è stata conseguita un’ antica vittoria.

Numerosi sono anche i toponimi di derivazione gotica e la storia fornisce molte ed autorevoli motivazioni al riguardo: Castello di Godego (Castello dei Goti), Godega di S. Urbano (Gotica, ma anche S. Urbano dei Goti), Goito, Godiasco, Rovigo (anticamente “Rodigo”, tanto è vero che gli abitanti si chiamano “rodigini”). Treviso stessa fu una città gotica, ove sarebbe tra l’altro nato il Re Totila.
Anche i Franchi lasciarono indelebili tracce della loro presenza. Ne è prova il nome del paese di Colfrancui presso Oderzo, che deriva da “Curtis Francorum”.
Dalle tribù longobarde derivano le varie Farre (di Soligo, di Mel, di Alpago, d’Isonzo…).-“Faran” (tedesco “fahren”) significava viaggiare, spostarsi. Le migrazioni germaniche sono state gli spostamenti per eccellenza. Dai termini “Mahr = cavallo” ed “Hemma = recinto” deriva la Maremma, mentre “Gastaldo” proviene da “Gast = ospite” e “Halt = sostegno). La federa rimanda al morbido significato di “piuma fine” (“Feder” in tedesco), mentre la grinfia ricorda “grifan = afferrare”. La stamberga deriva da “steinberga”, cioè “casa di pietra”, mentre tanfo risale a “tampf” (“Dampf” in tedesco moderno con il significato di “vapore”).

Numerosissimi i cognomi. Anche per questi è qui possibile soltanto un accenno: Alighieri, Leopardi, Aldovrandi, Aliprandi, Arcibaldi, Araldi, Astolfi, Bernardi, Gonfalonieri, Gandolfi, Grimaldi, Rambaldi, Rinaldi, Tebaldi, Ubaldi….Garibaldi. E poi Bonaldi, Carli, Cappelletti, Corradini, Frigo, Franchi, Fedrigo, Ghirardi, Gottardi, Guicciardini, Salmoiraghi, Uberti, Lancellotti, Nardi, Zanardi….- Spesso si tratta di patronimici, i cui capostipiti componevano questa o quella migrazione dalle terre del nord sospinta da chissà quali eventi metereologici o sociali.
I vocaboli “arduo”, “bicchiere”, “bigotto”, “bottino”, “bretelle” (i Germani portavano i pantaloni!), “bugia”….derivano dalle parole longobarde “hard = hart = forte”, “behhari = Becher = bicchiere, “bi-god = per Dio, presso Dio”, “buite = Beute = spartizione, preda”, “brittil = redini”, “bausja = cattiveria, inganno”.

I toponimi sono più importanti e resistenti di qualsiasi altra parola, di qualsiasi monumento. Quando la gente ha chiamato un luogo con un nome, potrà cambiare tutto, ma quel nome rimarrà. Torniamo dunque ai toponimi. La Val Lagarina deriva dalla voce longobarda “lagaris”, oppure gotica “lagar”, nel senso tedesco attuale di “Lager”, cioè accampamento. Il fiume Bacchiglione rimanda alla radice germanica transitata nel tedesco moderno col termine “Bach = ruscello”. La città di Soave, invece, deriva da “Schwaben = Svevia” in ricordo di un’antica migrazione da quella regione per volere di Carlo Magno.

Intere espressioni come “far pagare il fio”, richiamano l’usanza germanica di pretendere un risarcimento in bestiame (Vieh, appunto) per cancellare un’offesa.

Eventi bellici, come quello del 286 a. C., convinsero i Romani a prendere atto della situazione etnica in talune zone e chiamarono Sena Gallica la nuova colonia, che è l’odierna Senigallia. Meta Langobarda divenne invece Mezzolombardo. In Veneto parecchie località confermano la presenza dei Galli (Prà dei Gài, località Gài….), come il cognome Ongaro e le “strade ongaresche” sono certamente da ricollegarsi con gi Ungari e con altri popoli così impropriamente denominati dalle scarse cognizioni popolari dell’epoca. Gli Ungari dovettero incidere profondamente la coscienza collettiva veneta, se nelle rogazioni per implorare la pioggia esiste perfino una litania che dice: “Ab ira Hungarorum libera nos Domine!”.

Non si creda che la rilevazione di prestiti linguistici germanici sia una scoperta recente. Almeno una ventina furono gli scrittori latini classici che, essendo di estrazione gallica, introdussero nei loro scritti numerosi celtismi. Di preferenze si trattava di termini relativi alle armi, all’agricoltura, ai veicoli, all’abbigliamento, all’allevamento del bestiame, al commercio.

La presente relazione considera in prevalenza etimi e toponimi ricorrenti soprattutto nelle regioni nord-orientali, ma utile sarebbe una completa rassegna di tutti i termini transitati dagli idiomi nordici nelle varie parlate di tutte le regioni dello stato italiano. Servirebbe sia per una seria valutazione culturale di indubbio interesse, sia per un’auspicabile revisione di numerose convinzioni non sempre giustificate dal punto di vista storico, nonché per un corretto rapporto tra i popoli che una vocazione europeistica, se autentica, presuppone.

(*) M. Pei. Histoire du language. Pag. 107.

(Convegno Internazionale di Germanistica, Treviso , Casa dei Carraresi, 23 marzo 1990).




LA LINGUA UMANA

“Ora la terra continuava ad avere una sola lingua e le stesse parole” (Genesi, 11;1)

Una lingua è più che una semplice somma di parole: essa è un sistema di simboli aperto. Per parole e proposizioni s’ intendono segni che rappresentano, ma non raffigurano, i concetti di esprimere. Il sistema aperto è basato su un ordine interno, realizzato mediante apposite regole, che consentono la formulazione di ulteriori espressioni, benché non ancora consolidate nel sistema stesso.

Le dimensioni della lingua sono:

a) comprensione e produzione di suoni (fonologia);
b) patrimonio lessicale (lessico);
c) regole che collocano le parole in periodi grammaticalmente corretti (sintassi);
d) significati di vocaboli e periodi (semantica).

La linguistica studia la lingua in quanto sistema di segni. La psicolinguistica considera le facoltà mentali coinvolte nel linguaggio. La pragmalinguistica esamina la lingua nel suo ruolo di comunicazione sociale. La sociolinguistica si occupa del comportamento linguistico tipico di un dato gruppo.

Venticinque secoli fa il faraone Psammete compì un esperimento, che oggi sarebbe certamente proibito agli studiosi del comportamento. Il suo scopo era di stabilire quale fosse stata la lingua originaria dell’ uomo ed a tal fine fece trasportare due neonati in una località desertica. Due anni più tardi i piccoli furono ricondotti a casa e si constatò che gli unici suoni, che essi erano in grado di pronunciare, assomigliavano al belato degli ovini, loro unici compagni nel deserto. Qualcuno osservò che “bekos” in frigio significava oltretutto “pane” e si concluse un po’ semplicisticamente che il frigio doveva essere la protolingua dell’ umanità.
Questa conclusione non dovette tuttavia apparire soddisfacente, se nei secoli successivi gli interrogativi sull’ origine della lingua non solo non accennarono a diminuire, ma si riproposero con maggiore insistenza.
“Nel principio era la Parola”, esordisce il Vangelo di San Giovanni e la lingua viene proposta come il più umano e il più divino degli eventi. Nel 1769 Johann Gottfried Herder vinse il concorso indetto dall’ Accademia Prussiana delle Scienze con un saggio, secondo il quale la lingua non era da considerarsi un dono di Dio, bensì una scoperta umana. Da allora le ricerche sulla glottogenesi proliferarono ipotesi che andavano dall’ imitazione dei suoni più familiari ai significati inconsci delle danze rituali, dalla significazione dei gesti alle naturali risonanze delle cose. La Società Linguistica Francese fu giustamente molto critica al riguardo e nel 1866 giunse a vietare nei propri statuti sia ogni teoria glottogenica, sia ogni proposta per la realizzazione di lingue cosiddette universali.

Le scienze interessate all’argomento tuttavia non disarmarono. Mentre veniva registrato un gran numero di comportamenti linguistici infantili, furono escogitati ingegnosi giuochi per i bambini ed eseguiti minuziosi confronti anatomici. Sulla genesi della lingua si sviluppò un’ ampia letteratura, specialmente negli ultimi vent’ anni, e benché una esauriente spiegazione non sia ancora stata data, possiamo almeno affermare di essere meno disinformati sull’ importante questione.

Alcune certezze

Per prima cosa fu accertato che il linguaggio infantile non corrisponde in alcun modo alla lingua degli adulti resa frammentaria e sfigurata dall’immaturità. I bambini imparano l’idioma materno in fasi successive, secondo un programma universalmente valido e non influenzabile da metodi pedagogici, cosicché l’accelerazione o il rallentamento dell’apprendimento risulta immune contro ogni intervento esterno. Per nulla interessati alla rettifica del loro discorso, i bimbi acquistano la capacità di esprimere correttamente un certo numero di frasi, indifferentemente dal fatto che il messaggio sia loro giunto in maniera incompleta e difettosa. La lingua, cioè un complicatissimo sistema di regole, viene appresa in tenera età, anche da individui psicologicamente meno dotati, secondo un procedimento diverso da quello degli adulti, che spesso dimostrano una mai superata difficoltà nel corretto impiego di talune regole grammaticali che pure sono d’uso comune.
L’apprendimento della lingua materna segue un iter che non è paragonabile ai metodi per il successivo studio delle lingue straniere, in quanto il primo risulta più agevole, meno faticoso, più profondo. Non si tratta di un esercizio cosciente, bensì di una generalizzata imitazione. All’ età du due anni il 20% delle espressioni corrisponde esclusivamente a ciò che è stato udito, ma un anno più tardi tale percentuale è già ridotta al 2%. Sotto certi aspetti si potrebbe affermare che il lobo cerebrale deputato al linguaggio legge soprattutto le consonanti. Le vocali servirebbero per veicolare le connessioni grammaticali. Il sistema assomiglierebbe, per assurdo, ad un codice fiscale.
Decisiva per l’acquisizione linguistica è l’ interazione. Fino al terzo anno di vita questa è limitata ai genitori ed in seguito allargata ai coetanei. E’ stato osservato come i figli di genitori sordomuti, benché abbiano spesso l’ occasione di udire interi discorsi tramite la televisione, non imparino a parlare, bensì ad usare il noto linguaggio gestuale. E’ pertanto probabile che molti, petulanti “perché” rivolti dai bimbi ai genitori non corrispondano tanto ad un’ esigenza conoscitiva, quanto alla necessità di mantenere la continuità del dialogo.
L’apprendimento linguistico procede molto speditamente. A diciotto mesi il bambino comincia a parlare, ma il lessico si triplica tra i due ed i tre anni e mezzo, passando dai cinquecento ai più di milleduecento vocaboli. A cinque anni il bambino conosce già le regole fondamentali e le più importanti eccezioni della propria lingua. All’ inizio della pubertà la fase di accumulazione linguistica è praticamente conclusa e chi non abbia già appreso la propria lingua materna, non la imparerà più.
Una conferma di ciò è stata fornita da un episodio quanto mai crudele scoperto in California nel 1971. Una ragazza era stata segregata dalla propria famiglia fin dall’ età di venti mesi e ogni suo tentativo di parlare era sempre stato punito. Quando, dodici anni più tardi, la segregazione finalmente cessò, l’ adolescente non solo non era in grado di capire, ma apprendeva il linguaggio con estrema lentezza.
Il fatto fu confrontato con il caso di un’ altra ragazza, resa cieca dalla meningite all’età di diciannove mesi. Questa crebbe comunicando in un primo tempo mediante un proprio linguaggio gestuale. All’ età di sette anni un’ intelligente maestra cominciò a scriverle qualche parola sul palmo della mano e due mesi più tardi la bambina conosceva già duecento parole. Un mese dopo fu scritta la prima letterina e a dieci anni il lessico era completamente uguale a quello dei coetanei. Era accaduto che il tatto aveva sostituito l’ organo della vista.

La parola prima e dopo la nascita

Lo sviluppo linguistico inizia già nel grembo materno ed ha più precisamente sede nella corteccia cerebrale sinistra, a meno che il nascituro non sia mancino. Come è noto, la specificità della massa cerebrale è già determinata nella ventesima settimana dopo il concepimento e l’ embrione reagisce a sinistra a stimolazioni linguistiche e a destra agli altri stimoli.
Immediatamente dopo la nascita il neonato è in condizione di distinguere la voce, cioè il linguaggio, dagli altri rumori. Soltanto due mesi più tardi è la volta delle voci note e sconosciute, maschili o femminili, espressioni di gioia o di collera. Tutto lascia intendere che l’ essere umano disponga di rilevatori linguistici innati che gli consentono di riconoscere prima la lingua e poi di isolarne le componenti. La ritmizzazione del balbettio compare nel secondo semestre di vita ed incomincia così ad attestarsi una voce di comunicazione. Verso l’ ottavo mese inizia la prosodia, cioè l’ imitazione della voce materna. E’ comprensibile come l’ individuo non sia mai più in grado di apprendere un altro linguaggio con la perfezione di quello materno, alla cui prosodia egli si è trovato esposto fin dai primi istanti di vita. Sempre intorno all’ ottavo mese il bambino inizia il raddoppiamento sillabico dei propri suoni, dando origine a manifestazioni come “baba”, “nana”, “papa”, “mama”, “tata”, sorprendentemente uguali presso tutti i popoli. Nella lingua georgiana il vocabolo “mama” significa padre, come “dada” significa madre, ma la novità sta nel fatto che si tratta di un’ autoimitazione e non più di suoni sentiti, o meglio un collegamento tra l’udire ed il parlare che porterà, tra il 12° e il 18° mese, alla prima formulazione di parole vere e proprie.

La primavera della lingua

La fase iniziale si manifesta mediante monosillabi che tuttavia non sono paragonabili a quegli degli adulti. Gli scienziati amburghesi Clara e William Stern hanno dimostrato, già all’inizio del nostro secolo, che il monosillabo ‘miao’ non significa soltanto “gatto”, ma “questo è un gatto”, “vorrei accarezzare il gatto”, “ho paura del gatto”. Il monosillabo contiene dunque il significato di un intero periodo.
Il bimbo si occupa dunque di analizzare sintatticamente la lingua che egli ode, benché non sia in grado di collegare logicamente nemmeno due delle sue parole. Al posto di quest’ ultima operazione si verificherà un allineamento verticale di singoli vocaboli, come potrebbe risultare dal seguente colloquio registrato:

Bimbo : Auto, auto.
Adulto: Che cosa?
Bimbo : Andare, andare. Corriera, corriera.
Adulto: Che cosa? Bicicletta? Vuoi dire bicicletta?
Bimbo : No
Adulto: No?
Bimbo : No.

Le espressioni infantili sarebbero state disposte orizzontalmente da un adulto come segue: “L’ automobile che ho appena udito mi ricorda che ieri abbiamo viaggiato con l’ autobus e non con la bicicletta”. Due momenti presiedono pertanto alla necessità di sviluppare una sintassi: il primo è analitico e scompone singole cose e procedimenti, cui vengono attribuiti dei nomi; il secondo è sintetico e collega i singoli dettagli con l’ aiuto della sintassi fino a costituire un’ unità provvista di senso. Nel periodo di tempo che intercorre tra il 12° e il 18° mese di vita il bimbo usa da 10 a 50 vocaboli cui attribuisce un intero significato preposizionale. Giunge poi la fase in cui sono presenti due vocaboli, come ad esempio: “Palla qui, vino no, zucchero si”.
Negli anni ’60 un linguista americano credette di aver scoperto le leggi grammaticali che presiedono a questa fase periodale di due parole: le parole-perno (poco numerose, di difficile contenuto) e le cosiddette parole aperte (il cui numero cresce celermente). Il discorso del bambino in due termini consisterebbe sempre in una parola-perno e in una parola aperta. Questa ipotesi fu però contraddetta da numerosi specialisti del linguaggio infantile, tra i quali il famoso psicologo Roger Brown dell’Università di Harvard.
Una fase successiva, vale a dire quella dei periodi con tre parole, non esiste. Essa appartiene al normale sviluppo linguistico infantile. A questo punto assumono importanza le relazioni tra cosa e cosa ed i bambini non si limitano più a chiamare gli oggetti col loro nome. La presenza di un oggetto, la sua collocazione o la improvvisa sparizione (vale a dire la relazione della cosa con se stessa), le azioni di persone in qualche modo collegate con un oggetto, nonché il luogo dove le cose si trovano, risvegliano il massimo interesse. I nomi corrispondenti ad animali domestici o a giocattoli vengono imparati per primi, trattandosi dei centri di attenzione più mobili, e le parole esprimono in un primo tempo concetti dinamici, prima che statici, relativi sia alla propria nutrizione o al desiderio che altri agiscano in un determinato modo.
Dopo la fase dei due vocaboli subentra la necessità di strutturare gerarchicamente i periodi ed il bimbo si trova alle prese con la sintassi. Il mondo linguistico si divide in cose ed azioni, poi in soggetti, oggetti e relazioni tra le azioni stesse. Dalle precedenti relazioni bivocaliche “Tu libro” e “Leggere libro” si giunge al “Tu leggi libro” con tanto di soggetto, predicato e oggetto. E’ evidente che una tale parlata è ancora tanto povera di termini di funzione, mentre predominano i termini di contenuto, che Roger Brown la chiamò “lingua telegrafica”. Mancano inoltre gli articoli, le preposizioni, gli avverbi e parecchie desinenze.

La crescita dei significati

La psicolinguista Eve Clark dell’ Università di Stanford ha avanzato una interessante ipotesi. Il significato di un vocabolo non è un’ unità monolitica, ma consiste in un certo numero di particolarità. Il bimbo impara in un primo tempo soltanto una o due di tali particolarità, allargandone il significato in un momento successivo. Con la parola “miao” verrà pertanto indicato un primo significato dell’ intero concetto concernente il gatto, per esempio il pelo. La parola “miao” varrà dunque per tutti gli animali abbastanza piccoli, sia per le bestioline in stoffa, i colli di pelliccia, le pantofole felpate. Man mano che l’ apprendimento di altre parole progredisce, si completano anche gli altri significati riferiti alla prima parola.
Un fenomeno degno di nota è che le parole “meno” e “più” hanno un significato intercambiabile nel linguaggio dei bimbi intorno ai tre anni e mezzo. E’ probabile che in un primo tempo venga inteso il solo significato di ‘quantità’ e che i concetti di più e meno affiorino successivamente.
L’ampliamento dei significati sembra essere uno dei più importanti fattori dell’ apprendimento linguistico non solo dal punto di vista semantico, ma anche da quello sintattico. I bambini tentano di isolare le regole della lingua udita, introducendole sperimentalmente nella loro capacità di comunicazione fonica. In inglese i plurali si formano, ad eccezione di qualche caso, con la desinenza s. Un bambino può avere automaticamente imparato che il plurale di foot è feet, ma appena egli avrà imparato la regola generale, sarà portato a formare l’automatico, ma errato plurale “foots”, finché non si sarà abituato all’ eccezione. Le desinenze irregolari ed i complessi paradigmi dei verbi forti tedeschi non consentono al bambino uno schema pratico per formulare una regola. Egli procederà pertanto per tentativi, ma questi non gli saranno molto utili ed il risultato sarà che soltanto a quattro anni un bambino viennese o amburghese potrà raggiungere una certezza linguistica.
Il concetto della negazione compare a circa un anno e mezzo di età. Hennign Wode dell’ Università di Kiel ha studiato come ciò avviene nei bimbi di lingua tedesca. Prima compare la negazione monosillabica, cioè il rifiuto e basta. Poi si registra la negazione bivocalica, per esempio “no, caramella” nel senso di “questo è dolce e non amaro”. Questa negazione viene ampliata per giungere a concetti “no picchiare”, nel senso di “non picchiare”. Soltanto più tardi il ‘no’ diventerà ‘non’,sussistendo tuttavia ancora la difficoltà della negazione dei sostantivi e la problematicità dell’ avverbio ‘mai’.
Dopo il quinto anno di età il bimbo riesce a passare dalle proposizioni coordinate alle subordinate e alle relative. Frasi come “il ragazzo ha spinto l’ amico ed è fuggito” diventano “il ragazzo, che ha spinto l’amico, è fuggito”. Ciò corrisponde all’ introduzione di un principio di economia nella frase, che porta a una notevole semplificazione del discorso ed alla comprensione di molte parole nella loro plurima funzione. Per esempio l’ articolo femminile plurale nel concetto ‘le piante’ può esprimere sia una limitazione ad alcuni, sia una generalizzazione a tutti gli alberi. I passivi irreversibili vengono inoltre imparati prima dei passivi reversibili. “Il sasso è lanciato dal ragazzo” risulta più assimilabile che “Il bambino è amato dalla madre”, in quanto l’ illogicità del contrario (il ragazzo viene lanciato dal sasso” fissa immediatamente e facilmente il concetto nella mente.

Il ritorno alle origini

La speranza della linguistica del XIX secolo di risalire, mediante la grammatica storica, alla lingua umana originaria, andò delusa. Anche le più ardite scoperte non riuscirono a risalire oltre i diecimila anni, mentre l’ età della lingua umana è collocabile tra i 40.000 ed i 4 milioni di anni.
La comparsa della lingua fu posta in relazione con l’ ampliamento dei volumi cerebrali e potrebbe essersi sviluppata presso gli ominidi in un tempo assai lontano. Poiché però soltanto il 20% delle nuove masse neocorticali svolge una funzione connessa col linguaggio, questa ipotesi non è vincolante e la lingua poteva esistere prima o essere comparsa anche dopo.
Qualche teoria insiste su una primitiva lingua gestuale, dalla quale si è poi sviluppata una serie di suoni, che ha sostituito gradualmente la funzione dei gesti. Un’ altra ipotesi pone in stretta relazione lo sviluppo linguistico con quello degli attrezzi impiegati dall’ uomo, lasciando intendere come una grammatica utensile risulti per lo meno tanto complessa quanto quella linguistica. Altri hanno indicato nei suoni emessi dai primati superiori le lontane matrici delle attuali nostre parole. La posizione eretta sembra essere stata determinante, grazie alle sue conseguenze anatomiche, per l’ acquisizione del linguaggio umano. La laringe è scesa di parecchio e le cavità orali e nasali hanno assunto una particolare angolazione rispetto alla cavità faringea. L’ impedimento della contemporaneità delle funzioni respiratorie e deglutitorie aumentò inoltre lo spazio per la modulazione dei suoni nei pressi delle labbra vocali.
Lo scienziato americano Philip Liebermann eseguì, negli anni ’70, minuziosi confronti tra i crani dell’ uomo di Neandertal e dell’ uomo moderno. Ne risultò che il primo non era in grado di pronunciare le vocali a, i ed u, e che il suo linguaggio poteva tutt’ al più apparire molto infantile. L’ anatomista nuovaiorchese Jeffrey Laitman ha tentato più recentemente di ricostruire le possibilità fonetiche dell’ uomo primitivo, prendendone in considerazione la base cranica. Ne derivò che l’ australopithecus africanus, vissuto circa tre milioni di anni fa nelle savane africane, non disponeva di facoltà fonetiche superiori a quelle delle scimmie antropomorfe. L’ uomo di Neandertal possedeva invece, centomila anni fa, un’ articolazione fonetica paragonabile a quella di un bambino tra i 2 e gli 11 anni. Soltanto all’ uomo di Cro-Magnon è attribuibile la completa facoltà linguistica e ciò è databile a circa 40.000 anni fa.
Fino agli anni ’60 si riteneva che nessun animale disponesse di una qualsiasi forma di linguaggio. Poi alcuni psicologi americani riuscirono ad insegnare una specie di lingua gestuale a qualche scimmia antropomorfa. Tale avvenimento sollevò il problema della quantità di intelligenza necessaria per poter giungere alla lingua. Una asimmetria anatomica dei due emisferi cerebrali esiste anche nelle scimmie, ma la relativa funzione non fu mai chiarita. A ciò si aggiunga che molti animali sono in grado di distinguere tonalità linguistiche.
Un principio della lingua è la capacità di esprimere concetti. Prendiamo ad esempio il concetto ‘albero’.Evidentemente esistono concetti prelinguistici. Lo spirito può avere il concetto di albero senza disporre di un’ apposita parola per definirlo. La concettualità presuppone una capacità classificatrice che a sua volta disponga di facoltà di astrazione e generalizzazione. Di tutti gli alberi visti debbono così essere isolati gli aspetti che distinguono gli uni dagli altri e ciò che rimane verrà generalizzato in una categoria di cose che corrispondono a tutti gli alberi, compresi quelli ancora mai visti.
La concettualità fu considerata per molto tempo come una conseguenza della cosiddetta percezione plurimodale, vale a dire la capacità umana di sintetizzare i messaggi che giungono al cervello attraverso i sensi, in maniera che alcuni dati siano sufficienti ad integrarne altri nell’ immaginazione. Accadrà così che, sentendo nitrire, ci si possa raffigurare un cavallo. La percezione plurimodale, per quanto possa sembrare sorprendente, non è una facoltà esclusivamente umana, bensì comune ad alcuni animali.
Non esiste una lingua senza una sufficiente memoria, altrimenti le parole imparate svanirebbero subito. Ora la psicologia preferisce parlare di rappresentanza anziché di rappresentazione ed in effetti la lingua si basa su un alto grado di capacità rappresentativa. In un primo tempo vengono percepite le relazioni tra gli avvenimenti reali e la loro rappresentazione. I movimenti, mediante i quali l’ ape informa le compagne sulla disponibilità del cibo, non costituiscono probabilmente una rappresentanza delle cognizioni relative all’ ubicazione dei fiori e pertanto non possono essere considerati una lingua.
La lingua deve essere creativa. Essa non consiste in un repertorio rigido di segni, ma è aperta a nuove espressioni. Concetti come “cappello per viso” o “frutto che brucia e fa piangere”, presenti nel linguaggio di tribù primitive per significare rispettivamente la maschera e i ravanelli, dimostrano la presenza di questa creatività. Determinante per la lingua è tuttavia la capacità di destinare dati simboli sia al concetto di cose, sia al concetto di relazioni tra cose. Dato che tale capacità non sembra però essere un privilegio dell’ uomo, sorge spontanea la curiosità di conoscere il motivo per cui la natura abbia dotato i primati superiori di tanti presupposti, ma non abbia completato l’ evoluzione linguistica, realizzando un profondo vuoto tra questi e l’ uomo.
Il poeta Octavio Paz ha confermato la soluzione di continuità tra animali ed uomo con i seguenti versi citati da Dieter E. Zimmer nel suo studio sulla lingua, che costituisce il supporto del presente lavoro:

“La lingua è l’ abitazione di tutti,
la casa solitaria sull’ orlo dell’ abisso.
Scambiarsi parole è umano.”

Il pensiero dei linguisti

Le teorie sull’ ereditarietà linguistica sono avversate dalle seguenti considerazioni:

1) Nulla è ereditario in campo linguistico e tutto viene acquisito mediante condizionamenti. Il bimbo non impara singoli dettagli della lingua, non riproduce solo elementi mnemonici, ma isola regole dalle frasi udite, norme che verranno impiegate nella costruzione di nuove, proprie espressioni non necessariamente udite in precedenza. Ne consegue una parlata alquanto diversa dal modello materno, ma successivi aggiustamenti sono resi possibili mediante lodi o rimproveri.
2) Di opinione contraria fu il linguista americano Noam Chomsky, secondo il quale esisterebbero, sotto la struttura superficiale del periodo, particolari operazioni logico-formali capaci di trasformare un limitato numero di strutture grammaticali base nella varietà di tutti i possibili casi. Secondo questa ipotesi esisterebbero tra le diverse lingue stretti legami di parentela e la grammatica di Chomsky attribuisce maggiore rilevanza al pensiero che alla cosmesi linguistica ed ortografica. Un’ altra affermazione di Chomsky sostiene che le regole grammaticali sono stabilite da specifici geni linguistici e che pertanto sono innate. La lingua è dunque un organo come la vista o l’udito, ma soltanto l’ uomo ne dispone, benché il suo possesso non sia in relazione con l’ intelligenza. Soltanto l’ apporto genetico spiegherebbe come l’ uomo riesca a raggiungere la propria competenza linguistica utilizzando lo scarso materiale a disposizione.
3) Diverse ancora sono le conclusioni dello psicologo ginevrino Jean Piaget. Secondo quest’ ultimo soltanto il funzionamento dell’ intelligenza è fissato geneticamente e l’ acquisizione linguistica è un sintomo della facoltà cognitiva umana. La capacità di riconoscere i simboli si manifesta prima del linguaggio e quest’ ultimo se ne serve poi insieme ad altri elementi.

La controversi tra l’ ipotesi di Chomsky e le idee di Piaget non è ancora risolta, ma quest’ ultimo potrebbe avere ragione. In realtà sembra chiaro che il pensiero possa esistere anche senza la lingua, ma bisogna pur ammettere che il verbo influenzi la mens in qualche modo. Minuziosi studi condotti nel 1956 da Benjamin Lee Worf condussero alla enunciazione del cosiddetto principio di relatività linguistica. In altre parole l’ uomo sarebbe una specie di prigioniero della propria lingua, in quanto costretto dalla propria forma espressiva. Non si può negare, a titolo esemplificativo, che le parole apache destino nei bianchi una certa meraviglia, quando indicano la pioggia come qualcosa di bianco che cade dal cielo, ma a loro volta gli indiani hanno diritto di meravigliarsi sentendo nominare ferrovia ciò che nell’ espressione risulta come un sentiero femminile fatto di ferro.
Maggiori chiarimenti in proposito derivano dla test dei colori. Poiché i colori sono particolari frequenze dello spettro elettromagnetico, la loro percezione sarà probabilmente uguale presso tutti gli uomini, ma il numero di colori che trovano una denominazione differisce da lingua a lingua. La popolazione Dani della Nuova Guinea conosce parole soltanto per il bianco e il nero.
La sperimentazione ha stabilito che i più spiccati colori dello spettro, i cosiddetti colori focali, vengono percepiti e ricordati in maniera uguale dall’ uomo, sia che la lingua disponga, o meno, di adeguati vocaboli per denominarli. Le parole per i colori focali vengono imparate più celermente che quelle per gli altri colori. La possibilità di chiamare un colore con un dato vocabolo facilita nella memoria il riconoscimento di quel colore, ma ciò non significa che la lingua formi la percezione, bensì l’ opposto.

Le categorie percettive e linguistiche non sono separabili. Compito della ricerca futura sarà tuttavia di stabilire come le lingue, le culture e gli individui si comportino nell’ isolare, nel categorizzare ed infine nel denominare gli innumerevoli aspetti della natura.

(Le lingue del mondo, - 4 - Valmartina editore, Firenze.)



I WALSER E LE COLONIE TEDESCHE DELLA CARNIA E DEL CADORE

(saggio Prof. Ardito Desio)


Nel precedente incontro sui Walser, io ho avuto l’imprudenza di segnalare un fenomeno analogo che esiste in Friuli, e ho detto poche parole sulla presenza di queste colonie tedesche in due località del Friuli e in una terza, nel Cadore, ma molto prossima al Friuli.
Questa imprudenza mi è giovata di essere chiamato qui adesso. Io non sono uno specialista di questo argomento, ma vi posso dire soltanto che il fenomeno dei Walser si ripete in forma direi analoga anche in queste tre località del Friuli e del Cadore. Le località sono Timau, Sauris e Sappada. Sappada, dicevo, è in Cadore, non proprio in Friuli.
Vi dirò che la ragione principale che mi ha fatto pensare a una affinità con i Walser, è che anche qui si parla un dialetto tedesco arcaico, sul quale io non ho competenza, ma sul quale qualcuno qui presente potrà dire qualche cosa.
Riguardo alla quota in cui sono distribuiti questi villaggi, è giusto ricordare che in Friuli i limiti altimetrici sono molto più bassi in proporzione al resto delle Alpi. Per esempio, a Timau, il capoluogo è a 816 metri, ma è distribuito anche più in alto. In Friuli abbiamo i ghiacciai sotto i 2000 metri; tutti i limiti altimetrici del bosco, delle coltivazioni ecc. sono più bassi che nelle altre parti delle Alpi. Quindi 816 metri per noi è una quota molto elevata. Sauris, che forse è l’abitato più grosso, è distribuito fra 837 e 1462 metri. Quindi anche qui abbiamo un villaggio distribuito ad alta quota. A Sappada, il centro abitato è a 1217 metri.
Come vedete, il fenomeno di queste popolazioni che sono immigrate e poi rifugiate ad alta quota, si ripete in queste località del Friuli. Io non so, linguisticamente, se hanno affinità o meno tra loro, ma il caso vuole che proprio in questi giorni sia uscito un piccolo giornalino che pubblichiamo noi friulani a Milano, intitolato Il Fogolâr Furlàn di Milano. Vi ricordo che noi Friulani siamo dei Ladini e quindi facciamo parte di un ceppo linguistico diverso dall’italiano, ceppo linguistico che risale nei secoli molto più lontano dell’italiano e che corrisponde al latino della decadenza. In questo giornalino c’è un articolo dal titolo: Timau-Tischelwang: esistenze e destino di un’isola linguistica tedesca in Friuli. L’autore di questo articolo, il quale è un competente dell’argomento, è il dottor Nerio De Carlo. Poiché è presente, vorrei che ne parlasse lui.
Io ho portato qui una Guida della Carnia, che fornisce alcune notizie su queste località. Ne vorrei ricordare una sola, sulle origini di questa colonia di Timau, un poco singolari. L’autore di questa Guida, cui hanno collaborato tutti specialisti, è Giovanni Marinelli, un grande geografo friulano. Dice la Guida come Timau abbia visto aumentare la sua popolazione in seguito alla scoperta e alla utilizzazione delle miniere di rame argentifero, che risultano segnalate a Valgrande, Valpiccola e Pramerio e nello stesso pendio della cresta che gli sta immanente tra i 1470 e i 1578, ma certamente preesistevano a tale periodo e, stando ai documenti noti, non risalgono oltre il XIV secolo, mentre la villa di Timau è ricordata fino in atti del 1234, una singolarità rispetto ad altre fondazioni di colonie tedesche nel versante meridionale delle Alpi. Alla chiamata di minatori d’oltralpe è probabile che si debba l’origine tedesca della popolazione, la quale, come già vedemmo, parlava ancora l’antico dialetto, per quanto assai deformato e usato oggi solo dalle donne e dai ragazzi. Da tempo immemorabile la lingua della predica e della confessione è il friulano, quella della scuola l’italiano e, occorrendo, il friulano.

(Ardito Desio, Professore Emerito dell’Università di Milano e Accademico Nazionale dei Lincei, è presidente del Fogolâr Furlàn di Milano)

La Questione Walser – Atti della prima giornata internazionale di studio, Orta 4 giugno 1983, pag. 161-162. Fondazione Arch, Enrico Monti, 1984.





AFFINITA’ ELETTIVE TRA LE COLONIE TEDESCHE A SUD DELLE ALPI

Oltre a considerevoli “affinità ambientali” di ordine geografico, cui il Prof. Ardito Desio ha autorevolmente accennato, esistono molteplici “affinità elettive” che giustificano l’intervento di friulani in questo convegno sui Walser, cioè in un incontro improntato all’autentico significato di παίδεια, vale a dire confronto di modi d’essere.
Come è noto, in Sud America esistono cospicue comunità di emigrati friulani, non di rado raggruppate in floridi e vasti centri. In molti casi si tratta di allevatori e proprio uno di questi mi comunicò che alla vendita del bestiame provvedevano gruppi di “tedeschi” non meglio precisati, ma residenti nelle vicinanze. Da informazioni assunte in diverse sedi sembrerebbe che nella zona non esistano insediamenti costituiti da emigrati germanici, austriaci o svizzero-tedeschi, pur presenti altrove. Taluni indizi lasciano supporre che si tratti di Walser, partiti dalle loro terre al tempo delle grandi migrazioni.
Ciò premesso, e prima di parlare di altri insediamenti germanofoni a sud delle Alpi, sia concessa una precisazione. Nel corso degli interventi che sono preceduti, ma soprattutto in margine ad essi, è stato frequentemente denominato “dialetto” il linguaggio delle minoranze etniche. I friulani rifiutano la definizione di dialetto per le lingue non maggioritarie. In qualche occasione quest’ultime sono state definite anche “patois”, ovvero medi di esprimersi “da piedi”, dato che il termine deriva dal francese “pattes”, che significa appunto “piedi”. E’ il caso di rammentare invece che tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro appartenenza etnica, non si esprimono con le estremità, bensì secondo natura con la lingua, col cuore e con lo spirito.
Come sul versante meridionale delle Alpi occidentali abitarono, ed abitano, i Walser, sull’omonimo versante delle Alpi centro-orientali esistettero, e resistono, altre isole linguistiche di lingua tedesca. La peculiare collocazione geografica degli uni e delle altre costituì, e costituisce, senza dubbio un filo conduttore nel loro non facile destino.
Sull’Altipiano di Asiago c’era un tempo un’iscrizione, ortograficamente anemica ma di profondo significato:

“Dise saint Siben
Alte Kameün Prüdere Liben
Slege Lusaan Genebe Wüsche
Gell Rotz Roboan“.

Ecco la traduzione: “Questi sono i sette comuni, fratelli cari: Asiago, Lusiana, Enego, Foza, Gallio, Rotzo, Roana”. E’ singolare, ed esemplare, il costume di chiamare il viandante e l’ospite “fratelli cari”.
Maggiore la consistenza germanofona in provincia di Verona: tredici comuni. Di particolare interesse è inoltre l’insediamento nell’Altipiano del Cansiglio, al crocevia delle province di Treviso, Pordenone e Belluno.
Stiamo parlando dei cosiddetti “Cimbri”. E’ ovvio che non può trattarsi dei discendenti di quel popolo danese che nell’anno 101 a:C. fu vinto dal console romano Mario. Il loro linguaggio tradisce una provenienza bavaro-tirolese e l’emigrazione potrebbe aver avuto luogo nel XII secolo. E’ per esempio sintomatico l’uso di termini come “Pfeit” per “Hemd” (camicia), “Luppa” per “Käselab” (caglio), “Pfinztag” per “Donnerstag” (giovedì), “Ertag” per “Diestag” (martedì). Alcuni suoni medioaltotedeschi come la ê e la ô diventano inoltre ea ed oa, es. “schnea” per “Schnee” (neve) e “štroa” per “Stroh” (paglia). Si dice anche “pom” per “Baum” (albero) e “loga” per “Lauge” (lisciva).
Un tempo la consistenza numerica dei Cimbri dovette essere tutt’altro che esigua, specialmente in provincia di Vicenza. Si racconta che un comandante vicentino, casualmente alleato dei padovani, per non far conoscere il suo piano strategico nemmeno a quest’ultimi, (la prudenza non è mai troppa), si rivolse alle truppe in tedesco.
Quanto alla convinzione della discendenza cimbra, si dice che in occasione di una lontana visita di un regnante danese nella zona, questi sia stato ricevuto con il grido “Viva il nostro Re”. In realtà il nome della popolazione potrebbe derivare dal termine tedesco “Cimbarmann”, parola antica che significava “lavoratore del legno”, occupazione principale nella zona nei tempi passati.
La fama di sincerità dei Cimbri oltrepassò i confini degli antichi comuni. In talune zone del Veneto si diceva fino a poco tempo fa: ”Sei onesto come un Cimbro”. Il celebre poeta veneto Andrea Zanzotto usa, mi pare, il vocabolo “cimbrico” in una sua recente composizione per proporre situazioni dell’anima altrimenti non esprimibili con altro termine.
Fino all’inizio di questo secolo le isole linguistiche cimare godettero di una certa protezione: veniva perfino stampato il Catechismo in quel linguaggio. Poi tale considerazione divenne sempre più decaffeinata. Negli ultimi tempi la Regione Veneto ha dimostrato rinnovata sensibilità per i problemi di quella cultura. In Friuli e nel Bellunese esistono altre isole linguistiche tedesche: Sauris-Zahre, Timau-Tischelwang, La Val Canale-Kanaltal, Sappada-Pladen.
Il toponimo Tischelwang significa “bosco delle borse dei pastori” e deriva dal nome di pianta “Täschelkraut”, ossia la “Caspella bursa pastorum” molto frequente nella zona. Il linguaggio di Timau conserva tratti del tardo antico tedesco. Ne sono prova le sonorità delle consonanti “b”, “d” e “g”, il mantenimento dei suoni sillabici nelle desinenze e soprattutto l’inconfondibile e simpatico allungamento fonetico carinziano. Quanto al toponimo Timau, esso richiama l’antica divinità carsica “Timavus”.
E’ il caso di sottolineare che per secoli comunità etniche diverse convissero nel reciproco rispetto dell’identità e della cultura altrui. Nell’attuale, più ampio discorso europeo quel civile atteggiamento meriterebbe di essere citato come esempio per futuri sviluppi.
Questa esposizione sulle isole tedesche in Veneto ed in Friuli, cui sarebbe doveroso aggiungere anche Lusern/Lusern e la Val Fersina/Fersental, termina con la proposta di un saggio linguistico, riferito a quelle antiche culture, e di una poetica nota di nostalgia per una realtà che, purtroppo, si sta stemperando senza che la nostra società si renda conto della perdita.

Saggio linguistico di Timau/Tischelwang: (Bruno Petris, Tischlbong – Ud 1980).
Longast Kindar Reaslan
Dar lonast kimp mit groassa schrit,
unt da suna schaint sou schian.
Is schbalbl liap in eistlan
Un plianant glindarlan, stiawmiatarlan und engalan.
Da Kindar sent lusti und splint,
da olta muatar maudart in da suna
mit dar petsch in da hont.
Da nocht is stila und dar nachtlingar sink.
Dar monaschain laichtat sou schian
Una da stearna glonznt in himbl.

Frühling, Kinder und Blumen
Der Frühling kommt mit großem Schritt
Und die Sonne scheint so schön.
Das Schwälblein tut schön im Nest
Und es blühen Schneeglöckchen, Stiefmütterchen und Vergissmeinnicht.
Die Kinder sind lustig und spielen,
die alte Mutter träumt in der Sonne
mit dem Rosenkranz in der Hand.
Die Nacht ist still und die Nachtigall singt,
del Mondschein leuchtet so schön
und die Sterne glänzen im Himmel.

Primavera, bimbi e fiori

La primavera giunge con lungo passo
Ed il sole brilla così bello. La rondinella abbellisce il nido
E fioriscono campanule, viole del pensiero e nontiscordardimé.
I bimbi sono allegri e giocano,
la vecchia madre sogna al sole
col rosario in mano.
La notte è quieta e canta l’usignolo.
Il chiaro di luna luccica così bello
E le stelle brillano in cielo.

Botschaft

Winden aus allen Fernen, die ihr auf Reisen geht,
gebt meiner Sehnsucht Stimme, wenn ihr mein Land durchweht.
Grüßt mir die Heimatberge, grüßt mir die Wälder weit.
Grüßt mir die lieben, alten Wege der Jugendzeit.
Bringt mir noch einmal Kunde aus jener trauten Welt,
die mich mit tausend Banden jetzt noch umfangen hält.

Messaggio

Venti da ogni lontananza, che vi recate in viaggio,
date voce alla mia nostalgia, quando soffiate sul mio paese.
Salutatemi i monti della patria, salutatemi i boschi estesi.
Salutatemi i cari, vecchi sentieri della gioventù.
Portatemi ancora una volta notizie da quel fido mondo,
che ancor mi avvince con mille nodi.

(Erna Künast)


(La questione Walser – Atti della prima giornata internazionale di studio, Orta 4 giugno 1983,
- Fondazione Arch. Enrico Monti 1984).



IL VENETO E’ LINGUA, NON DIALETTO

“Sono appunti fatti per ajutar la memoria propria e altrui” (Nicolò Tommaseo)

La contrapposizione tra lingua e dialetto è un fatto antico.
Già nel Vangelo (Matteo, 26 – 73) si viene a sapere che Pietro venne riconosciuto da un’ addetta al Sinedrio a causa del suo dialetto, fatto che conferma che perfino Gesù e gli Apostoli usassero con disinvoltura tale linguaggio.
Con l’ apparizione del “volgare” la resistenza della lingua dotta deve essere stata tenace, a giudicare dai monumenti letterari in latino, peraltro pregevoli, risalenti ai secoli tra il X e il XIV. Altri tentativi di rivalsa furono esperiti nel XV secolo, durante l’ Umanesimo. Poi il “volgare” rimase l’ indiscusso interprete delle rispettive culture.
Diverso fu tuttavia l’ uso che della lingua “volgare” fecero gli abitanti della città e della campagna.Entrambe le classi adattarono il linguaggio alle circostanze e finalità quotidiane, spesso impermeabili anche se conviventi nelle medesime località.
Non ne seguì una contrapposizione come al tempo della comparsa del “volgare”, bensì un consolidamento di due modi di parlare, che si concretò anche in una generale dimensione di derisione, e spesso di disprezzo, nei confronti di quanti usavano il linguaggio parlato nella campagna.
Costituisce prova di quanto sopra affermato la comparsa, verso il XII secolo, del termine francese “patois”, che divenne successivamente sinonimo di “dialetto”. E’ il caso di rilevare, come anche il linguista francese Dauzat concorda, che la paroila “patois” deriva dal francese “pattes”, cioè “piedi”. Sarebbe come dire che gli abitanti della campagna parlano con i piedi.
Gli abitanti della campagna parlano invece, come tutti gli esseri umani, con gli organi della fonazione sapientemente e senza discriminazioni elargiti da madre natura!

Caratteristiche della lingua

Lo spagnolo, il francese, l’ italiano, l’ inglese… sono lingue. E che sarebbero mai il veneto, il bergamasco, il romagnolo? Si tratta forse di banali grugniti o di ragli sonori? Oppure di sommessi belati?
Il glottologo Angelo Monteverdi sostenne che un linguaggio che servisse a scrivere poesie, prosa di svago (racconti, fiabe, romanzi), prosa devozionale (prediche, vite di santi, catechismi), nonché atti giuridici e notarili, non è una lingua. Soltanto quando un linguaggio dimostrerà la sua idoneità in tutti i campi culturali, compresi i settori politico e amministrativo, può essere considerato una lingua.
Ne consegue che il francese del XII secolo, il prestigioso linguaggio della Chanson de Roland, non era una lingua. Nemmeno l’ italiano di Dante, Petrarca, Boccaccio era una lingua! Bisognerà attendere il Quattrocento, quando il dialetto toscano penetrerà anche nell’ Italia Settentrionale, nonché la sua normalizzazione condotta dal Bembo e dai teorici successivi. Anche il catalano sarebbe una lingua da poco tempo.
Se questa considerazione vale per lo sviluppo, essa deve valere anche per il declino delle lingue, comprese quelle che sono ritenute eterne.


Le caratteristiche necessarie per definire una lingua possono essere sintetizzate come segue:
1. Originalità grammaticale
a) nella fonetica,
b) nella morfologia,
c) nel lessico;

2. Originalità della genesi storica
3. Secolare tradizione letteraria
4. Coiné linguistica
5. La coscienza di parlare una lingua
6. L’ esistenza di un corpo sociale che la consideri come espressione di cultura.


La lingua veneta

Le prime cinque caratteristiche sono pacificamente presenti nel linguaggio veneto. Troppo lunga sarebbe l’ elencazione dei loro tratti, ma basti pensare alla presenza dei suoni come “dh” e “th”, all’ assenza del passato remoto e alla mutilazione del futuro, al cospicuo contingente di vocaboli assolutamente originali, alla vasta serie di voci latine semanticamente differenziatesi dai continuatori delle stesse basi nelle altre lingue romanze.
Il veneto fu per secoli una vera lingua che servì negli atti notarili, nei rapporti diplomatici, nella storiografia, nella poesia, nel teatro, nella conversazione colta dei ceti più elevati, nelle transazioni internazionali. Da un’ indagine sul Veneto, redatta per ordine di Napoleone nel 1806 da estensori impazienti di poter dimostrare che nulla era il resto del mondo di fronte ai lumi della ragione di estrazione francese, risulta inoltre che “il notissimo bel dialetto tuona maestoso nel Foro”.
Quanto alla coscienza di parlare una lingua, l’ esatta dimensione di questa realtà può desumersi dall’ alto grado di ostilità, che non sarebbe tale qualora l’ avversario da smentire non fosse così grande.
Viene spontaneo chiedersi come mai una tale lingua, come la veneta, possa essere improvvisamente declassata a dialetto per cedere il passo ad un altro dialetto, quello toscano. Nessuna giustificazione è valida, se non quella della costrizione o del gioco di potere. Ma, come si sa, il potere può anche disgregarsi col tempo.
L’ attuale situazione e la mentalità che ne deriva riservano dunque al riconoscimento dello Stato l’ ultima parola in fatto di classificazione di una parlata come lingua o come dialetto. Se ciò fosse logico, non è da escludere che il romagnolo parlato anche a San Marino possa diventare lingua ufficiale a tutti gli effetti, se il Governo di quello Stato lo deliberasse.
Ritorna spontaneo chiedersi se, con tali presupposti, la differenza tra lingua e dialetto esista davvero, oppure sia solo strumentale a questo o quel potere.

La congiura contro il Veneto

Per secoli la contrapposizione linguistica tra città e campagna in Veneto fu molto lieve: tutte le classi parlavano veneto. Recentemente si manifestò il disegno di imporre il toscano, peraltro già superato dal linguaggio dei politici (l’ italiese) e da quello televisivo anche nelle circostanze in cui tale veicolo è tutt’altro che indispensabile, come l’ambito familiare, le comunità agricole, l’artigianato…, settori da sempre ancorati ad un a dimensione veneta che ha delineato l’inconfondibile identità di queste colonne della società veneta. Forse il vero bersaglio non è il modo di parlare veneto (a chi gioverebbe ?) , ma la società veneta colpevole di essere dinamica, disciplinata, non incline a subire ricatti ed ottica mafiosi. Si vuole eliminare in fin dei conti un modello di società diverso da quello che si desidera avere.
Le metodiche per realizzare la congiura contro il veneto sono le solite:
- derisione mediante stereotipi di involontaria subalternità (la classica serva) appartenenti al passato prossimo;
- discriminazione nella scuola e nella pubblica amministrazione;
- svalutazione dei contenuti linguistici propri del popolo veneto.
E’ qui il caso di ricordare per analogia il comportamento dei francesi in Algeria durante la colonizzazione. Per convincere gli algerini a rinnegare la propria lingua araba e adottare il francese dei colonizzatori, quest’ultimi ripetevano (a mò di lavaggio del cervello) che l’arabo non era adatto ai tempi moderni, in quanto lingua medioevale sorpassata e incapace di adeguarsi al mondo industrializzato. Ora, stranamente, Parigi è la città con il più alto numero di scuole di arabo in Europa. Come coerenza, non c’è male.
Si traggano le debite deduzioni anche per quanto riguarda l’attuale denigrazione del veneto, intesa a classificare come cittadini di categoria inferiore coloro che lo parlano.

La pretesa superiorità delle lingue maggioritarie

Si dimentica troppo spesso che l’italiano fu il dialetto di Firenze, come il francese fu il dialetto di Parigi.
Nessun termine di cultura appartiene originariamente a queste lingue, in quanto la quasi totalità dei termini della cultura moderna provengono dal greco, dal latino, dall’inglese o da altre lingue. Parole come “teologia”, “chimica”, “computer”, “scienza”, “nevralgia”…erano parole sconosciute a quanti parlavano toscano qualche secolo fa.
La Columbia University ha compiuto un’indagine sorprendente su un vocabolario etimologico francese contenete ben 4.635 vocaboli base. Eccone i risultati: 2'028 termini provengono dal latino, 925 termini derivano dal greco, 604 vocaboli sono di origine germanica, 154 parole derivano dall’inglese, 96 dal celtico, 285 dall’italiano, 119 dallo spagnolo, 146 dall’arabo, 10 dal portoghese,, 36 dall’ebraico, 4 dall’ungherese, 25 dallo slavo, 6 da lingue africane, 34 dal turco, 99 da differenti lingue asiatiche, 62 da lingue indigene americane, 2 dall’Australia e Polinesia. Parole francesi: zero.
E’ stato intenzionalmente scelto un esperimento riguardante il francese per non urtare suscettibilità e per amore dell’imparzialità, ma chiunque può, per analogia, giungere a ben altre conclusioni anche rispetto all’italiano.
Dove risiedono, dunque,le motivazioni di una pretesa superiorità di altre lingue su quella veneta? Perché mai la lingua veneta dovrebbe avere un complesso di inferiorità?

Risultati della congiura contro il veneto

Gli spropositi linguistici ottenuti con lo stemperamento del veneto ad opera dell’italiano sono innumerevoli.Parte di tali risultati è stato purtroppo raggiunto grazie alla passività, alla collaborazione o alla complicità di taluni veneti, il cui autolesionismo supera in ciò perfino la loro tradizionale laboriosità.
I seguenti tre casi possono dare un’idea dei risultati ottenuti:
a) Una mammina rimprovera bonariamente il proprio figlio per aver indossato il pullover in maniera sbagliata: “Ma, Pierino, non vedi che hai infilato su il davanti per il di dietro?”
b) Una zitella in partenza per fare la conoscenza con i futuri parenti, compari,ecc., chiede al ferroviere: “A che ora parte la stazione?”
c) Uno scolaro, con riferimento ai bachi da seta (i mitici “cavalièr”), che quando diventano gialli non fanno bozzolo, vanno cioè “in vàca”: “Tutti i cavalieri della mia mamma sono andati a puttane”.
d) Un cittadino, richiesto se gli piacesse la domenica senza automobili, rispose: “piacissimo!”.

Conclusioni

Esiste un interesse estraneo affinché i Veneti siano laboriosi (in modo da pagare tante tasse), stupidi (in modo che altri facciano ciò che vogliono), rinunciatari (in maniera che altri abbiano radio, televisione, giornali, scuole), rassegnati quando la fabbrica chiude (in modo da emigrare senza creare problemi alla gerarchia importata).

Esiste un interesse dei Veneti affinché:
- la lingua materna dei veneti e di ogni altro popolo rimanga lo specchio dell’uomo e il veicolo verbale di ogni gente;
- non si verifichino l’alienazione di se stessi, il naufragio del singolare e il sacrificio dell’identità primigenia;
- i titolari della parlata veneta e di altri linguaggi non diventino tributari del neoimperialismo linguistico, cui corrisponde la crisi del rigetto psichico;
- venga rispettato da tutti il diritto alla parlata locale come momento espressivo prioritario;
- non intervenga la servitù culturale, che non sarà mai origine di miglioramento;
- il linguaggio pubblico non separi dal mondo dei sentimenti, dalla legge del cuore e dalla saggezza della coscienza;
- il monolinguismo alienante non turbi le leggi biologiche ed i limiti ecologici.
Abbandonare la propria lingua materna non significa sbagliare un calcolo, ma deviare la destinazione della vita.

Osservazione finale

Gli avversari della lingua e dell’identità venete conoscono perfettamente la teoria della penetrazione indolore. Essi sanno anche che cosa significherebbe il risveglio di un popolo di oltre cinque milioni di individui e procedono, perciò, con estrema cautela, fermandosi in caso di resistenza.
La narcosi fa parte della tattica ed è condizione indispensabile durante questa operazione di amputazione, cui il popolo veneto è sottoposto. La narcosi è il nemico da battere, altrimenti si verificherà una perdita ancora maggiore di quella sofferta dal popolo veneto, quando la sua parte migliore fu mandata a morire sul fronte russo.

(Quaderni Veneti, n. 1, 1991 – a cura del centro studi Agostino Bertoldo, Verona)



I C O N C E T T I D I M A S C H I L I T A’ E F E M M I N I L I T A’ N E L L A L I N G U A T E D E S C A

“Li creò maschio e femmina”
(Genesi, 1:27)

Il solo vocabolo “Mann” copre gran parte della casistica riferita all’ uomo, benché siano presenti nella lingua tedesca le separate espressioni “der Kerl = l’ uomo”, “der Junge = il giovinetto”, “der Knabe = il ragazzo”, “der Jüngling = il giovinetto”. Si tratta di vocaboli maschili e soltanto l’introduzione del neutro “das Jünglein”, per esprimere l’ultimo significato di cui sopra, sembra costituire eccezione, ma il motivo grammaticale e non naturale.
Diverso è il caso dei vocaboli che si riferiscono alla donna. La parola “Frau” è femminile, ma “Weib” è neutro, come “Fräulein” (1) e “Mädchen”, ma per quest’ ultimi due termini vale la sopra citata motivazione grammaticale. “Frau” e “Weib” si contendono, dunque, l’espressione del concetto femminile nella lingua tedesca da due posizioni. Il secondo vocabolo può significare “nascondere”, “velo”, “veste nuziale”, “la sposa velata”.
La terminologia privilegiata da Martin Luther nella traduzione dell’Antico Testamento è rappresentata da “Weib”, mentre raramente ricorre “Frau”, vocabolo che nel Nuovo Testamento è addirittura assente, anche quando Gesù si rivolge con tenerezza a Maria, come nell’ episodio delle nozze di Cana, o come, nei momenti drammatici della crocifissione, sempre rivolto alla madre, le addita Giovanni come figlio.
Certo, Martin Luther ha usato anche la parola “Männin” per “donna”: la derivazione da “Mann” = uomo” ricalca esattamente l’espressione ebraica “ischa”, che pure significa donna, in quanto “isch” significa uomo. In realtà Martin Luther ha insistito nel proposito di distinguere la donna dalla femmina dei generi animali, usando il bel vocabolo “frewlin” (come nella scena, ormai densa di nubi minacciose, quando Dio annuncia al patriarca Noè l’imminente diluvio), devolvendo “Weib”, specialmente al diminutivo “Weibchen”, al retaggio del mondo animale. – “Frau” conserva indiscutibilmente il significato di “moglie, signora, padrona, donna di rango”, anche nella traduzione di Martin Luther, ma il vocabolo ricorre raramente, come è stato accennato (2).
Si può ragionevolmente ritenere che nel XVI secolo la parola “Weib” fosse più frequentemente usata in riferimento alla donna, ma che successivamente siano intervenute rilevanti modificazioni per quanto riguarda il significato.
Attualmente non si può sostenere che “Weib” sia sinonimo di “Frau”. Intanto, al contrario di quanto avveniva nel XVI secolo, la prima parola è ora usata raramente ed assume connotazioni peggiorative, paragonabili alle forzature italiane “pescivendola” o “lavandaia”, pure non sempre giustificabili in riferimento alle corrispondenti professioni.
La riesumazione del vocabolo “Weib” non è assente nella moderna letteratura tedesca. Basti pensare a Friedrich Nietzsche, che anche stilisticamente deve essere considerato un maestro della lingua tedesca. E’ però subito doveroso aggiungere che gli accostamenti all’ altro significato ormai rappresentato da “Frau” in maniera consolidata, sono tali e tanti da supporre un’ intercambiabilità dei due termini. Si potrebbe tutt’ al più rilevare che Nietzsche usa di preferenza “Weib” al singolare e “Frau” (dunque “Frauen”) al plurale (3). In altra occasione, tuttavia, l’ autore ha usato ben 32 volte “Weib”, oppure il diminutivo “Weibchen”, e solo 2 volte “Frauen”, il che è pure significativo (4).
Le implicazioni del termine “der Mann = l’ uomo” o delle altre parole connesse con lo stesso, ma differenziate specialmente in base all’età, sono relativamente poco numerose. Al contrario i termini “Weib” e “Frau” hanno sviluppato una quantità di parole nella lingua tedesca, che determinano altrettante situazioni non riscontrabili nel lessico di altre parlate. Abbiamo così il significativo “Backfisch” per la ragazzina (attualmente sommerso dall’ anglismo “Teenager”, che tuttavia non rende tutte le peculiarità indicate dall’ espressione tedesca), “Fräulein” per donna adulta nubile, “Braut” e “Verlobte” per la promessa sposa. “Frau, Gemahlin, Ehefrau, Ehegattin” per la moglie, e così via fino ad “Hausfrau” per la casalinga, mentre “Dame” e “Witwe” assumono unicamente collocazioni sociologiche ed anagrafiche, se si prescinde da pochi esempi, peraltro non trascurabili (5).
Si può dedurre che il termine “Weib” ha ceduto il passo alla parola “Frau” in conseguenza delle inevitabili trasformazioni che interessano lo sviluppo storico e culturale, che nei secoli ha influenzato tutte le lingue e, per quanto qui ci riguarda, la lingua e la società tedesca. Resiste con “Weib” il significato di rappresentante del sesso femminile, ma il contenuto non configura né un’ identità femminile umana, né un fenomeno fisico. Specularmene la delimitazione si trasferisce, ovviamente, nei rispettivi attributi “weiblich” e “fraulich”, conferendo loro caratteristiche meramente femminili, considerando, nel secondo caso, la donna quale valore base della famiglia e, quindi, della società.


(1) Il femminile di “Fräulein” non è completamente assente nell’ uso locale e nel linguaggio infantile è riferito alla maestra.
(2) (Salomone) ebbe settecento mogli, principesse…e le sue mogli piegarono gradualmente il suo cuore (I Re, 11,3).
(3) – Ich habe eine höhere und tiefere Auffassung des Weibes .
_ Man kann nicht hoch genug von den Frauen denken.
_ Wenig versteht sich das Weib auf Ehre.
_ In Sachen der Ehre sind die Frauen schwerfällig.
_ Du gehst zum Weibe? Vergiss die Peitsche nicht!
(4) Also sprach Zarathustra: Von alten und jungen Weiblein = Delle donnicciole vecchie e di quelle giovani-
- A. KrönerVerlag. Stoccarda 1953, pag. 60.
(4) Theodor Fontane: „Sie war überhaupt keine Frau: im güunstigsten Fall war sie eine Dame = Non era per niente
Una donna: nella più favorevole delle ipotesi era una signora (!).

(Le lingue del mondo, Valmartina Editore, gennaio – febbraio 1990.)



L’ORIGINALITA’ GRAMMATICALE DELLA PARLATA VENETA


Esistono diverse teorizzazioni circa l’ortografia della parlata veneta, ma nessuna sembra possedere quella solidità che la faccia emergere come norma certa ed indiscutibile.
Questa carenza non significa discontinuità nella koinè veneta, rappresentando essa soltanto una discontinuità nel tessuto linguistico, che è comune ad altre lingue maggioritarie o statali. In italiano, per esempio, ricorre talvolta più di una versione ortografica (camicia = pl. camicie o camice; provincia = provincie o province; figliolo o figliuolo) senza che ciò ne sminuisca la solidità ortografica.Per il linguaggio veneto si notano le presenze della “c”, della “zh”, delle “dh” e “th”, della “ô” e della “j”, ma l’esemplificazione risulta per difetto. Inoltre sono assenti la “q”, la “gl”, la “z” e, particolare notevole, le consonanti doppie.
Caratteristiche ancora più rilevanti si notano nel settore grammaticale vero e proprio. Emerge qui l’assenza del passato remoto. L’argomento meriterebbe un maggiore approfondimento anche alla luce della sociolinguistica, poiché il fenomeno si riscontra pure in altre lingue non neolatine. Lo studio delle costanti presenti nei vari linguaggi potrebbe far emergere una condizione storica, una mentalità comune, un modo di vedere la realtà forse condizionato dagli stessi eventi. Ma l’argomento potrà essere scandagliato in altra occasione, non dimenticando, ovviamente, eventuali motivazioni derivati da un precedente substrato linguistico, responsabili, forse, della mancanza della “m” davanti a “b” e “p”. Esiste, invece, un’allocuzione abbastanza originale per indicare il futuro, che pure esiste come verbo nella parlata veneta. Potrebbe essere definito come un tempo futuribile e si esprime con “sòn drìo…= sto facendo…”. Non è detto che la forma ricalchi quella tedesca, ma nella Germania meridionale è ancora in uso una specie di quarto ausiliare, cioè il verbo “tun” più l’infinito per esprimere una situazione linguistica del genere. E questo verbo significa appunto “fare”.
Molto frequente è poi il doppio dativo. Un esempio lo indica più chiaramente: “A mi me piàse = mi piace”. Lo stesso si può dire per il dativo al posto del nominativo: “Mì vàe = vado”. Il soggetto è dunque ben presente che in italiano e ridotti sono pertanto i casi del sottinteso: “Él me à dît = mi ha detto”.
Il verbo modale o servile “dovere” è reso nella parlata veneta con il verbo “avere” seguito dalla preposizione “da”: “Mì ò da ‘ndàr = devo andare; mì ò da vèder = debbo vedere”. Questa forma è obbligatoria anche nella proposizione interrogativa, ma stavolta il soggetto, oltre che obbligatorio, è proposto come nella regola tedesca dell’inversione: “Ó-jo da savèr ?= devo sapere?; vò-tu ‘ndàr? = vuoi andare?”.
A qualcuno queste differenze rispetto ad altri linguaggi contigui a quello veneto potranno sembrare anche modeste. Lo stesso si potrebbe affermare pre le differenze tra lo spagnolo ed il portoghese, ma non per questo le due lingue neolatine perdono la propria peculiare identità. Ad aumentare il numero dei “rari nantes in gurgite vasto” a vantaggio della parlata veneta, si possono comunque considerare le seguenti integrazioni.
Un’aggiunta vocalico-consonantica è presente nella preposizione articolata “nel”, la quale evidenzia anche un “te” sia al maschile e femminile, sia al plurale dei complementi di stato al maschile e femminile, sia al plurale dei complementi di stato e moto a luogo, come dimostrano i seguenti esempi: “in tèl cànp = nel campo; in te-a càneva = nella cantina; in te-e famèje = nelle famiglie”.
Le tre coniugazioni venete hanno desinenze prive di vocale nell’infinito presente. La caratteristica è presente in alcune lingue neolatine, ma non nell’italiano, per cui si potrebbe ipotizzare un influsso provenzale esercitato verso il 1300 dai molti Trovatori che nella nostra terra hanno trovato ospitalità. La presenza e l’importanza di questi poeti provenzali è testimoniata da ampia documentazione, ma soprattutto dal frammento di Vangelo apocrifo pervenuto tramite la Scuola dei Battuti di Conegliano e dal grande libro del Graal esistente presso la biblioteca arcivescovile di Udine.
Nella parlata veneta sono sconosciuti gli articoli “lo” ed “uno” davanti a vocaboli inizianti con “z” o “s” impura.Ma attira l’attenzione il rafforzamento di taluni verbi riflessivi mediante la preposizione “in” con valenza di moto a luogo figurato: “insognàrse, indormentàrse = sognarsi, addormentarsi”.
I participi passati sono pure degni di nota.Nella parlata veneta questo tempo della prima coniugazione ha la desinenza in “a” accentata: “’ndà, magnà, lavà, sburtà = andato, mangiato, portato, lavato, spinto”. La desinenza cambia invece in “st” nella seconda coniugazione: “podèst, vìst, bevèst = potuto, visto, bevuto”. Nella terza coniugazione la desinenza torna ad essere accentata, ma si tratta di una “i”, eventualmente seguita da una “t”: servì, dît, forbì = servito, detto, lustrato”. Nel passato prossimo il soggetto, anche se preceduto da aggettivo possessivo, viene ripetuto conservando la distinzione dei generi, come per accentuare l’appartenenza dell’azione al soggetto stesso: “lu l’è ‘ndà = è andato; èa la à catà = essa ha trovato; el nòstro portèl l’è serà = il nostro cancello è chiuso”. Ugualmente degna di nota è la ripetizione del complemento oggetto nell’indicativo presente, quasi a voler accentuare la consistenza dell’accusativo eventualmente con valenza di pssessivo: “Mì el scòlte el fiòl = ascolto il figlio; mì el scòlte el me fiòl =ascolto mio figlio”.
Le affinità obiettivamente riscontrabili tra il linguaggio veneto e altre realtà linguistiche neolatine non debbono necessariamente dimostrare una derivazione subalterna da quest’ultime. Si tratta tutt’al più di una morfologia ereditata da substrati precedenti. A quest’ultimo proposito è il caso di ricordare che che ogni probabilità anche la lingua venetica disponeva di un’unica forma di preferito, che evidenziava la desinenza in –r. Si può ragionevolmente pensare che già allora non esistesse il passato remoto Infatti anche l’aoristo stigmatico con la desinenza –to non alluderebbe ad una biforcazione tra imperfetto e passato remoto. Per aoristo s’intende un tempo passato “indeterminato” presente soprattutto nella coniugazione dei verbi greci.Le affinità tra lingua veneta e altre lingue neolatine sono, invece, la conseguenza di un processo che nei secoli fu obbligatoriamente seguito da ogni lingua per appropriarsi dei termini di cultura moderni. Tali termini risultano indispensabili per poter esprimere un discorso moderno, mantenendone sia la forma linguistica originaria, sia la pronuncia secondo i valori che le lettere hanno nella fonetica di quest’ultima.
Un paragone col corpo umano sembra pertinente. Il nostro organismo, nutrendosi di cellule vegetali e animali, produce nuove cellule umane. Nessuna allergia respinge questo processo avanzando il pretesto che gli alimenti sono composti di cellule estranee all’essere umano. Anche le lingue debbono nutrirsi di cellule provenienti da altre lingue, non importa se dominanti o morte, pur di ottenere i termini di cultura che man mano maturano.
Il prestito linguistico può essere sincronico o diacronico. Nel primo caso si ha un prestito verticale (ossia dalle lingue dominanti), oppure orizzontale (ossia dalla lingue moderne vicine). Nel secondo caso il prestito deriva dalle lingue morte. E’ il caso di ricordare che tali lingue sono il greco e il latino e che tutte le lingue moderne ne sono tributarie per termini di cultura in esse transitati.
Il “metabolismo linguistico” contrasta con le teorie di quanti propongono la purezza delle lingue. Se questi avessero ragione, una lingua sarebbe un ostacolo contro lo sviluppo mentale del popolo che la parla, il che è assurdo. Anche se i puristi si presentano come i conservatori della lingua, in realtà essi sono i responsabili deol suo indebolimento. Una lingua deve infatti proseguire, altrimenti i parlanti si troverebbero in una condizione di incomunicabilità, cioè d’impossibilità di leggere il mondo circostante che la lingua dovrebbe per definizione saper rappresentare ed interpretare.
Un altro sguardo alle originalità grammaticali della parlata veneta ci convince che, anche se vi transitano termini di cultura moderni, l’individualità linguistica è tutt’altro che compromessa.
Il linguaggio veneto evita in genere le parole composte, numerosissime invece nelle lingue neolatine e ancor di più in quelle germaniche. Si considerino come esempio i giorni della settimana, nei quali il sostantivo generalmente è preceduto dal complemento. In Veneto questo sostantivo è assente, tanto è vero che ben cinque dei suddetti giorni sono resi con “lùni, màrti, mèrcore, zhiòba, vènere”. Questo è un segno che l’influenza di altri linguaggi rispetto all’indicazione del tempo è uno degli strumenti indispensabili per dimensionare l’esistenza.
Degna di nota è anche la scarsa differenziazione, in certi casi, tra i generi espressi da forme pronominali, quasi a sottolineare l’importanza dell’individuo in sé, senza distinguerlo tra femminile e maschile. Questa peculiarità ricorre spesso nel dativo, per esempio: “Mì ghe dàe = gli do, le do, do loro”.

Non si è preteso in questo articolo di passare in rassegna tutte le originalità grammaticali della parlata veneta, ma di aver dato dei lineamenti che possono costituire motivo di curiosità o di studio più approfondito.

N.B.- Per le esemplificazioni è stato scelto il linguaggio della zona settentrionale della Marca Trevigiana ai confini con il Friuli, cioè la parlata del territorio di Mansuè – Oderzo, in modo da non escludere gli influssi ladineggianti, che da secolo sono patrimonio della parlata veneta. La punteggiatura, ancorché corrispondente ad accenti tonici, viene inoltre sempre evidenziata nelle esemplificazioni per una maggiore rispondenza fonetica.-

(Quaderni Veneti, n. 2, 1992 - a cura del centro studi Agostino Bertoldo, Verona)



LA PARLATA DI GOTTSCHEE

E’ convinzione comune, in tutte le isole germanofone situate oltre il confine linguistico tedesco, che le loro radici siano molto remote nel tempo e nello spazio. Così però non è, perché le origini sono la conseguenza di una migrazione dal Tirolo e dalla Carinzia. Più precisamente i coloni giunsero in Carniola, Friuli e Veneto dalle zone dell’alta Pusteria, del Goriziano e dell’Ortenburghese. Si trattò di una migrazione interna nell’ambito del Patriarcato di Aquileia, che si estendeva fino alla Drava, cioè fino ai limiti dell’Arcivescovado di Salisburgo. Il patriarca Bertoldo di Andechs, fratello del duca Ottone VII di Merano e della regina Gertrude d’Ungheria, madre di Santa Elisabetta, fu uno dei più assidui promotori di questi insediamenti. Si ritiene che l’iniziativa gli sia stata suggerita nel 1219 da suo fratello, il vescovo Ecchart di Bamberg. La parentela linguistica degli alloglotti di Pladen/Sappada, Zahre/Sauris, Tischelwang/Timau, Zarz/Sorica e Rut indica una comune origine.
Anche per Gottschee/Kočevje fu così, solo che la sua comparsa è collocabile all’inizio del XIV secolo. Come accadde ad altre popolazioni tedesche, stabili da secoli al di là dei confini linguistici, , anche gli abitanti di Gottschee dovettero lasciare la loro terra dopo seicento anni di ininterrotta, pacifica convivenza con la popolazione slovena. Oggi la numerosa comunità di Gottschee è sparsa specialmente in Germania, Austria e Stati Uniti. La sua parlata è diventata la lingua ufficiale dei periodici raduni o dei solitari mormorii casalinghi.
A seconda dell’originaria provenienza alcuni gruppi di Gottschee conservano particolarità linguistiche che si distinguono da altre componenti della stessa comunità. L’eredità pusterese si riconosce per esempio nelle seguenti espressioni:
- Nomal = crusca(medio alto tedesco ome). Mentre in Punteria si dice numal, a Sappada e Sauris noumal, nella parlata di Gottschee resistono ancora umail, numäl, umöl.
- Pacht = spazzatura (medio alto tedesco bâth). Nella Punteria orientale è usato il termine pocht e per Gotteschee puucht.
- Schirbe = tegame (antico alto tedesco scribi). A Sappada, a Sauris e in Punteria è mantenuta la versione širbe e similmente per Gotteschee šierba.
- Amma = balia (tedesco moderno Amme) diventa nella parlata di Gottschee ammain, ammo, ammaiš.
Interessante è il vocabolo zümittn = solstizio (tedesco moderno Sonnenwende), non tanto perché in Carinzia gli corrisponde il termine sunnewentn, ma perché da questo concetto deriva il nome della lucciola (Lampyris noctiluca), che è chiamata žümmitkhaaverle , cioè “coleottero del solstizio”.
La trasformazione della vocale “e” in “a” è frequente e denota uno stretto legame con le realtà linguistiche austro-bavaresi.
- Paar = orso (tedesco moderno Bär).
- Wakh = via (tedesco moderno Weg). Anche nell’idioma di Gottschee è inoltre presente la trasformazione in “oe” del suono lungo della vocale “a”, come ricorre sovente nel Tirolo orientale:poed per Bad = bagno, ploesn per blasen = soffiare, hoesn per Hasen = conigli e gloes per Glas = vetro. Si tratta di uno sdoppiamento vocalico di fronte a consonanti dentali, caratteristica del medio alto tedesco. Le strofe di un inno locale potranno meglio definire i tratti della parlata di Gottschee:

Testo originale Tedesco moderno Italiano

Dü hoscht lei oan Attein, oan Am- Du hast nur eoinen Vater, Hai solo un padre e una madre,
mein darzue. Eine Mutter dazu. Hai una patria sola,
ragazzo di Gottschee
Dü hoscht lei oan Hoimot, gött- Du hast nur eine Heimat, La gente di Gotteschee
Scheebarscher Pue. gottscheerischer Bub. ha lo stesso sangue:
De gotscheearbarschn Leite hent Die gottscheerischen Leute tutti sono come fratelli
Olle oan Plüet. Haben alle ein Blut, e tutti sono uguali.
Sheint olle bie Priedre, sie sind alla wie Brüder, Dio padre che sei in cielo,
sheint olle sho güet. Sind alle so gut. Ti preghiamo tanto,
Gott Vüeter im Himmel, Gott Vater im Himmel, permetti che la nostra
bier patn Di schean. Wir bitten Dich schön, terra resista nel
Sho liess ins insher Hoimot So lass uns unsere Heimat nostro cuore.
In Harzen petschetean. In Herzen bestehen.



(Etnie – Milano -, anno VI, 1985, n. 9)



IL VINO NELLE ISCRIZIONI VENETICHE

Venticinque secoli fa era già attuale l'invito a moderare l'assunzione di bevande alcoliche.Secondo recenti intuizioni è stato possibile tradurre 116 delle oltre 200 iscrizioni venetiche disponibili. Dieci riguardano il vino e il suo uso. Le traduzioni sarebbero apprezzabili informazioni ai visitatori dei musei se apposte accanto ai rispettivi reperti.Sul manico di un recipente per vino (Ca 5), rinvenuto in Cadore, si legge: "Avendo sorseggiato fin qui riattingi ancora del vino trimoscato".E' un chiaro invito a un bis. Ciò che sorprende è la denominazione del vino in questione, che sarà stato certamente sontuoso, e tutto lascia supporre che già allora esistessero diversi tipi di vite.Sempre in Cadore è stato trovato un secchiello (Ca 4) con la raccomandazione: "Ehi, quando ingurgiti sino qui, colpisci i cavalli". Stravolta è un avvertimento, affinchè il guidatore sia sobrio. Dala stessa zona proviene un'altra interessante scritta: "Rallegrandoti riattingi sino qui della limpida bevanda" La particolarità consiste nell'uso dell'attributo "sajnatej" che era solitamente riservato alla divinità. ed equivale qui ad una istigazione estetica. L'accostamento del vino alla massima ispirazione è evidente. A Canevoi di Cadola (Belluno) era affiorato un secchiello che ora non si trova più, ma del quale esiste uno schizzo (B 1) nel quale si legge:"E ora ubriaco a fianco di questo...secchio, abbi paura anche dei bimbi accanto, scarrozzando intorno". Vengono quindi identificate le possibili vittime dell' intemperanza.Nel 1911 fu scoperto in Slovenia un orcio (Ta 1) con due sole parole:"Rimani giovane". Si trattava delle presunte proprietà del vino locale di mantenere a lungo la gioventù. Ma che tipo di vino poteva mai essere? Forse il noto "vinum pucinum" che Livia, moglie dell'Imperatore Augusto, si faceva arrivare da Duino, che non è lontana dal luogo del rinvenimento? A Padova è conservata una piccola brocca (Pa 15) con la frase:"Chiunque entri, vstargli accanto Dio". In altre parole "Dio con voi". L'augurio sembra un'ottima pubblicità sia per il vino servito in quel recipiente, sia per la locanda di riferimento, l'osteria della speranza.Sempre a Padova si legge su un vaso (Pa 16):"In questa borraccia ci sono cento discordie". E' una chiara allusione alla rissosità di quanto esagerano nel bere. A questa iscrizione fa eco un altro avvertimento desunto da una tavoletta (Es 23) conservata ad Este:"Sebbene il duca sia potente, quando si ubriaca è un villano".- Su una ciotola di bronzo risalente al IV secolo a.C. (Es 120) si legge: "Ingordamente inghiottita, affrettandosi sulla strada sino aa noi dopo essere disceso dai monti". Il reperto, proveniente dalla zona dei Colli Euganei, è ancora oggetto di studi, ma è evidente che si tratta di un saluto al viaggiatore e di un invito a ristorarsi dopo aver superato l'asperità delle alture.Un boccale di ceramica infine (*Es 135), tovato ad Arquà Petrarca e ancora in fase di studio (come evidenzia l'asterisco nella sigla), riporta la scritta: "Dono del suolo, quanto volentieri (lo bevo)". In realtà l'iscrizione potrebbe anche significare "Dono del suolo, birra, questa mi piace (bere)".- L'espressione, oltre che elittica (cioè priva di qualche elemento grammaticale), è anche un anagramma e conserva lo stesso significato sia nella lettura da destra a sinistra che viceversa. In quest'ottica ci sarebbe un termine che significa "birra", ma il dono del suolo rimarrebbe soprattutto il vino.A questo punto l'unica sintesi possibile sembra quella formalizzata in un Salmo Responsoriale recitato a Valdobbiadene durante una cerimonia religiosa voluta dalla Confraternita del Prosecco nel 1986: Signore, che vita è mai quella di chi non ha vino?-

L I N G U E M I N O R I : P A R O L E S O M M E R S E

“Se i vecchi morti ci comparissero in sogno,
parlerebbero in dialetto e molti di noi
non potrebbero capirli”.

La campagna ha fatto la città. Non viceversa.
In un secondo momento gli abitanti della città hanno stabilito un distacco dal contesto base per ragioni professionali, economiche, culturali. Da tale separazione sono derivati non di rado confronti derisori e dispregiativi.

Il termine “patois” fu introdotto nel 13° secolo dagli abitanti della città per definire la particolare parlata del contado. Il linguista francese Dauzat spiega che il vocabolo deriva da “pattes”, cioè “piedi” (Nouveau Dictionaire etymologique). Sarebbe come dire che gli abitanti dei villaggi parlano con i piedi.
L’invettiva medievale contro le lingue locali non è rimasta limitata al rapporto città-campagna. Essa diventò strumento di politica coloniale intesa all’assimilazione. Sarebbe quindi un dovere della moderna presa di coscienza rammentare che molte lingue furono un tempo semplici “patois”: l’italiano e il francese erano, per esempio, i dialetti di Firenze e di Parigi.- Il rifiuto dell’uso dispregiativo dovrebbe quindi essere doveroso. Tutti gli uomini favellano infatti con la bocca e con il cuore. Nessuno parla con i piedi!- La parlata locale evidenzia inoltre una profondità raggiungibile dai pianisti in musica mediante il pedale.
Si nota, inoltre, che quanto avviene localmente contro le parlate di un determinato luogo, riguarda su scala continentale anche altre importantissime lingue di cultura non certo minori. Il monopolio letterario contagia e comprime in realtà le dimensioni e le forme da emarginare, spingendole verso l’esilio e l’espulsione dalle scuole con una prassi tale, da far sospettare una programmazione di potere e non di cultura o umanesimo.

La funzione di una lingua è determinante per la rivitalizzazione di ogni popolo. Risveglio culturale significa in realtà anche sviluppo economico e sociale. Chi avrebbe interesse ad insistere nell’arretratezza?- La lingua non è tuttavia soltanto una funzione. Essa costituisce un vero e proprio organo del corpo umano e, come tale, è soggetta a malattia. Le parole sono il sangue della lingua. Qualche frase ha cattivo sangue nelle vene: ciò porta al collasso della circolazione dei vocaboli: segue poi la febbre delle sillabe aggravata dal tumore delle lettere alfabetiche. Infine interviene la morte del linguaggio.

Se il declino di una lingua significa anche declino sociale, come J.L. Calvet sostiene nella sua opera “Linguistica e Colonialismo” (pag. 53), è certo e logico che il risveglio politico e sociale di un popolo possa verificarsi soltanto tramite la riconquista e la rivalutazione della propria lingua. La rinuncia è deleteria. Spesso vengono infatti emanate norme placebo in difesa degli idiomi locali, contando proprio più sul recesso dei parlanti che sull’intenzione di non applicare i provvedimenti divulgati. Si spera che anche la Legge di “Tutela, valorizzazione e promozione del patrimonio linguistico e culturale veneto” (Cons. Reg.le del Veneto, 28.03.07 n. 3901) non sia tra queste misure. In ogni caso l’unica difesa infallibile che può preservare una lingua minacciata, è la difesa immunitaria, cioè la sfiducia nei confronti di artifizi come il bilinguismo, che si traducono poi in un monolinguismo totalizzante.- “I politici che promettono uguaglianza sono esaltati o ciarlatani”, mise in guardia Goethe.-Valga l’indicazione di S. Stefano d’Ungheria, il quale sostenne nei suoi “Monita” che “Unius linguae uniusque moris regnum fragile est = È ben fragile uno stato che si fonda su una sola lingua e su un solo costume”.

Il concreto uso della propria lingua non deve significare imbalsamazione. L’uomo si nutre quotidianamente di carne e di vegetali. Egli non rifiuta perciò le nuove cellule derivanti da altri esseri. Lo stesso vale per quanti si pongono quale obiettivo la sopravvivenza della propria lingua nel proprio Paese. Come il corpo umano trasforma le cellule estranee in propri tessuti, il metabolismo linguistico può rinforzare ogni pensiero e ogni comunità. Modernità non significa indebolimento.
Si può affermare che un popolo non si libererà mai da un giogo coloniale, rinunciando alla propria espressione per assumere quella dei colonizzatori.
La difesa e la rigenerazione della parlata locale significano al contrario sia una lotta per l’identità culturale, sia una difesa contro la lingua dominante. La madrelingua è infatti l’antica lingua delle fiabe che esprime il sentimento delle cose. Il “Gatto con gli stivali” non può, per esempio, fuggire obiettivamente dalla sua favola per entrare in quella di “Biancaneve”!

Coloro che abdicano al loro linguaggio sperano invano, e ingenuamente, di diventare un’altra, più importante persona se adottano stabilmente la lingua del potere, del verme solitario della burocrazia, del contesto.- Ancora una volta Goethe indica il pericolo nel Faust (577 – 579):”Ciò che voi chiamate spirito del tempo è in realtà lo spirito dei dominatori”.- Chiaramente essi non raggiungeranno mai un’altra identità ritenuta di serie “A”. Essi potranno tutt’al più amputare ulteriormente la propria personalità avuta dalla natura con il risultato che non saranno infine più nessuno!

La famosa “Scala Santa”, che si trova a Roma, insegna che è certamente possibile salire sulle ginocchia, e con qualche sforzo, gli scalini. Le difficoltà si presentano poi quando si volesse scendere sempre sulle ginocchia.
(IL PIAVE, mensile. Giugno 2008)

E S P R E S S I O N E E C O L O N I A L I S M O

Le unificazioni nazionali del 1800 hanno trasformato parecchi Stati in regioni. Si pensi alla Germania. Esistevano parecchi Principati, Regni e Città Anseatiche, che ora sono diventati Länder seppure in un efficace assetto federale. La Baviera ha conservato la denominazione di “Libero Stato”. Le Città Anseatiche conservano in parte solo un accenno della loro autonomia nelle targhe automobilistiche.

In Italia i vari Regni e Granducati preunitari furono fusi nello Stato sabaudo con “criteri più conformi all’interesse immediato monarchico che all’esigenza democratica”, come sostenne L. Salvatorelli nel 1945. Le loro grandi Capitali sono diventate Prefetture. Secondo il dizionario la Prefettura era una semplice provincia dell’Impero romano oppure una circoscrizione ai tempi di Costantino.
Le unificazioni tedesca e italiana sono realtà differenti. La prima consente ampio margine socio-culturale e amministrativo alle comunità locali. La seconda evidenzia un centripetismo accentuato. Una affinità si riscontra tuttavia, purtroppo di segno negativo, nelle rispettive strutture verbali. Sia il tedesco che il veneto non hanno il passato remoto dei verbi. Occorre precisare subito che l’unificazione nazionale qui non c’entra affatto, perché le cause vanno cercate molto lontano.

Le terre dei Veneti e la Germania rientrarono nel programma di conquista romano. Il nuovo regime, come tutti i colonialismi, mirava allo sfruttamento dei territori occupati. Un proverbio dice infatti che il potere perde il lupo ma non il vizio, o qualcosa del genere. Il bottino era costituito da beni materiali e soprattutto da schiavi.
La mentalità capitolina che auspicava sempre nuove conquiste, è facile da intuire. Una autorevole formulazione giunge da Virgilio, incensiere dell’Impero. Nell’Eneide si legge:”Tu regere imperio, Romane, memento/ (haec tibi erunt artes) pacique imponere morem/ parcere subiectis et debellare superbos = La missione di Roma è quella di debellare le genti, di risparmiare i sottomessi, di debellare chi si ribella”. Tra i superbi c’erano naturalmente i popoli chiamati “barbari”, verso i quali c’era uno spiccato complesso di superiorità soprattutto intellettuale. Una superiorità non giustificata secondo Alano di Lilla (fine XII sec.), il quale assicurava:”La latinità è povera = Quia latinitas penuriosa est”.

Quale passato potevano mai avere i popoli che rientravano in quest’ottica? Nessun passato sebbene, o meglio, proprio perché la memoria è parte integrante della cultura.! Le radici profonde, quelle che secondo Tolkien non gelano, dovevano sparire dallo scenario spirituale dei colonizzati. Anche i Maia usavano, per la verità, mozzare le mani agli storici nemici affinché rimanessero sconosciute le origini dei loro popoli.- La lingua è il più sensibile sismografo degli eventi umani e nelle parlate veneta e germanica è sparito il passato remoto. I semplici imperfetto e passato prossimo, più contigui alla quotidianità, sopravvissero invece. Quando manca l’intera libertà di parola, vuol dire che manca la dignità umana, ha affermato il Premio Nobel Orhan Pamuk.
Si potrà osservare che dall’esortazione virgiliana (allora certamente commissionata dall’Impero) è ormai passato molto tempo. È vero, ma la riaffermazione di certi principi nel tempo non ha giovato per una eventuale rinascita linguistica. Ancora in data 2 marzo 1934 fu indetta a Roma una riunione governativa per “potenziare sempre più la coscienza imperiale della Nazione”. Un comportamento che sembra stregare, anche oggi, la politica italiana, per usare le parole di P.L. Battista riportate dal Corriere della Sera del 29 settembre 2007.
Anche da allora molte cose dovrebbero essere cambiate. Ma come commentare la trasmissione TV1 del 29 aprile 2005, in cui si sosteneva:”Ci sono molte zucchine sul mercato, ma siete sicuri che siano tutte italiane?”.- Sarà un caso, ma questo non è un indice di cambiamento di rotta. Si tratta se mai di insistenza. Due coincidenze fanno un indizio, scrisse Agata Christie.

L’assenza del participio passato potrebbe non essere l’unico danno provocato al linguaggio da lontani eventi colonialistici. Se ai sottoposti fu interdetto il ricordo del passato, la medesima cosa dovrebbe essere accaduta per il futuro. L’unico avvenire doveva essere quello dell’Impero e non quello di gente sottomessa. A quest’ultima, se mai, sarebbe stato concesso il colpevole piacere della soggezione e del silenzio che conserva la memoria delle parole. Ebbene, il tempo futuro non esiste in tedesco come singola forma verbale. Bisogna ricorrere a un verbo ausiliare che significa “divenire”. Si possono perciò immaginare le difficoltà sintattiche nella formazione delle proposizioni secondarie con verbi modali e forme passive, che necessitano dello stesso termine.
Nella parlata veneta esiste, per la verità, una larvata forma di futuro. Ma si tratta più che altro di un prestito strutturale. Più corretto sarebbe l’uso di un verbo che esprime un’azione in fase di compimento (mi sòn drìo de ‘ndàr = Sto muovendomi per andare).
Si potrà pensare che, forse, anche nel paleoveneto mancassero già i significati di passato remoto e futuro. In tal caso il colonialismo non avrebbe provocato alcun danno linguistico. Nel paleoveneto sono invece soventi i concetti di passato e di futuro, come recenti studi hanno dimostrato. È un argomento difficile, ma si può citare un esempio. Un celebre reperto paleoveneto conservato a Oderzo contiene i termini “podzros” e “huaios”, che significano “guarderai”e “sentirai”. In uno dei famosi elmi di Negovia si leggono inoltre le parole di non facile etimologia “hari” e vaijul”, che stanno per “battè” e “cacciò”. Futuro e passato remoto esistevano. Se ora non ci sono più, qualcosa deve pur essere accaduto.

La conclusione logica appare quindi che quando una parte del discorso cade in plurisecolare disuso, non è generalmente più recuperabile. La sommersione infatti affoga. Dal complesso di ragionamenti e deduzioni, che gli avvocati usano chiamare “castello indiziario”, questo sembra l’unico esito: anche il miglior radicchio diventa fieno se rimane ad appassire nel cesto.
(Il Piave, Conegliano Veneto, settembre 2008)



A T L A N T E D E L L A S T U P I D I T A’


“Se ci voltiamo indietro da dove ci hanno detto di andare, quello è il Nord”
(Compito in classe di uno scolaro veneto di IV^ elementare)


Nel “Cratilo” di Platone Ermogene è il personaggio che sostiene l’arbitrarietà del segno. C’è quindi differenza tra il significante e il significato. Ogni parola, ogni raffigurazione, ogni linguaggio non riesce ad esprime del tutto la realtà delle cose, dei concetti, dei ragionamenti, della rappresentazione del mondo.
Cratilo non concordava con Ermogene e riteneva che, alla fine, la parola, la formula, la frase, il sentimento, il segno pittorico e la capacità espressiva fossero in grado di dare una sufficiente dimensione alla realtà che ci circonda. I linguisti, da Ferdinand de Saussure in poi, ritennero che Ermogene non avesse torto del tutto e la sua tesi diventò la base della moderna linguistica. In effetti e per esempio, come nel termine “uovo” non si trova nulla di quella prodigiosa capsula che consente di viaggiare nel tempo, cioè di aspettare una stagione più propizia per l’esistenza, in molte circostanze il linguaggio appare limitato e il suo effetto rappresentativo risulta inadeguato, parziale perfino. La parola è certamente la combinazione del concetto con l’immagine acustica, ma in definitiva quest’ultima prevale poi sul concetto.
In un articolo della rivista Focus del giugno 2009 vengono rese note circa 80 parole usate nelle varie regioni per definire la condizione di stupidità delle rispettive popolazioni. Ci si accorge quindi che nell’Abruzzo, in Umbria e nelle Marche basta un solo termine. In Valle d’Aosta, Lazio, Calabria, Puglia e Molise sono necessarie 2 parole. In Campania e in Liguria ci sono rispettivamente 3 e 4 varianti. Anche il Trentino si ferma a 4. Per Toscana, Sardegna, Basilicata e Sicilia il numero arriva a 5. In Emilia-Romagna se ne contano 6. Le cose peggiorano in Lombardia e Friuli, dove il numero giunge a 7. Per il Piemonte si arriva a 8. Il record di parole per indicare la stupidità spetta però di gran lunga al Veneto: almeno12 (insonà, rindindòn, baùco, mòna, sèmo, guàgno, fòlpo, bìso,stornèl, insemenìo, zhùss, òc…)! Dal punto di vista della comunicazione e della linguistica sarebbe interessante poter calcolare il numero dei segni necessari per tradurre ed esprimere nel linguaggio dei sordomuti il vocabolo "stupido" a seconda delle diverse parlate locali, perché anche il linguaggio dei segni ha i propri dialetti.

Il vocabolo “stupido” significa in realtà “persona che ha ricevuto un colpo in testa, cioè mentalmente intorpidito”. Oppure “incapacità di reazione”. Sorprende il fatto che “stupido” e “stupore” abbiano la stessa radice “stu”.

Viene naturale chiedersi come mai esistano così tante parole per spiegare il torpore in un determinato gruppo sociale radicato in una data zona. Forse la tardità di mente appare in Veneto, o in molte zone della regione, più ampia e diversificata che altrove?- Già Goethe ebbe a scrivere nelle sue “Impressioni su Venezia” che “fu un puro caso che essi (i Veneziani) divenissero in seguito scaltri mentre tutto il mondo settentrionale era ancora nell’incoscienza”. In questo caso sarebbe giustificata una grande preoccupazione. Esiste forse un legame diretto tra parole e concetto, che la mente usa preferibilmente nel suo iter di comprensione del senso comune?- Anche tale circostanza meriterebbe la massima attenzione. La linguistica informa che la lingua è un codice grammaticale. Le sue caratteristiche sono socialità, passività, esteriorità, formalità. La parola, invece, è individuale, attiva, interna, sostanziale, variabile.

Il Veneto è una regione multietnica, anche se i diversi idiomi delle numerose componenti sono stati gradualmente e capillarmente omologati ad eccezione delle corde vocali. La sommersione linguistica è talmente vasta che, se i vecchi morti comparissero in sogno, parlerebbero in lingua locale ma la gioventù non sarebbe in grado di comprendere. Il Veneto è una terra di passaggio e di relazione che gradualmente s’inslavia e che non può essere confrontata con il destino di altre zone. Siffatta realtà non deve comunque essere intesa nel senso di “terra di nessuno”. Il concetto sarebbe riservato a luoghi dove la gente si sente male nella propria pelle e desidera traslocare nell'epidermide altrui. La conseguenza sarebbe che le persone non diventerebbero mai ciò che desiderano. Non sarebbero più nemmeno quelle che erano. in precedenza. Non sarebbero quindi più "nessuno"!-Siffatta eventualità non fu probabilmente del tutto estranea alle ragioni propedeutiche che ne determinarono l’annessione nel 1866 nei termini e con le modalità che si sanno. Nessuna meraviglia che altre realtà, Stati compresi, cambino colore della propria pelle in presenza di situazioni camaleontiche. In altre parole anche un Regno neonato potrebbe trasformarsi in uno Stato colonialista.Si tratta piuttosto un territorio che conobbe Celti, Franchi e Longobardi, ma che vanta antiche contiguità con l’Illiria. Per questo motivo è naturale che si guardi a Nord e a Nord-Est sviluppando una naturale vocazione internazionale, benché la scuola paracadutata nelle nostre aule si guardi bene dall’accennarlo. I lunghi secoli di storia con Venezia hanno determinato purtroppo un isolazionismo integrato da carenza alimentare, che ha impedito l’ulteriore sviluppo verso commerci, mercati e mentalità mitteleuropei non secondari benché privi di città eterne. Tutto girava intorno a uno spirito mercantile veneziano che poteva sembrare anche glorioso, ma che in realtà decaffeinava l’anima della gente. Se quei lunghi secoli non vengono ripresi, forse potrebbe corrispondere a verità quanto attribuito ai Veneti in fatto di stupidità o torpore mentale espresso con i 12 termini sopra citati.

Una cosa è certa. L’attuale remissività veneta può essere percepita come spirito di subalternità e di buona educazione coloniale, da perdonarsi finché non subentra la pigrizia che priverebbe le casse dello Stato di cospicue entrate. Se ciò fosse vero, sarebbe una condizione anche peggiore della stupidità statisticamente e, si spera, anche arbitrariamente attribuita o supposta da convinzioni esterne non prive di interessi egemonici. Ne deriverebbero sia un indebolimento del sistema immunitario sia una contagiosa neoplasia sociale.




L I N G U A E T O P O N O M A S T I C A

La lingua incominciò nell’Eden:”Ora Dio formava dalla terra ogni bestia selvaggia del campo e ogni creatura volatile dei cieli e le conduceva all’uomo per vedere come avrebbe chiamato ciascuna; e come l’uomo la chiamava –ciascun’anima vivente- questo era il suo nome” (Genesi 2,19).
Chiamare per nome le creature e l’ambiente è un compito assegnato da Dio e non è saggio stravolgerlo, se si vuole evitare di incorrere nella punizione di Babele.

La toponomastica originaria è l’anima di ogni paesaggio. Un toponimo cambiato sarebbe come voler leggere una lettera d’amore con un dizionario. I nomi di luogo sono il sangue della lingua. Qualche parola ha cattivo sangue nelle vene. Ciò porta inevitabilmente al collasso circolatorio dell’espressione, alla febbre delle sillabe, al tumore delle lettere alfabetiche e infine alla morte della lingua.
La visione del mondo è un dono divino, attraverso il quale si giunge al pensiero. Per questo motivo si assomigliano tanto i verbi “danken= ringraziare” e “denken=pensare” nella lingua tedesca. La lingua non è una semplice funzione, ma un vero organo, una parte del corpo.
Nel 1682 Pietro il Grande tentò di imporre il francese come lingua ufficiale in Russia. Fu un errore, un fallimento derivato da una incosciente ignoranza. Lo Zar avrebbe dovuto conoscere i “monita” di Santo Stefano d’Ungheria:”Unius libris uniusue moris regnum fragile ist = un regno con un’unica lingua e con un unico costume è caduco”.
I toponimi non comunicano soltanto. Essi ricordano sempre qualcosa. Essi consentono di vedere il mondo da un punto di vista differente. Chi comprende soltanto la lingua delle Oche del Campidoglio oppure si ostina a definire “invasioni barbariche” le migrazioni di popoli durante il primo medio Evo, non può comprendere né il mondo nè lo spirito del tempo.
La politica colonialistica disprezza in generale la toponomastica e la lingua delle regioni colonizzate classificandole come parole fossili. I suoi esponenti sanno bene che non si tratta di una lingua che unisce un Paese, ma di una lingua imposta per giustificare un Paese. Per tale motivo avviene che talune autorità nel loro complesso di superiorità giungano a contraddire perfino le loro stesse leggi. Si assiste purtroppo in talune circostanze anche a colonizzati che collaborano con gli intenti oppressivi. Taluni cambiano lingua nella illusoria convinzione di guarire una malattia assumendo un veleno. Questo processo non è tuttavia sempre irreversibile. Lo dimostrano per esempio l’Algeria,la Dalmazia, le Repubbliche Baltiche, l’Istria, ecc.

L’ ostilità contro la lingua e la toponomastica originarie non cessa nemmeno quando le mutate circostanze impongono una variazione di atteggiamenti. Essa insiste, come si può dedurre da minacciose frasi lasciate nel libro dei visitatori presso il museo di Kobarid/Caporetto (Slovenia), oppure come si percepisce da certi comportamenti specialmente in taluni uffici pubblici. Ogni antico toponimo deriva chiaramente dalla coscienza, dal significato o, meglio ancora, dall’emersione di qualcosa che esiste da sempre nella nostra interiorità con la sua assoluta fondatezza e che ci consente di essere persone complete. La traduzione di un nome di luogo tende piuttosto alla distruzione della memoria, che già è intaccata dal conformismo sociale.

Per denigrare le lingue locali e le rispettive tradizioni orali i sapientoni sostengono che nel paese colonizzato non si parla una lingua, bensì un semplice dialetto. Questi linguisti sprovveduti dovrebbero sapere che soltanto il 6% della popolazione italiana fuori dalla Toscana conosceva l’italiano nel 1860, come ricorda Tullio De Mauro. La lingua italiana era il dialetto di Firenze, come il francese era il dialetto di Parigi. Si potrebbe aggiungere che l’Italia fu consegnata a Vittorio Emanuele II a Teano in francese e non in italiano. Se ciò non fosse ancora sufficiente si potrebbero ripetere le parole di Martin Walser:”Il dialetto è il corpo della lingua. La lingua ufficiale è solo un vestito”. Il dialetto ossigena la lingua. Esso è come un sogno: qualcosa di lontano e di chiarificatore. Se i vecchi morti ci apparissero in sogno, ci parlerebbero in dialetto e sarebbe una vergogna se non li potessimo capire.


L ‘ A T T I L A

Viene così brevemente indicato un poema di Niccolò da Càsola, noto come “La guerra d’Attila”. L’opera sarebbe stata scritta nel 1358 in provenzale e consiste in due pesanti codici conservati presso la Biblioteca Estense di Modena. Le informazioni sull’autore sono scarse, ma egli potrebbe essere nato a Bologna tra il 1305 e il 1310.
Nel 1350 Giacomo e Giovanni Pepoli avevano venduto Bologna all’Arcivescovo Giovanni Visconti, signore di Milano. Seguirono malcontenti e anche Niccolò dovette esservi coinvolto, se i Visconti lo condannarono all’ esilio. Egli si recò certamente in Veneto e in Friuli, dove ebbe occasione di conoscere le gesta di Attila, appunto.
La narrazione comprende, oltre a località, persone e vicende storiche, notizie assolutamente inverosimili. Si cita, per esempio, Maometto. Ma il Profeta non era ancora nato ai tempi di Attila!- Non utile alla verità dei fatti, il manoscritto risulta invece interessante per la lingua usata.
Nel ‘Duecento e nel ‘Trecento non si parlavano soltanto il latino e il volgare toscano. Era diffusa in talune regioni anche la lingua provenzale. Specialmente nel Veneto si era sviluppata una fiorente letteratura veneto-provenzale, come documentano le 1045 poesie trovadoriche conservate nella Biblioteca Estense di Modena, tra le quali primeggiano le composizioni di Uc de Saint-Circ. A tale antologia è doveroso aggiungere, tra l’altro, la produzione di Sordello da Goito e di Ferrarino Trogni.
È giustificato chiedersi come mai documenti letterari così importanti siano finiti a Modena. Rizzardo VI da Camino era morto nel 1335. Sue eredi erano la moglie Verde della Scala e le figlie Beatrice e Caterina. Nacque tuttavia postuma una terza figlia: Rizzarda. Il sarcofago nella chiesa di S. Giustina a Serravalle mostra il defunto nell’atto di porgere un neonato alla Madonna. Potrebbe essere una allegoria di ben altra estrazione, ma potrebbe anche trattarsi della speranza di un erede destinato a continuare la dinastia, speranza andata delusa.
C’erano stati contatti tra Gherardo Da Camino, ricordato da Dante, e i signori di Ferrara fin dal 1294. Per la verità non era stato un sodalizio felice, vista la serie di omicidi che lo funestò.- Il 18 settembre 1351 Beatrice Da Camino, figlia maggiore di Rizzardo VI, sposò Aldobrandino III, marchese di Ferrara. Un fascio di carte e pergamene giunse in tal modo nella città. Poiché nel 1598 gli Estensi dovettero lasciare Ferrara e trasferirsi a Modena, la documentazione di cui trattasi dovette essere stata compresa nel trasloco. Tutto chiaro.
Il da Càsola non era mai stato in Francia. L’apprendimento della lingua potrà quindi essere avvenuto nella Marca Trevisana evidenziando qualche lacuna. Si nota una grande osmosi di termini francesi transitati nel volgare italiano e viceversa. Oggi si chiamerebbero “neologismi”.- “La guerra d’Attila” sembra un poema pensato in Italia ma scritto in francese. Si percepisce quindi lo sforzo, affinché tutti ne possano comprendere il linguaggio. Potrebbe essere che il da Càsola abbia fatto il seguente ragionamento: tutti i giorni gli uomini mangiano una grande quantità di fibre vegetali e animali. Queste si trasformano regolarmente in cellule e consentono una regolare esistenza. Perché non dovrebbe avvenire la stessa cosa tra le lingue?- I vocaboli dell’una possono integrare il significato dell’altra, quando ciò risulta necessario per una migliore comprensione. Un’indicazione da tenere presente.
Il poema riveste una grande importanza ai fini di una spiegazione relativa alla storia della lingua italiana. Il volgare toscano non rappresentava l’unica possibilità e alternativa. Alla fine del secolo XII Alano di Lilla sostenne anzi che la latinità era povera (Quia latinitas penuriosa est). Urgevano iniziative affinché la lingua diventasse la mano fedele della mente. Nulla imponeva che tali sollecitudini fossero unidirezionali. Sorsero così le lingue neoromanze, le quali non derivano dal latino, ma da una sua interpretazione popolare e locale. Il latino non fu l’unica radice delle lingue romanze, come l’architettura romana non fu l’unico presupposto di quella romanica.
(Il Dialogo, mensile, dicembre 2009)

AMMONIZIONE POSTUMA
Nel Museo civico di Oderzo è conservato un antico reperto contrassegnato come *Od 7. Si tratta di un sasso di porfido alpino, presumibilmente portato dalle correnti dei corsi d'acqua, inciso su entrambe le facce. L'iscrizione recita:"KAIALOISO / PAZROS POMPETEXUATOS". Esso viene presentato come "Ciottolo confinario venetico. Questi ciottoli del Piave venivano posti ai confini per segnare le proprietà".La funzione confinaria del ciottolone è alquanto improbabile. Esso sarebbe stato, infatti, spostabile e ne sarebbe conseguita incertezza sui limiti dei campi. I Veneti Antichi, primi Slavi della storia, erano forse ingenui per natura, non essendo ancora venuti a contatto con popoli con i quali bisognava tenere gli occhi bene aperti, ma non al punto da usare distintivi asportabili o mobili!- Anche la composizione minerale del ciottolone è discutibile. Se fosse trachite, come si dice, risulterebbe strano un rinvenimento a distanza di oltre cento chilometri dalla zona di estrazione. Come è noto, la trachite proviene soltanto dai Colli Euganei e avrebbe richiesto una propedeutica levigatura. Quasi nessuno, specialmente tra gli esponenti della cultura locale, ha dimostrato finora particolare interesse per una credibile interpretazione di quelle parole misteriose. Nell'opera "I Veneti Antichi" di G. Fogolari e A.L. Prosdocimi si allude a probabili influenze linguistiche celtiche. L'informazione sarebbe tuttavia incongrua. Il ciottolone risale al VI secolo a.C., mentre i Celti giunsero in certe località del Norico solo nel III secolo a.C., non esplicarono alcuna colonizzazione e non lasciarono iscrizioni. Lo storico Jordanes scrisse nel 551 d.C. che in principio gli Slavi si chiamavano Veneti e che soltanto a partire dal V secolo d.C. si frazionarono in tre gruppi: Veneti, Slavi e Anti. Questi ultimi erano un popolo profondamente slavizzato, che ricorre nelle informazioni dello storico bizantino Procopio nel VI secolo d.C.- Non sembri quindi strano che Plinio il Vecchio (I secolo), Tacito (II secolo) e Tolomeo (II secolo d.C.) conoscessero ai loro tempi soltanto i Veneti. L'iscrizione di *Od 7 è senza dubbio venetica. L'Antico Slavone Ecclesiastico, ma anche altri aspetti delle parlate arcaiche delle contigue popolazioni slovene e croate, potrebbero fornire degli utili elementi per la comprensione e la collocazione della misteriosa scritta. Siffatto percorso viene tuttavia avversato dalla cultura ufficiale e dalle sue connotazioni centripete. Un approfondimento, non politicamente corretto ma culturalmente utile, varrebbe la pena. Poi si potranno trarre le conclusioni. La prima parola potrebbe essere letta "kajajoj so". In sloveno esiste "kesajoci" e in croato cacaviano si trova un "kajot se", che significano "Tu che ti pentirai" e "pentirsi".- La seconda parola potrebbe leggersi "podzoros". In sloveno "pozor" ha a che fare con "interessamento" e "attenzione". Poi "pompetexuaios" potrebbe essere infine scomposto e adattato in "po m(e)", "petje" e "huajos". Andiamo con ordine:"po mojem" in sloveno significa "dopo il mio"; "petju" vuol dire "dopo il mio canto" e "hajat" sta per "badare a".- Ce ne sarebbe abbastanza per capire:"Con pentimento la guarderai (questa scritta) e sentirai la nostalgia del mio canto". Si tratterebbe di un'iscrizione funebre con funzione di richiamo e rimprovero per un'azione di cui un superstite avrebbe dovuto pentirsi. Gli eredi sono quasi sempre ingrati. L'argomento è in ogni caso degno di approfondimento e di eventuale contestazione. Ma non accadrà.
(Pubblicato da IL PIAVE in data lunedì 21 giugno 2010)