Tuesday, June 27, 2006

Racconti

IL MALOCCHIO

I cresimandi più fortunati ricevevano un tempo dai loro santoli un orologio. A un ragazzo del paese andò ancora meglio: egli ricevette dal padrino una macchina fotografica. Il dono era considerevole sia per il valore, sia per l’originalità. Nessuno possedeva un simile congegno in paese.
La pellicola consisteva in un breve film di celluloide arrotolato su un cilindretto di legno e consentiva nove pose.
La prima esperienza fotografica ebbe luogo presso la fontana rotonda davanti alla casa. La sorgente era incorniciata da un’aiuola circolare coltivata a stramonio. I grandi fiori bianchi di questa pianta ramosa e biforcata facevano bella mostra di sé. Venne poi la volta del grande tiglio nel cortile e dell’ardito, superbo gallo del pollaio, entrambi meritevoli di una bella immagine.
La macchina fotografica era tuttavia un dono troppo importante per rimanere sconosciuto ad amici e parenti. Doveva essere subito esibita ai cugini che abitavano in un ambiente montano. La visita a quest’ultimi fu effettuata nella domenica successiva a quella della cresima. Considerata la scarsità delle pose ancora disponibili, spettava a questi ultimi la proposta delle foto da scattare: una bella costruzione vicino al bivio, tre ragazze incostanti e sdegnose, un direttore generale noto per lo stipendio d’oro in cambio di una faccia di bronzo, infine un individuo prepotente, poco rispettoso per la proprietà altrui e dedito più all’usura che all’uso dell’ambiente.
Per lo sviluppo della pellicola bisognava attendere un po’ di tempo, in altre parole la prossima mancia di uno zio saggio e bonario. Il dono giunse invece inaspettatamente dal santolo e si poté procedere con sollecitudine.
Le pianticelle di stramonio risultarono afflosciate. Il tiglio appariva ancora florido nella foto, ma in realtà l’albero dal bel portamento era stato colpito dal fulmine il giorno prima. Il gallo era stato infine trovato morto nel recinto ad opera delle martore, così si supponeva.
Il fotografo dilettante si turbò. Poteva una macchina fotografica portare sfortuna? Oppure si trattava di una strana coincidenza? Quando fu accertato che anche un paio di galline, fotografate casualmente in discosto secondo piano insieme al gallo, erano morte, il sospetto aumentò. A favore della coincidenza rimanevano tuttavia le altre sei immagini del tutto regolari. La maggioranza appariva determinante, ma il dubbio rimaneva. Era il caso di chiedere con prudenza informazioni ai cugini.
Le notizie giunsero presto. La bella casa vicino al bivio aveva preso fuoco. Un corto circuito, si diceva. Le tre ragazze erano state lasciate dai rispettivi fidanzati, confermando il proverbio che la bile del vicino è sempre più verde, o qualcosa del genere. Il direttore generale (meglio sarebbe stato chiamarlo direttore caporale, secondo la gente), mentre si allenava in bicicletta, andò fuori strada infilando il capo in una siepe di recinzione ingegnosamente intrecciata a maglie di rete vegetale e dovette rimanere a lungo in quella scomoda nonché umiliante posizione. L’ultimo personaggio, infine, era finito in ospedale la sera prima per una grave intossicazione da funghi.
La successione dei fatti sembrava sufficiente per collegare la macchina fotografica a funesti poteri occulti.
Che fare? Esistevano due possibilità: darsi al professionismo con probabile successo, oppure conservare l’apparecchio sotto chiave per eventuali, future necessità difensive personali. Un simile oggetto avrebbe potuto benissimo sostituire perfino il potere della pernacchia in fin dei conti. Fu scelta, per il momento, la seconda opzione.

(Il Dialogo, mensile. Oderzo settembre 2004)



L A M O S C A

Nel mercato del mercoledì vicino alla stazione si comprava e si vendeva di tutto. Accadeva che i contadini, quando erano riusciti a ottenere un buon guadagno dalla vendita di un prodotto o di qualche animale, si radunassero poi in un locale pomposamente chiamato l’albergo per gustarvi un piatto della celebre trippa.
Tra gli avventori c’era una donna di nome Vaga Bond, la quale sosteneva di essere parente del famoso detective James Bond. Questa era una specialista in pretesti per non pagare il conto. Verso la fine del pasto essa faceva infatti notare al cameriere che nel piatto c’era una mosca. Alla gratuità si aggiungevano così anche le scuse del locale.
Si diceva che la donna avesse con sé la mosca prima di entrare in ristorante. Un giorno ci fu maggiore attenzione da parte del personale e il trucco venne scoperto. Un giovane commensale, volendosi dimostrare cavaliere, dichiarò di essere il responsabile e finì nella prigione della città.
Il carcere è un luogo nel quale la mancanza di spazio è compensata dall’abbondanza di tempo nel grigiore della polvere che s’adagia. Il recluso aveva modo di pensare a quanto gli era accaduto. Proprio così. Quando si sta bene si fa festa, la rivoluzione, lo sberleffo. Quando si sta male si fa poesia e si rivalutano ricordi, cose passate ma non perdute. Egli non viveva comunque la sua vita, ma una vita da prigioniero.
Le mosche! Ditteri di colore cinerino, testa disgiunta dal torace da un profondo intaglio, occhi grandi bruno-rossi, antenne di tre articoli con una fine setola laterale, proboscide protratta, due ali anteriori membranose trasparenti e due posteriori che coprono i bilancieri; possono con le loro zampe aderire alle superfici lisce; moleste, immonde e nocive, perché diffondono varie infezioni.
Nelle stalle e nelle cucine c’erano milioni di mosche, talmente moleste come se volessero essere schiacciate appena possibile. Per diradarle si appendevano nelle prime ramicelli intrisi nel latte (che poi venivano repentinamente richiusi in un sacco per il successivo affogamento), mentre nelle seconde si appendevano lunghe strisce adesive.
Erano state istituiti anche appositi premi per la lotta alle mosche. I regolamenti erano inflessibili: consegna delle mosche all’apposito ufficio entro le ore 10,20 del mattino, compenso ogni 18.500 pezzi, conferma che si trattava di mosche acchiappate nel territorio del paese di residenza, divieto per gli addetti al trasporto dei rifiuti di consegnare mosche raccolte nelle pattumiere e così via.
Un mattino una mosca entrò improvvisamente nella cella della prigione. Le piaceva la traccia di caffè zuccherato rimasta sul fondo della tazza. L’insetto divenne un ospite abituale, familiare, docile.
Il carcerato ottenne che l’insetto, in cambio di altro zucchero, eseguisse dei movimenti che egli induceva per mezzo di uno stuzzicadenti e della contemporanea modulazione della voce. Gli tornava sempre alla mente una storiella raccontatagli da uno zio saggio. Un frate preparava ogni mattina la colazione nel vicino convento. Un gruppo di gatti approfittava di ogni distrazione per derubarlo. Il buon monaco riuscì a sorprendere i felini e a rinchiuderli in un sacco, somministrando loro anche una dose di vergate. Durante la punizione egli suonava un campanello. Nei giorni seguenti fu sufficiente suonare il campanello per salvare la colazione. Gli animali sono molto attenti ai suoni. Dopo un lungo allenamento la mosca era in grado di eseguire diversi, stupefacenti esercizi e perfino danzare sulle zampine.-“Quando uscirò, mi guadagnerò da vivere senza fatica”, pensò il giovane.
Giunse il giorno della liberazione nel mese delle due lune piene. Una guardia consegnò tutto quanto era stato tolto al momento della reclusione. C’era anche un po’ di denaro.
Il giovane andò per prima cosa nel locale che aveva dovuto lasciare in modo tanto doloroso, in cui si serviva un vino fiorito, il vino più vino che ci sia. Mentre attendeva di essere servito, dispose la mosca addomesticata sulla tovaglia bianca di bucato con l’intento di attirare l’attenzione degli altri clienti. L’applicazione è in fin dei conti la migliore pubblicità. L’insetto vibrava le ali a un dato comando. A un fischio girava in tondo, faceva una capriola e accennava a uno starnuto perfino.
Il cameriere arrivò, riconobbe il cliente, notò con disappunto la mosca sulla tovaglia e la schiacciò furtivamente con la cartellina marrone del menù.



CRESTOMAZIA

L’ Amministrazione, pomposamente chiamata anche l’Istituzione, era un agglomerato di scarsità. La sua esistenza non produceva nulla. Le lunghe riunioni di lavoro, in cui si parlava di lavoro ma non si lavorava mai, terminavano sempre con un ignobile coro con l’esortazione a non remare finché una certa barca procedeva da sola.
Un giorno, per una di quelle inerzie o derive determinate talvolta dai fatti, l’Istituzione ebbe l’occasione di ampliarsi in un inconscio contesto internazionale. Gli organici si moltiplicarono non tanto nella prospettiva di un buon lavoro, bensì di un lauto stipendio. I compiti a giustificazione dei costi consistevano nella formulazione di direttive internazionali, appunto, benché nessuno dei dipendenti conoscesse una lingua straniera.
I risultati si notarono presto. Soltanto le spese rimasero segrete. Una regola prodotta dall’Istituzione stabilì che le maglie servissero a coprire la parte superiore del corpo. Non era cosa da poco. Dopo questo geniale esordio giunse un’interpretazione autentica della segnaletica nei luoghi pubblici. Per esempio, se una tabella proibiva l’accesso ai cani, il divieto doveva valere anche per i maialini nani, che una nuova moda aveva introdotto mettendoli al guinzaglio di certi stravaganti.
Le cose andavano bene e l’aumento degli stipendiati a giustificazione dell’attività procedeva di pari passo. Un lunedì mattina giunse una donna con le natiche depresse dalla forza di gravità e la pelle a buccia di ananas. C’era un ufficio vuoto. La nuova venuta appose sulla porta un cartellino con il proprio nome, la qualifica, la scritta Crestomazia e vi si inchiavardò. A fine mese il cedolino della retribuzione non arrivò e la donna protestò con l’ufficio del personale.-“Provvederemo subito”, assicurò il direttore.
Una nuova direttiva era stata intanto emanata dall’Istituzione. Se dei ragazzi si fanno il solletico giocando e nella smania si registrano scalfitture, queste non si configurano come lesioni personali. Inutile pensare al prezzo di una simile risoluzione.
Le riunioni di lavoro erano state nel frattempo integrate da un giocondo canto di chiusura. Si accennava a qualcuno che avrebbe dato e ad altri che avrebbero avuto, senza entrare tuttavia nei particolari delle donazioni.
Un giorno il buon umore cessò. Un controllo, ma forse si era trattato di una delazione, aveva scoperto dopo tanto tempo che l’occupante dell’ufficio trovato vuoto era in realtà un’intrusa. Il fatto in sé non sarebbe stato grave ma, se si fosse saputo, avrebbe potuto determinare una riduzione degli importi destinati alla produttività, si fa per dire. Il direttore generale (sarebbe stato più esatto chiamarlo direttore caporale, senza voler minimamente sminuire quest’ultima figura) chiamò l’interessata, le espresse lodi per la sua attività e promesse per il futuro ma, poiché nell’Istituzione c’erano delle mele marce da evitarsi a meno che non si sia un verme, per il momento essa doveva capire l’imbarazzo che la sua presenza determinava. Certo, la mancanza della Crestomazia, cioè dello studio delle cose utili, sarebbe stata una grave perdita per tutti.
La donna precisò che la sua mansione, la Crestomazia appunto, non consisteva nel semplice studio delle cose utili, bensì nella raccolta di intuizioni, espressioni, pareri, comportamenti anche privati dei responsabili, che dovevano servire da modello per tutti i subalterni.
Il direttore generale ritenne, chissà perché, di comprendere in quelle parole una specie di ricatto. Egli offerse quindi una consistente somma di denaro affinché tutto potesse risolversi bonariamente. Dopo vari mercanteggiamenti che non escludevano, tra l’altro, un rientro in tempi più favorevoli, la donna se ne andò.
Non poteva tuttavia finire così. Il guaio era accaduto, così si supponeva, perché qualcuno aveva parlato. C’era la possibilità che l’inconveniente si ripetesse. Bisognava neutralizzare subito la causa.
Prove non ce n’erano. Un semplice indizio portava a una persona distintasi per talune singolarità. Questa si era, per esempio, rifiutata di partecipare al gioco d’azzardo, che ogni mercoledì aveva luogo in luoghi determinati coinvolgendo alcuni colleghi. Essa era, inoltre, sempre assente alle cene organizzate per festeggiare di non essere andati a finire nei guai in certe circostanze. A ciò si aggiunga, infine, il fatto che la persona sospettata non aveva mai manifestato simpatia per quel genere di solidarietà confinante con la complicità. Per non parlare poi della sua preferenza di generi alimentari non nazionali! Non era che la persona non volesse adeguarsi alle consuetudini: semplicemente non era adatta. Il direttore generale la chiamò e disse: “O cambi piatto o cambi sputo”. Sì, un tipo del genere sarebbe stato capace di provare una crisi di rigetto in certe circostanze.
La persona di cui trattasi finì in un minuscolo spazio dello scantinato, arredato con un misero tavolino e una sedia. Nessuna mansione occupava il suo tempo. La finestra non c’era e a nulla sarebbe dunque servito il rotolo di canapa, tenuto sempre pronto per fuggire in caso d’incendio.
L’emarginazione è inquietante e paurosa. Talvolta può sembrare amica perché consente l’elaborazione del pensiero. Sempre, però, l’estromissione è infida perché il suo logorio addormenta il pensiero. Chi ne è vittima diventa un uomo-insetto simile alle metafore kafkiane della Metamorfosi e della Tana.
Giunse un autunno tanto malinconico, che le foglie non volevano cadere dai rami. La persona scostata si rendeva conto che in quel bozzolo stretto e insonorizzato avvenivano dei cambiamenti fisici. Le scapole sembravano alucce membranose incompiute incollate a un tozzo corpo di crisalide. La risposta a tanta ostilità non diventava tuttavia mai accettazione della sconfitta. Le gambe e le braccia diventavano esili come zampette. Sembrava strano che gli arti fossero solo quattro. Il torace e l’addome sembravano rigati da alcuni segmenti profondi. I capelli si erano coagulati in due antenne filiformi. Soltanto il pensiero era rimasto integro.
La coscienza che l’uomo è comunque protagonista si fece strada. L’essere umano, artigiano del pensiero, può elaborare una strategia per la propria esistenza e ricominciare da se stesso. In una società che tende a trasformare gli individui in insetti, prima o poi ci sarà una reazione. Bisognava perforare il bozzolo. Ci sono accorgimenti per non diventare prigionieri di se stessi. Bisogna uscire all’esterno, prendere il volo, cercare qualcosa che manca, parlare.
La porta c’era ancora e la persona emarginata uscì. Parlò con i passanti con un acuto di dignità e con la convinzione che, in ogni caso, avevano diritto di esistere tutte le parole migliori del silenzio. E tra queste le seguenti: “In certe situazioni tutti sono disperati, ma non tutti entrano in quelle situazioni”.



L O S F R A T T O

Il progetto di recupero edilizio era riuscito. Una vecchia casa colonica era diventata un edificio residenziale con tanto di vasto giardino. Qualcosa del passato era tuttavia rimasto: il solitario pozzo non più visitato dalla luna, il precedente viottolo privato delle piantine di camomilla, la vasta tettoia per gli attrezzi agricoli ora trasformata in autorimessa. I campi circostanti erano rimasti quelli di sempre, solo le colture si erano rarefatte.
Sulla sinistra della costruzione c’erano due abitazioni. Al primo piano viveva la proprietaria di entrambe. Al piano terreno risiedeva Rìcio, il quale pagava l’affitto e aveva un cane dall’aria afflitta e fedele. Come è noto, i cani considerano l’uomo superiore a loro. Sono i gatti e i maiali a ritenerlo rispettivamente inferiore e alla pari.
Bisogna farsi un’ idea di chi fosse Rìcio. Il nome era diminutivo di “burìcio” che, con la seconda “i” quasi non pronunciata, significava nell’antica lingua all’incirca “grassoccio”, ma neanche. La parlata locale era d’altronde stata scambiata con l’illusione di diventare come altri, senza sapere poi perché. Rìcio era di professione “verificatore” di pesi e misure. Tutti i giorni egli visitava le botteghe e le osterie del circondario per accertarsi che tutto fosse in ordine. Le prime avevano la bilancia con due piatti di rame: uno per la merce e uno per il peso. Le seconde usavano dei boccali per il vino, sui quali c’erano delle periodiche diceria circa la capienza.
La padrona di casa era una donna dai femori brevi, per così dire, molestata da inestetismi a mora di gelso sul labbro superiore e nel mento che rappresentavano un oltraggio per la femminilità.-“Se fosse un vino, sarebbe aceto”, pensavano i vicini.
Un giorno il cane di Rìcio manifestò segni di inquietudine. La causa era un topo campagnolo che forse frequentava il giardino e che provava gusto a molestare l’animale.
Rìcio si procurò una scatola di cartone in una bottega controllata nel pomeriggio e costruì una specie di trappola. C’era proprio tutto dall’immancabile crosta di formaggio fino al sistema di elastici per chiudere la porticina. Il topo non finì comunque mai nel trabocchetto. Vi rimase, invece, un merlo con il becco e le orbite giallo-arancio. La padrona di casa chiamò la rigorosa associazione per la tutela degli animali, la quale liberò l’uccello ma constatò che nella trappola erano prigionieri due lucertole, un intimo o insetto dal corpo nero coperto da scagliette iridescenti, una lucciola che svolazzava come scintilla, due lumache, altrettante farfalle chiamate lamestra e un lombrico perfino. Sorprende quante presenze convivano in un giardino.
A questo punto la denuncia divenne inevitabile. Non mancava la flagranza di reato ed erano appena entrate in vigore nuove leggi restrittive. Rìcio fu condannato a un anno di prigione. In considerazione delle attenuanti generiche, purtroppo inferiori alle aggravanti perché costruire una trappola presuppone la premeditazione, egli doveva andare in carcere. Il rigore della legge lo pretendeva. Lo salvò il fatto che, anche per colpe ben più gravi, nessuno veniva più recluso e la mancata concessione della condizionale sarebbe stata segno di parzialità, cosa detestata dalle Autorità specialmente in periodo elettorale. Incominciarono invece per lui i veri guai. L’Amministrazione dei pesi e delle misure non poteva avere alle proprie dipendenze persone pregiudicate. C’era scritto nel regolamento.
Rìcio perdette subito il lavoro. Egli non sapeva fare alcun altro mestiere e, comunque, nessuno avrebbe voluto avere un impiegato con precedenti penali. Dopo un po’ di tempo non fu più possibile pagare la pigione. Giunse lo sfratto esecutivo per morosità. Rìcio non si preoccupò più di tanto. In fin dei conti anche un altro inquilino non pagava l’affitto da molto tempo e non gli succedeva nulla. In paese si mormorava che non si trattasse di casi isolati, anzi. Tutti evitavano però di precisare che si trattava di persone di diversa estrazione. Parlarne era pericoloso a causa di una non meglio precisata fratellanza. La constatazione di essere figlio unico poteva perfino costare una incriminazione. Con le nuove norme non si poteva mai sapere. C’erano continui inviti alla ragionevolezza per torti, danni, reati subiti. Le regole, si diceva, non fanno parte di certe mentalità. Bisognava comprendere la cultura del self-service.
Un giorno si presentò l’ufficiale giudiziario con i gendarmi. Rìcio doveva lasciare l’appartamento e consegnare le chiavi.
Il cane rimaneva accucciato e guaiva. A questo punto la procedura, chiamata anche incombente istruttorio, si interruppe come per miracolo. All’ufficiale giudiziario venne in mente che non si potesse privare la bestiola di un proprio luogo dove stare, del sostentamento, del benessere che la coabitazione con il padrone significa. C’erano norme precise al riguardo e non soltanto la reazione dell’associazione per la protezione degli animali.- Per ora il cane e il suo padrone avrebbero continuato ad avere un tetto sopra il capo. Non è cosa da poco. Poi si vedrà.




IL MAIALE

Il paese in riva al lago era così piccolo da sembrare quasi privato. Anche le possibilità economiche erano scarse, in quanto l’agricoltura e la fisicità contadina erano le uniche risorse. Per le spese della Parrocchia c’erano difficoltà, com’era facile immaginare. Si era allora stabilito di allevare un maialino che, una volta divenuto adulto e grasso, sarebbe stato rivenduto ricavando un sicuro margine.
La bestiola fu comperata per pochi soldi al mercato del mercoledì. Dopo la rituale benedizione del parroco fu lasciato libero di cercarsi il cibo vagando di casa in casa come facevano i mendicanti. Era stato indicato come “il porco di S. Antonio” e sarebbe stato benvenuto presso ogni famiglia.
Destava meraviglia che il maialino non oltrepassasse i confini del paese nella sua questua quotidiana. La maggior parte degli abitanti riteneva che tale saggezza dipendesse dal viatico ottenuto con la benedizione. Altri conoscevano invece il motivo. Quando l’animale si presentava inconsciamente in una casa dei paesi circostanti, non solo non riceveva nulla da mangiare, ma veniva cacciato in malo modo. L’esperienza aveva dunque, esattamente come per gli umani, delimitato il raggio d’azione e l’intervento sopranaturale non c’entrava affatto. Il porchetto viveva saziamente tranquillo e trascorreva la notte sotto qualche tettoia per attrezzi agricoli, che in campagna non mancava mai, dove c’era della paglia perfino. Gli tenevano compagnia i gufi soliti a “sparger voci piangendo e tragger guai”, come dice il poeta. Di giorno aveva l’occasione di confrontarsi con altri suoi simili rinchiusi nei porcili e di apprezzare la propria effimera libertà. Aveva anche imparato che i cani consideravano gli esseri umani come superiori, mentre i gatti li ritenevano inferiori a loro. Per i suini è diverso: gli esseri umani sono uguali a loro.
Il porco di Sant’Antonio era dunque completamente ignaro del proprio destino. Non conoscere l’avvenire è certamente un bene, anche se permane una certa curiosità di fondo. Un giorno, mentre succhiava la linfa ascendente di uno stelo di verbena, aveva sentito certi studentelli discutere se il maiale fosse causa o effetto del proprio destino, ma l’argomento non risultava chiaro né ai saputelli, né all’interessato. Egli pensò allora di rivolgersi a una gallina, che era una specie di veggente, per una spiegazione.- “Vedo solo salami e cotechini nel prossimo inverno…”, fu la fumosa risposta. I maghi, si sa, sono spesso poco chiari e la credulità non è la fede. In ogni caso i polli non avrebbero poi particolari motivi per stare tranquilli.
Il porco di Sant’Antonio cresceva tra la soddisfazione degli abitanti del paese. Egli era in generale indifferente nei confronti degli altri animali. Un’eccezione però ci sarebbe stata. Si trattava di una porchetta baffuta e paffuta di proprietà del mugnaio, che esibiva un grugnito erotizzato dall’accento montanaro: un esemplare volubile e di scarsa reputazione.
Una mattina il maiale appena sveglio vide le pensose magnolie coperte di neve. Quello era il primo inverno della sua vita. Sarebbe stato anche l’ultimo? Come si sa, anche gli animali sognano egli era apparsa nel sonno una figura indistinta che gli disse:”Sono il senso orario”. Che cosa poteva significare se non un quadrante come quello sul campanile, nel quale erano segnate le ore prima verso destra e poi verso sinistra di chi guarda? In ogni caso era troppo difficile da comprendere.
Il freddo dell’inverno consigliò alla bestiola di rifugiarsi in un luogo meno esposto alle intemperie. C’era uno spazio chiamato “la stalla dell’asino”, la cui porta era soltanto socchiusa in fondo a un portico. Sembrava un luogo adatto e fu così per un certo tempo.
Una mattina il porco di Sant’Antonio si svegliò per la questua giornaliera e si accorse che la porta della stalla era chiusa, inspiegabilmente sbarrata. Più tardi due uomini lo afferrarono, lo caricarono su un carro transennato insieme ad altri suini per il trasporto al mercato del mercoledì, lo stesso dove egli era stato acquistato per pochi soldi parecchi mesi prima.

(Il Dialogo, mensile, Oderzo)



IL PRIGIONIERO

Il giovane aveva avuto un’infanzia felice nel suo villaggio. L’unico vero cruccio era un anemone che cresceva solitario oltre il cancello di una villa. Il cancello aveva le sbarre di ferro. Il giovane voleva liberare quel fiore, coglierlo per sé. In fondo la morte è preferibile alla prigione, pensava.
Ma, per quanti sforzi facesse, non riusciva a raggiungere il fiore. Le estremità delle sue dita erano riuscite in verità a sfiorarlo, ritirandosi pervase da un desiderio ancora maggiore.

Il villaggio offriva troppo poco alle speranze della gioventù. Così sembrava. Bisognava partire in cerca di fortuna. Ma come partire senza aver prima liberato l’anemone?

L’ora sperata e temuta, l’ora dell’emigrazione verso l’ignoto, giunse. La meta era l’opposto di quella di altri coetanei costretti a cercare un altro luogo dove stare bene senza essere. Tutti andavano in America, oppure nei paesi d’Oltralpe. Il giovane si recava invece nella capitale.
Gli sforzi per raggiungere l’anemone si moltiplicarono. Il braccio si protendeva ansioso. La spalla si restringeva per spingersi tra le arrugginite sbarre del cancello. Invano. Un altro tentativo. Mancava poco. Un’altra spinta scorticante. La spalla doleva, ma si protendeva oltre il recinto: due dita erano pronte come una forbice.
Ancora un poco. Sì, ora l’anemone era suo. Non poteva proprio sopportare l’idea che un fiore potesse rimanere prigioniero, come sembrava che fosse.
Il giovane si distese sul letto con le mani sul petto: tra le dita l’anemone liberato. Era il riposo prima della partenza.

Dopo un’intera notte di viaggio, ecco la capitale finalmente. Alla stazione lo accolse un gran trambusto: gente che andava e veniva, carrelli, altoparlanti.
La Polizia arrestò il nuovo venuto e lo portò via senza una spiegazione.
Il giovane si trovò in una cella del carcere. Unico conforto era un albero che si vedeva dalla finestrella con le inferriate.
Meditava. Forse si era trattato di un errore. Quali reati avrebbe compiuto, altrimenti? Tempo addietro, per la verità, un maestro gli aveva chiesto: “Ma tu credi proprio che io sia un allocco?”. Ed egli gli aveva risposto: “non interferisco mai con la natura”. No, questo non poteva bastare per andare in prigione. Ma allora, perché? Aveva avuto un amico mendicante, cui appartenevano due cani. Questo amico lasciava ogni tanto i due cani a mendicare da soli, con un cartello contenente implorazioni. E allora? Egli conosceva anche un altro mendicante, noto per indossare contemporaneamente tutto il proprio guardaroba. Tutti inm paese lo conoscevano e sapevano che il pover’ uomo portava sette camicie una sopra l’altra senza mai avere avuto noie con la Giustizia. Doveva dunque trattarsi di un errore. Un’omonimia forse. Tra poco tutto sarebbe stato chiarito. Non poteva essere altrimenti. Con questa convinzione il giovane viveva la propria condizione di prigioniero.
I pasti rappresentavano una novità nella giornata interminabile, anche se non si poteva parlare di variazioni. Ma per quale misfatto, con quale accusa era detenuto? Aveva forse considerato con sconveniente compiacenza un guaio accaduto a qualche Autorità? Non rammentava. Intanto egli era divenuto un numero. Non aveva più nemmeno un nome. Gli incubi si facevano sempre più pressanti.
Per l’ora della passeggiata i detenuti uscivano ad uno ad uno dalle proprie celle, mettendosi in fila uno dietro l’altro. Il giovane poteva vedere di spalle il prigioniero che lo precedeva, ma nulla sapeva di quello che lo seguiva. Era proibito voltarsi.
In cortile camminavano tutti i prigionieri in fila indiana guardati a vista. Al centro del cortile alcuni detenuti erano intenti a spaccare la legna. I primi invidiavano i secondi e viceversa. Ma perché la prigione? E lui, che aveva mai fatto di male? Nell’elenco mentale dei possibili reati il giovane non si riconosceva. Eppure qualcosa doveva pure aver fatto, se si trovava in carcere! Probabilmente egli era un pensatore di frodo. Questa poteva essere la causa della sua detenzione. Le notti erano interminabili. “Come faceva Seneca a dire che il tempo non costava nulla?”, si chiedeva il giovane prigioniero.
Poi pensava al suo paese. Riviveva le funzioni religiose di quel maggio, chiedendosi se il suono dell’organo provenisse dal ventre dello strumento oppure dal tunnel vibrante delle canne argentee. Così riusciva a dormire un poco sul pagliericcio ostile.

L’indomani un altro giorno, un altro nodo da sciogliere, un nodo come quello dipinto sul pavimento di una cappella che non riusciva più ad individuare. L’indomani un’altra ora di d’aria in cortile, si fa per dire. All’improvviso il giovane scorse un fiore che cresceva solitario accanto alla pista formata dai consuetudinari passi dei reclusi: un anemone! Come prenderlo senza farsi scorgere? Questo avrebbe potuto sostituire il fiore che gli era stato tolto con tutto il resto al momento dell’incarcerazione. La vigilanza sembrava una lucida malvagità. Eppure non poteva essere possibile che un fiore rimanesse in prigione, in un angolo del cortile di un carcere.

La notte seguente non portò il sonno. Il giovane si poneva domande: “Il Signore rimetterà i miei debiti, visto che i creditori non ne vogliono sapere?”. “Per caso, non sarò uno che ama la gente al netto, ma la odia al lordo?”. “Ci si può nutrire bene anche senza praticare il cannibalismo?”. Ormai era chiaro, il giovane delirava.
Durante la prossima passeggiata egli avrebbe tentato di cogliere l’anemone. Così fece, ma l’occhio impositore della vigilanza era contrario ad ogni tentativo. Un’altra notte si avvicinava, ma c’era una novità. Il desiderio di cogliere l’anemone aveva superato quello di conoscere l’imputazione. Per poco, però. Ricominciarono, infatti, le congetture: “Se tre è il numero perfetto, il quarto punto cardinale è forse la ruota di scorta del Grande Carro nello Zodiaco?”. “Senza l’auto molti sono delle nullità con le vene varicose?”.

Nuova passeggiata in cortile. Nuovo odio per la reclusione spersonalizzante. Nuovo tentativo di cogliere il fiore. Nulla. Nuovo paradosso di geometria emotiva era quello sforzo. C’è da perdere la ragione. Chi mai ha detto che bisogna saper perdere? All’improvviso il detenuto che precedeva il giovane nella fila diede segni di sofferenza e vomitò. I passeri sugli alberi erano pronti a scendere sul misero prodotto. La vigilanza non era preparata all’inconveniente.
La fila dei detenuti si sconvolse un poco. Il giovane protese una mano, strappò l’anemone, lo nascose.

Venne la sera. Il giovane si distese sul pagliericcio con le mani sul petto: tra le dita l’anemone liberato dalla prigione. Mentre moriva, gli pareva di farsi radice, gambo, petali doppi porporini o variati di più colori e stami gialli, perfino.



CAMPANE

Quando il tempo non era ancora moneta ma quasi tutto il resto, la campana era la lingua, il linguaggio del Signore. Così Egli parlava alle creature di mattino, a mezzogiorno e a sera nei giorni feriali. Più spesso nelle festività perché la gente aveva più tempo. I rintocchi annunciavano la Messa, il Vespro, l’Angelus e anche i decessi sia dei vecchi che dei giovani. Per i bimbi il suono era breve, per gli adulti grave e triste. Ciò dipendeva dal fatto che l’anima dei grandi aveva bisogno di maggiori raccomandazioni, com’era logico che fosse. La durata del suono della campana era anche commisurata al riguardo per il defunto. Se questi era un neonato, bastava un breve sorvolo di squilli sopra i tetti. Se però, supponiamo, era un vecchio benestante, la campana suonava diversamente con l’accompagnamento dei bronzi minori.

Ogni campanaro faceva in realtà il proprio dovere, come sarebbe stato necessario affinché la lingua del Signore fosse compresa dalla creature. Se ne rammenta uno, un grande devoto, che morì suonando le campane.
La professione di campanaro era onorevole. L’uomo veniva salutato perfino da tutti. Egli poteva vantare contiguità con il parroco. La lingua del Signore aveva una bella casa, un’alta torre con il tetto a guglia insaporito dalle versatili astorelle. Se qualcuno vi fosse entrato, avrebbe compreso la lingua degli uccelli.
Durante il suono delle campane nei villaggi s’interrompeva il lavoro nei campi, ognuno si toglieva il cappello e il sole illuminava le teste scoperte. Perfino le ragazze intente a sgranare le pannocchie smettevano di gattigliare.

Di domenica le parole del Signore mettevano le ali, meravigliose ali color crosta di panna cotta che portavano il messaggio attraverso l’intero paese. Anche le foglie degli alberi tremavano e i cipressi slanciati annuivano ai rintocchi con le cime. I calici dei gigli facevano altrettanto e i cani smettevano di latrare. Di domenica tutto splendeva e il sole occhieggiava mite sull’infinità delle pianure. Sotto il gelso il campanaro leggeva a tutta la famiglia la Scrittura: “Mentre parlava ancora, arrivò Giuda, uno dei dodici, e con lui la folla con spade e bastoni mandata dai capi sacerdoti e dagli scribi e dagli anziani. Ora il traditore aveva dato loro un segno convenuto, dicendo: -Chi bacerò, è lui; arrestatelo e conducetelo via al sicuro.-

Poi ognuno si rattristava e l’ultimo rintocco della campana minore si spargeva sui prati di Rigole, lungo il fiume che non scorre da solo perché noi scorriamo con lui.



PERCHÈ LE CONIFERE SONO SEMPRE VERDI (Fiaba)

C’era una volta una grande quantità di alberi nel Bosco della Vizza: querce, cipressi, pioppi, abeti, bossi, pini, acacie e larici perfino.
Tutte le piante erano in grado sia di fare ciò che agli uomini generalmente non riesce, cioè dormire stando in piedi, sia di parlare. Ciò ingelosiva e rattristava i boscaioli, i quali, come si sa, non potevano permettersi un sonnellino in piedi e inoltre erano costretti a sentire lamenti e grida quando tagliavano un ramo o abbattevano un tronco.
I boscaioli si rivolsero al sole e alla luna: ” Questo è il nostro mestiere e il legno è necessario per tante cose. Quando poi giungerà l’inverno, tutti vorranno scaldarsi. Bisognerebbe fare in modo che gli alberi non piangano quando vengono tagliati”.
Il sole e la luna non ascoltarono i boscaioli perché a loro piacevano sia le parole dei vegetali che raccontavano le novità del bosco suggerite dal vento, sia le canzoncine che gli alberi improvvisavano.
Tutto sarebbe rimasto come prima, se le conifere non si fossero lamentate. Queste erano infatti gelose delle foglie che altri alberi avevano in quantità.- “Perché dobbiamo tenerci i nostri ahi che mettono paura a passeri, cinciallegre e civette? Vogliamo le più belle foglie del bosco”, insistettero con voce resinosa finché il sole e la luna concessero loro un fogliame di velluto e seta.
Il temporale sgualcì e sbiadì le nuove foglie, orgoglio delle conifere, e le lamentele ricominciarono finché il sole e la luna cedettero di nuovo.
Il mattino seguente gli abeti bianchi e rossi, i pini, i larici e perfino i cipressi si svegliarono con nuove foglie aghiformi di puro cristallo che brillavano al sole: uno splendore!-
Verso le tre del pomeriggio il temporale devastò i rami che, sbattendo tra loro, spezzarono gli aghi di cristallo riducendoli a mucchietti di schegge ai piedi degli alberi.
Il sole e la luna non vollero udire altre proteste e dissero: “Chi non è mai contento non merita nulla. Riprendetevi gli aghi verdi che avevate prima. Per voi sono anche troppo. Nessun temporale potrà sciuparveli e, affinché possiate abituarvi meglio a tenerli addosso per sempre, questi non cadranno nemmeno in autunno. Anzi, per evitare altre seccature, tutti gli alberi perderanno la parola”.
Da allora le piante non parlarono più. Tuttavia conservarono quel fruscio che, come si sa, accarezza l’anima, contropelo.

(Il Dialogo, mensile. Oderzo)




L A B E N E D I Z I O N E

C’erano una volta i corsi serali. Qualcuno sopravvive ancora, per la verità, ma sembra una realtà in estinzione.
Molti docenti erano restii a lavorare dopo cena e nell’Istituto spagnolo dove insegnavo, pomposamente denominato Ateneo, furono lieti della mia disponibilità.
La Spagna, bellissima e suggestiva, non sarebbe stata consigliabile per uno come me nato sotto il segno del Toro. La mia propensione per i corsi serali dipendeva dal fatto che avevo le serate libere da quando la fidanzata mi aveva lasciato.
Si fa presto a dire fidanzata. E’ bene chiarire subito le cose. Sarebbe esatto parlare di amicizia progredita piuttosto che di amore a bassa intensità. La ragazza aveva un paio d’anni più di me, ma questo sarebbe stato il meno. Il guaio era che essa non possedeva tratti pregiati, per così dire. Anche l’emotività era scarsa come la concentrazione di estrogeni, disidratata perfino. Mi chiedevo a che servissero le carezze se non si scambiavano. Incoerenza, volubilità e incertezza sentimentale si leggevano, inoltre, nei suoi occhi che sembravano due ovetti fritti nel rossore.
Le nostre personalità erano incompatibili. L’accostamento era stato un errore per entrambi, ma soprattutto per me. Non mi ero infatti accorto che ella era l’emblema della donna non perfetta, ma di fare il passo indietro non mi sentivo.
Ci si incontrava in un posto vicino all’allevamento degli ippocampi, non lontano dalla chiesetta di San Guisuga. C’era un ampio ceppo di pioppo. Quando spuntavano in gruppo i funghi pioppini, diamanti della cucina, grassocci e color marrone come fraticelli pensosi, quel residuo d’albero sembrava un grande capitello corinzio con i funghi al posto delle foglie d’acanto. Vicino c’erano il vigneto con le viti crocefisse e un anziano albero di pere visitato da ratti con la coda lunga e triste.
La ragazza mancava spesso agli appuntamenti. Quella volta non faceva eccezione ma, a guardar bene, era ci era invece stata da sola. Sulla superficie del ceppo erano ben visibili i resti di una margherita sfogliata.
Mi chiesi quale poteva essere stato il responso. Negativo, naturalmente, altrimenti avrebbe aspettato. La verità può inghiottire tutte le mezze verità. La prospettiva mi faceva piacere, tuttavia la certezza mancava in quell’odore di polline muschiato.
Riaccostai uno ad uno tutti i petali sparsi al cosiddetto bottone giallo mormorando il tipico “m’ama, non m’ama”. L’ultimo petalo fu categorico: non m’ama. Tirai un sospiro di sollievo. Una piccola scena, brevissimo diario di un dolore, confermò la mia soddisfazione. Due bachi della frutta, evidentemente usciti da altrettante pere cadute sull’erba, rimasero un poco vicini. Poi ci fu una specie di diverbio. Il maschio sembrava aver detto alla femmina (riconoscibile dalle movenze) in maniera seccata: ”Tornatene a casa tua”. Entrambi si diressero poi verso i rispettivi frutti di residenza.
Le cose andavano bene nei corsi serali. C’era soddisfazione per me e per i discepoli. L’Ateneo sembrava il migliore dei luoghi possibili. Le uniche cose sgradevoli erano l’angustia dell’ufficio dove ricevevo gli studenti e l’occasionale vista di un personaggio luciferino, la cui funzione non era mai stata chiarita mentre la sua influenza malefica era percepita ovunque con angoscia. Anche nell’Ateneo succedeva come nel pollaio: il gallo era arrogante perché le galline gli davano troppa importanza.
Un giorno il Rettore mi chiamò.
“Si dice che dall’aula provengano risate, arguzie, ironie. Può spiegare il motivo?”
“Vede, Magnifico, è una cosa che sappiamo in pochi. Dopo un quarto d’ora nessuno riesce più a seguire una lezione. Noi impieghiamo i restanti 45 minuti nell’esame degli avvenimenti e nella riflessione sulle persone che ci circondano. Può esserci qualche motivo per ridere, ecco tutto. Provocare significa indurre la gente a pensare, ha insegnato John le Carrè. Non pare che i miei studenti siano meno preparati di altri”.
Il Rettore mi congedò con ammonizioni varie.
Secondo Esopo il mare non è burrascoso: sono i venti a muoverlo. Qualcuno doveva aver sollecitato il richiamo nei miei confronti e mi faceva giungere il messaggio: “Se vuoi sentir parlare bene di te, fai il morto”.
I bidelli, sempre abili nell’evitare di trovarsi tra un cane e un tronco d’albero, mi dissero parole-placebo accompagnate da allusioni sulla delazione di cui sarei stato vittima. L’accusatore segreto era il personaggio inutile dal sorriso pieno di fossette e dalle orecchie a mandorla. Egli era stato indubbiamente capace di fare buon uso della propria ignoranza e di diventare un uccello del malaugurio anche se non aveva mai volato. Un individuo del genere meritava una promozione, ma a me spettava il diritto di rabbia, così mi sembrava.
La promozione arrivò, infatti, e ad essa si aggiunse la disponibilità di un nuovo ufficio in crisi di abbondanza. Il mio disappunto ebbe come ricompensa l’ufficio lasciato libero dal beneficiato funesto. Si cercò di farmi credere che avrei lasciato le radici per scoprire gli alberi.
Non mi trasferii mai nonostante gli inviti del Rettorato. Trovavo sempre un pretesto. Mi tornava spesso alla mente la definizione di Orazio sulla felicità: dissociazione dalla corte e dalle sue appendici. Le insistenze per il trasloco aumentarono tuttavia. Risposi infine che non volevo disobbedire, per carità, ma il sacerdote non era ancora disponibile…-
Devo ammettere che nessuno sarebbe stato in grado di comprendere una frase del genere, peraltro verosimile perché un amico prete io ce l’avevo veramente. L’appiglio mi fruttò una seconda convocazione.
“Che cos’è questa storia del prete stavolta? Vada nel nuovo ufficio assegnato che, tra l’altro, non è una sgrammaticatura come quello precedente”.
“Vede, Magnifico, non è che io non sia grato. Ci mancherebbe altro! Ma prima di entrarvi vorrei far benedire l’ufficio, ecco. Appena Padre Bruno sarà disponibile, questo incombente istruttorio sarà ultimato”.
Mi ritirai e bevvi un’intera bottiglia di vino. I bevitori, ha insegnato Joseph Roth, possono diventare santi. I bidelli, esperti nell’individuare dove sta l’arrosto in mezzo a tanto fumo, furono di differente opinione e si incaricarono di far circolare la notizia tra studenti e docenti. Si possono immaginare la reazione, la collera e specialmente l’umiliazione mista a mortificazione del precedente titolare della stanza in questione. Costui portava in quei giorni occhiali da sole, foglie di fico per coprire lo sguardo.
Gli studenti del corso serale attendevano con lo sguardo al taglio un mio accenno alla spinosa questione. Invano. La prossima lezione durò un quarto d’ora come sempre.
“Le cose sono frammenti di vita”, iniziai, “oggetti costruiti dall’uomo, ma anche quanto si trova in natura, che possiamo trasformare per una finalità sentimentale, simbolica, mitica. L’oggetto creato dall’uomo è una ‘cosa’, ma la cosa è più di un semplice oggetto”.
I giovani cercavano di applicare le mie parole alle loro aspettative di spiegazione in ordine ai motivi che avrebbero determinato la necessità di quella benedizione tanto attesa.
“Ogni parola”, continuai, “è ingannevole per definire ciò che non è definibile: il punto geometrico, la divisione tra passato e presente, il concetto di assoluto…che sono inafferrabili con la ragione, ma certi con l’intuizione”.
Risuonò la consueta ilarità. Sarei stato accusato per concorso in associazione curiosa finalizzata al traffico di notizie stupefacenti.

(Il Dialogo, mensile, Oderzo aprile 2005)



I L C A L Z O L A I O M A R T I N O

Molto tempo fa, nello scantinato di una vecchia casa viveva Martino, il calzolaio. Lavorava dall’alba al tramonto e la sera si preparava un tè, prendeva la Bibbia dallo scaffale e leggeva.
Una volta lesse la storia di un uomo ricco, che aveva invitato Gesù a casa sua. Quando andò a letto, Martino meditò a lungo.
“Anch’io vorrei tanto che Gesù venisse a farmi visita!”, pensò.
“Martino!” lo chiamò improvvisamente una voce. Martino si spaventò.
“Martino! Domani verrò da te!”
Il calzolaio si guardò intorno sorpreso. Ma nella stanza non c’era nessuno. Allora si rimboccò le coperte e si addormentò.
“Che sia stato soltanto un sogno?” si chiese Martino il mattino dopo. Poi scosse il capo e si mise al lavoro. Stava appunto tagliando un pezzo di cuoio, quando udì dei passi. Guardò fuori dalla finestra e vide gli stivali tutti rotti di Stefano, il vecchio spazzino, che batteva i piedi e si soffiava le mani per scaldarsi.
Martino aprì la finestra dello scantinato e disse: “Entra pure, Stefano”.
Lo spazzino si sedette accanto alla stufa e sorseggiò con gusto il tè che Martino gli offrì.
“Grazie, ora mi sono riscaldato!” sorrise Stefano e tornò al suo lavoro.
Martino stava mettendo sul fuoco una pentola di minestra di cavoli, quando scorse fuori una giovane donna. Teneva in braccio un bimbo piccolo e cercava di proteggerlo dal vento gelido con il suo scialle leggero. Martino la invitò: “Entra a riscaldarti!”
Offrì alla donna un piatto di minestra calda e le regalò il suo mantello.
“Grazie di tutto!” gli disse la donna e, avvolgendosi nel caldo mantello con il suo piccolo, se ne andò. Martino riprese il lavoro.
All’improvviso udì delle grida che provenivano dalla strada. Una donna, che stava portando i suoi ortaggi al mercato, strillava come una forsennata tirando per i capelli un ragazzo che le aveva rubato una mela.
Martino intervenne. “Lascialo andare! Se si dovesse punire così un ragazzo per una mela, che cosa si dovrebbe fare a noi adulti, che ne combiniamo ben di peggiori?”
Il ragazzo e la donna si guardarono. “Scusa” disse il giovane a bassa voce. E, presa la pesante cesta della donna, la portò fino al mercato per lei.
A poco a poco si fece buio. Martino accese la lampada e, più tardi, si sedette al tavolo e riprese in mano la Bibbia.
Voleva rileggere la storia del giorno prima.
Una voce sommessa gli bisbigliò allora all’orecchio: “Martino, oggi sono stato da te. Non mi hai riconosciuto?
“Da me? E chi sei?” chiese Martino meravigliato.
In quel momento, al debole bagliore della lampada rivide lo spazzino Stefano, la giovane madre e il suo bimbo, il ragazzo e la donna del mercato. Gli sorridevano. Martino li guardò con stupore. Soltanto allora comprese che il sogno non lo aveva ingannato.
Gesù era veramente venuto da lui e Martino lo aveva accolto.
Il calzolaio aprì la Bibbia e lesse le parole che Gesù aveva pronunciato tanti, tanti anni prima:
“Tutto quello che farete per i miei fratelli più piccoli, lo avrete fatto per me!”

(Brigitte Weninger, L’angioletto e Babbo Lepre, 24 racconti per Natale. Testo di Lev Tolstoj raccontato da Brigitte Weninger. Traduzione dal tedesco.- Nord-Sud Edizioni, Gossau (Zürich) settembre 2002, prima edizione, pag. 29-30.



R I C H È T A

Il negozio era lungo e strettissimo. Un campanello suonava quando un cliente entrava, così qualcuno arrivava per servirlo.
La piccola bottega non aveva una vetrina, ma solo una angusta finestra, sul cui davanzale era esposto qualcosa: un arancio,biglie colorate, cartelle della tombola da giocare nelle veglie invernali, un salvadanaio chiamato musìgna.
Tra i vari avventori uno era abbastanza assiduo. W lo osservava dalla finestra. L’uomo parlava brevemente con Richèta, che era la proprietaria e che si guardava sempre le mezzelune delle unghie, non comprava nulla, pagava e se ne andava contento.
W voleva comprendere. pagare per nulla non sembrava logico. Ogni volta che scorgeva quel cliente nel negozietto, W cercava di indovinare quale fosse la sua richiesta accompagnata dalla figura ottica delle mani. Dalla lettura labiale sembrava che domandasse il sèst e dall’atteggiamento condiscendente di Richèta l’impressione sembrava confermata. Non poteva essere diversamente. Bisognava capire cosa fosse il sèst. Ci sono parole che chiariscono qualcosa senza rivelare ciò che chiariscono.Nel vocabolario c’erano parecchie spiegazioni che riguardavano un termine che, in qualche modo, gli assomigliasse. Il numero che segue dopo il quinto, per esempio. Oppure una specie di compasso. Magari un certo tipo di imposta. A Firenze il Sesto di Porta San Piero è il quartiere in cui nacque Dante Alighieri. Forse si trattava di un termine tipografico o architettonico.
Nessuna di queste indicazioni sembrava corrispondere. la parola, forse in disuso, apparteneva probabilmente all’antica lingua che la gente stava abbandonando nell’illusione di acquisire una improbabile, migliore condizione sociale. Forse qualcuno aveva il miraggio, così facendo, di uscire da una civiltà in cui i valori erano rappresentati dai salami appesi in cantina..
W chiese chiarimenti a una persona molto anziana che abitava presso l’essicatoio dei cereali. Il vocabolo alludeva a garbo, educazione, buon contegno, fu la risposta. Sia quel suono che il suo significato erano diventati moneta fuori corso ormai.
A W sembrava proprio che Richèta possedesse invece ancora quelle caratteristiche e che qualcuno fosse in grado di ottenerne un po’. C’era dunque una possibilità di acquistare garbo!
W andò subito nella rivendita e chiese un po’ di sèst. Egli usò anzi il diminutivo sestìn, che in quel momento gli sembrava più adatto, spiegando che egli voleva in tal modo preservare il sèst dall’estinzione. Pronunciava la parola con una t che non finiva mai. Richèta comprese la parola, ma rispose seriamente: “Non ho questo genere. Provi in città. Loro hanno altri tipi di relazioni, conoscono gente nuova, capiscono le novità. Sembrava che la donna sarebbe stata compiaciuta di avere il sèst tra la sua merce, ma non l’avrebbe mai rivelato. Tutto è talmente livellato intorno a noi, che qualcosa di elevato risulterebbe insolito e ridicolo.
W si chiese come ciò potesse corrispondere a verità. Comprare il sèst come il pesce, un vestito o un libro, tutti prodotti che non si trovano in paese? Qualcosa non quadrava ed egli entrò nel bar. Chiese una grappa. Il bicchierino fu riempito da una bottiglia di distilleria tolta dallo scaffale. Poco dopo giunse un altro avventore desideroso di una grappa, e fu servito con una bottiglia presa da sotto il bancone.
Si vendeva grappa sottobanco, dunque. Ma solo alle persone che si conoscevano bene e forse si trattava di grappa distillata clandestinamente, con quel non so che di antico e confidenziale che ricorda come tutto disturbi al mondo, meno gli alberi.
E se anche il sèst fosse venduto sottobanco e confidenzialmente alle sole persone in grado di provare sintonia con certe dimensioni dello spirito? Questo pensiero occupò a lungo la mente di W. Poi la quotidianità attenuò la riflessione e anche il sèst rientrò tra le stravaganze di una realtà non più attuale. E’ inutile pensare a ciò che non si può ottenere.

(Il Dialogo, Oderzo, maggio 2007)

LO SPAVENTAPASSERI

C'era una volta un giovanotto che cercava consolazione per le afflizioni d'amore che lo rattristavano. La sua amica, donna dai femori non lunghi, gli dava spesso motivo per qualche mestizia. La nonna della fanciulla era al corrente di tutto e rideva sotto i baffi.



Era il tempo dei bachi da seta e della nidificazione. Il luogo preferito per tollerare i crucci era il portico tra la fontana rotonda e la stalla dei ruminanti.- Le travi del porticato erano incrostate di nidi di rondine. C'era un gran viavai delle madri per nutrire i rondinini dal becco sempre aperto e implorante. In uno dei ricorrenti motivi di delusione il giovane stava appunto seduto in quel luogo, quando giunse uno sconosciuto con la faccia da leprotto.
A guardar bene si poteva constatare che, quando la rondine ripartiva dopo aver rimboccato il pulcino, un passero si precipitava furtivo sull'orlo del nido e prelevava l'insettino non ancora inghiottito dal rondinino.

"Questa sì che è bella!", disse il giovane sorpreso.
"Anche i passeri sono parassiti", rispose lo sconosciuto.
"Ho sempre saputo che i passeri si nutrono di granaglie".


"E' vero. I passerini appena nati necessitano tuttavia di proteine. D'altronde non potrebbero mangiare già dei grani. Un moscerino sarebbe più tenero e appetitoso. Per questo mamma passera deruba i nidi di rondine".

Il giovane era sorpreso delle cognizioni ornitologiche del suo interlocutore. Questi chiarì di essere un rappresentante di spaventapasseri in cerca di clientela, per l'appunto. Il comportamento degli uccelli gli era dunque noto per professione.

"Come vanno gli affari?"


"Male. Anche i frati del convento non proteggono più il loro orto. Con loro è venuta a mancare una parte della clientela".



Già, il convento! Si diceva che, quando un monaco moriva, si recuperassero perfino i bottoni del suo saio. Ora i novizi erano rari e la scorta di bottoni era grande. Nessuna meraviglia che non si facessero spese per gli spaventapasseri.



Nell'ultimo mese era stato venduto uno solo di quegli spauracchi. Molto poco per vivere con quel commercio. Era andata così. Ai margini del paese c' era la "casa delle sette sorelle". I ragazzi frequentavano quella zona in cerca di fragoline, lamponi e mirtilli. Essi credevano che questi frutti fossero la merenda delle fate e degli gnomi.



L'abitazione era chiamata così perché vi abitavano sette sorelle rigorosamente nubili. In un tardo pomeriggio era arrivata una cicogna bianca e nera con un fagottino appeso al becco lungo e rosso. L'uccello chiese:"Scusino lorsignore! Una di loro aspetta forse un bambino?"- Le sorelle si scrutarono imbarazzate e stupite a tale domanda. Poi una si fece avanti timidamente.- "Ecco, allora questo fagottino è per lei", disse la cicogna e volò via.
La mattina seguente la sorella maggiore, responsabile della virtù della casa, cercò uno spaventacicogne in un negozio dove si vendeva di tutto.



"Mai sentito nominare un articolo del genere", rispose il commesso, "ci sarebbero però gli spaventapasseri a buon prezzo perché sono fondi di magazzino. Ho motivo di ritenere che vadano bene anche contro le cicogne, ma non lo garantirei".


E L O G I O D E L L A S T U P I D I T À

Dallo scuola-bus giallo erano scesi due ragazzi del paese e un adulto con il cane. Non si sapeva chi fosse il forestiero.
L’uomo si avviò verso una casa vicina alla falegnameria, estrasse una chiave ed entrò. Quella dimora era nota come la casa dell’Inzaccheratore.
In paese tutti si chiedevano chi fosse lo sconosciuto. Gli anziani sostenevano che egli avesse trascorso la gioventù proprio in paese, ma poi sarebbe emigrato.
Qualcuno sosteneva che il personaggio avesse lavorato in principio presso una ditta di spedizioni. Qui sarebbe avvenuto un fatto particolare. In un giorno climaticamente accettabile l’addetto all’invio dei piccoli pacchi sarebbe stato convinto da un collega buontempone che fosse imminente una nevicata e che era quindi consigliabile approntare la slitta piuttosto che il solito carrello per la consegna dei plichi alla Posta. Per evitare il possibile contagio di stupidità il nostro personaggio avrebbe cambiato subito datore di lavoro.
Seguirono altri impieghi pubblici anche ben retribuiti. L’attività principale era costituita stavolta da interminabili riunioni di lavoro. Tale abitudine aveva lo scopo di evitare che la responsabilità per le frequenti decisioni rovinose o inutili fosse attribuita a qualcuno.- Le determinazioni delle riunioni di lavoro, spesso contrassegnate dal fatto che si parlava di lavoro ma non si lavorava mai, venivano infatti assunte collegialmente. Un marchingegno per nascondere la realtà: taluni responsabili non sapevano proprio quello che volevano, ma lo volevano subito. Sia detto per inciso, ma anche i Proci a Itaca agivano collegialmente. Nessuno di loro era individualmente colpevole. Secondo la Giurisprudenza essi non avrebbero nemmeno commesso gravi reati. Ulisse, invece, sarebbe stato accusato di strage premeditata.- Un continua delusione insomma.
Quanto costa una delusione? Non poco in termini di energie, tempi di percezione ed elaborazione, sfiducia generale o frazionata, eventuali ripercussioni economiche. Si può dire che il disagio di un disinganno perdura poi nel tempo e può influire sul futuro con incerte dimensioni. Esso può anche indurre a fidarsi più dei propri disgusti che dei propri gusti, anche se gli individui si comportano diversamente gli uni dagli altri.

Il maestro del paese aveva altre informazioni. L’uomo avrebbe fatto una brillante carriera come ricercatore. Egli sarebbe stato perfino sul punto di scoprire il rimedio contro la stupidità. Quando la notizia trapelò, al grande laboratorio in cui lo studioso lavorava furono sospesi i contributi statali per la ricerca. Il disoccupato avrebbe allora comperato la casa dell’Inzaccheratore.

Nessuno sapeva perché mai quel luogo si chiamasse così. Qualcuno riteneva che quando il vecchio Impero fu sostituito dal nuovo Regno, il regime avesse inviato in paese un incaricato per decaffeinare l’antico linguaggio. L’Inzaccheratore, appunto. Col tempo si sarebbe in tal modo conseguita una parlata che non assomigliava né alla lingua dominante, né a quella dei vecchi: una specie di ninna-nanna suonata con un trombone, ecco.

Il cane del forestiero era l’unico a mantenere i rapporti tra la casa dell’Inzaccheratore e la falegnameria. L’artigiano costruiva casse da morto. Gli affari erano tuttavia miseri a causa della produzione in serie ormai imperante. L’attività era stata dunque convertita e vi si facevano ormai casse da morto per cani. Il settore non era ancora inflazionato e il mercato tirava. In fin dei conti anche l’amore per gli animali è un buon incentivo per il commercio. Il cane del nuovo arrivato faceva dunque da modello dilettante per il collaudo delle piccole bare.

Tutto bene dunque. Ma come poteva vivere un uomo solo, anziano e senza mezzi? La curiosità aumentò quando si seppe che egli aveva comperato in contanti anche la tomba del Tessitore. Non si trattava di una tomba vera e propria in cimitero, ma di una semplice fossa. Si dovette procedere a varie consultazioni per identificarne il perimetro esatto, poiché non c’erano indizi visibili.
“Dovrebbe essere accanto alla fossa del Fabbro”, ricordavano alcuni.
“No, la tomba del Tessitore era più in là, accanto a quella del Postino”, sostenevano altri.

Da dove proveniva il denaro tuttavia? Qualcuno sospettava dei risparmi. La magliaia era più informata. Da un po’ di tempo molti giungevano in paese e chiedevano quale fosse la casa dell’Inzaccheratore e vi si recavano, diceva. Il nuovo arrivato doveva avere dei poteri speciali e più precisamente in campo sentimentale, si bisbigliava. Con una certa somma si poteva incontrare la ragazza o il partner dei propri sogni. Il triplo per sposarlo. La metà per una cena con bacio stradale. Un terzo solo per sognarlo. Con la quantità si arrivava a una bella somma giornaliera, esentasse naturalmente. Alla fine dei conti si sarebbe veramente rivelato un buon affare non avere scoperto e commercializzato la pillola contro la stupidità.


L A N A Z I O N A L I T Á

Un esame del DNA fornirebbe informazioni che l’interessato non si sognerebbe nemmeno. Diventerebbero note caratteristiche insospettate. Precedenti convinzioni o supposizioni troverebbero autorevoli smentite.
Ciò che certamente non comparirebbe sarebbe la nazionalità.
Si tratta forse di un carattere accessorio di nessuna rilevanza per un’indagine, che si ritiene tra le più progredite e affidabili?- Può essere una variante sfuggevole al momento della prova e quindi per nulla determinante o significante nelle dimensioni umane?- La nazionalità è forse suscitata da circostanze socio-storiche, vale a dire da un senso di appartenenza artificialmente indotto, corrispondente ad uno stato d’animo provvisorio allargatosi per osmosi, oppure imposto a un determinato tessuto popolare con tendenza alla suggestionabilità e alla subalternità?
Guardandosi un po’ intorno si potrebbe argomentare parecchio sulla infondatezza e ingiustificabilità di certe asserite nazionalità, tanto ostentate quanto inconsistenti oppure usate come fornitrici di briglie per il cavallo di Troia.- Si nota anche il fenomeno opposto. In Regioni che avrebbero motivo di professare la loro vera nazionalità per ragioni storico-culturali, l’orgoglio nazionale risulta alquanto sopito per lasciare spazio alla componente locale. Quei cittadini sono quindi consci della vacuità nazionale, ma lieti che altrove la presunzione altrui arrechi loro dei vantaggi.- Il tutto è sorretto da un’equivoca e indefinita idea di patria confezionata per le intelligenze più suggestionabili. Suvvia, non facciamo i finti tonti! Nel Libro sta scritto che Dio creò l’uomo dalla terra (Genesi, 2:7). Esatto. Ma solo da quella terra dove l’uomo nacque e non da un’altra, non è vero?

Il quadro mondiale offre numerosi esempi di infondatezza circa le basi della nazionalità.
Nei territori già egemonizzati dall’Impero Britannico non pochi popoli naturalmente agli antipodi della cultura europea, giuravano in tutta coscienza sul loro sentimento nazionale inglese.- Contemporaneamente, spesso per motivi religiosi e di mentalità universalistica, si constatano neutralità e svincoli nell’appartenenza al principio di nazionalità.
In Africa Orientale subentrò nelle popolazioni di colore la convinzione di appartenere alle nazioni francese e italiana dopo la conquista coloniale. Lo stesso si può dire per regioni occupate dall’Olanda, dal Belgio, dal Portogallo, che erano completamente estranee all’ambiente europeo ma dominate da Paesi più o meno assistiti da Dio nelle loro vittoriose imprese, come è stato ripetutamente dichiarato. I dubbi sono legittimi in ogni senso.

Non esiste soltanto il colonialismo politico. C’è anche il colonialismo ideologico e i suoi condizionamenti nel caso di specie non sono diversi.
Gli aderenti a partiti, sostenuti e controllati da taluni regimi, si sentono visceralmente parte di quelle realtà statali nonostante le evidenti differenze e le distanze. Nel XX ciò accadde ripetute volte.- I cittadini di stati divisi da programmi politico-militari assunsero con relativa facilità la nazionalità dei due artificiali tronconi statali venutisi a formare.- Cessata poi l’influenza del programma divisorio, il territorio si riunificò e le popolazioni riassunsero la nazionalità in precedenza dimessa per aderire alle imposte influenze. Un esempio è fornito dalla recente storia tedesca. Dopo la seconda guerra mondiale la Germania venne divisa in Repubblica Federale e in Repubblica Democratica. Furono scritte innumerevoli pagine per motivare l’esistenza delle due contrapposte nazionalità. Cambiata la scena politica, tutto è tornato come prima. L’unica evidenza rimasta è quella dell’elasticità del concetto di nazionalità.
Sembra quindi razionale che l’esame del DNA non evidenzi alcuna nazionalità.


TÈNP DE ROGATHIÒN

‘Na vòlta no ghe jèra gnànca le previxiòn del tènp. Se se fidèa sòl che de-a cèxa. Piovàn, canpàne, ulìvo bruxà sòra le brònzhe, orazhiòn.
Pàr i cànp cuèrti da bilusère de ùa, ma ànca pàr la biàva e pàr el formènt, el tenporàl el fèa paùra parchè da lù dipendèa el pàn pàr la zhènt.

Da cuànde che el mòndo l’è mòndo se à sènpre cjamà el sòl e la piòva. A Sàn Màrco scuminzhièa la rogathiòn. De matìna bonòra el piovàn el cantèa la Bòna Nòva de Lùca (11,12):”Che pàre è-lo po’ cuèl che còl so fiòl el ghe domàndega ‘na pagnòca, lù el ghe dà ‘na pièra? O s’el ghe domanda un vòvo,lù el ghe tàca in màn un sgorbiòn ?”- Cjàro, no?- Se à da domandàr e po’ el Signòr el ne contentarà. Se po’ cualchedùn el se lagna parchè lù el ‘vèa domandà, ma nòl ‘vèa ricevèst gnènt, volèa dìr che no se ‘vèa domandà in tèa manièra jùsta che ghe piasèa al Signor. Ògni tànt el sucedèa che la tenpèsta la pextèa sù ‘na bilusèra in te un cànp e la sparagnèa cuèa de ‘n’àltro. Figurarse! Ch’èi là no i ‘ndèa gnànca in cèxa…e i bestemèa ànca!

Co se vedèa el “scùro” rivàr da-e bànde de Conejàn o da Sazhìl no jèra da speràr gnènt de bòn. Le nùvoe che rivèa da Lutràn o da Camin invèzhe no le dèa preocupazhiòn. Po’, còl vènt el fèa giràr la bandierèta de làta pàr sòra del canpanìl, rivèa nùvoe piène de tenpèsta che le fèa desperàr. El piovàn el cjamèa un toxatiòl còl secèl de àcua sànta, el se vestìa còl piviàl viòla e el ‘ndèa incòntro al tenporàl. El bagnèa a drèta e a zhànca co àcua sànta e cò-e tòneghe sgorlàde dàl vènt sòt la piòva che caschèa. Intànt in te-a canònica la perpètua la bruxèa foje de ulìvo in tèl larìn.

Ghe ‘jèra ‘na rogathiòn pàr la piòva, pluviam congruentem. ‘Na vòlta no ghe jèra le asicurazhiòn pàr ‘sta sòrt de disgràzhie e gnànca ‘na rède pàr salvàr le vìde de frànbol. Sòl che el piovàn e el sonàr de tùte le canpàne!- Ánca le iluxiòn le jutèa un scjantìn.
A far bèn i cònt se pòl dìr che trà el rìscjo de ‘na vòlta e i schèi che se tìra adès co fadìga da-e asicurazhiòn, la diferènzha la sìe bàstanzha pòca. E pò no se sènte gnànca pì sonàr le canpàne.


R I U N I O N I

L’Istituto dipendeva dal Ministero della Civiltà Popolare e aveva non pochi impiegati. La Direzione era ovviamente costituita da un Direttore, chiamato il “cartaio”, e da un numero variabile e imprecisato di componenti, chiamati anche membri. Alcuni di questi non si erano mai visti: veniva loro soltanto accreditato lo stipendio.
Per molto tempo l’Istituto non aveva svolto alcun compito, ma recentemente gli era stato affidato un incarico. Si trattava di rimuovere dal vocabolario alcune parole non più in uso. Per tale incombenza era giunto dal Ministero un nuovo componente, o membro, quale rinforzo per la nuova fatica.

“Me ne intendo poco di questioni linguistiche”, premise subito il nuovo venuto durante le presentazioni, “ero dipendente del Ministero, ma in realtà facevo il restauratore di mobili nel mio negozio”.- “Il restauratore?”, chiese un collega, “Allora potresti acconciare qualche faccia anche da noi”.- L’accenno non aveva indicazioni particolari, ma una collega si era sentita offesa.

Le riunioni di lavoro incominciavano sempre a mezzogiorno nell’ufficio del “cartaio”. Su un apposito sostegno faceva qui bella mostra di sé un’anfora, ovviamente romana, con tanto di firma dell’artista vasaio e data di produzione: 48 a.C.- L’acquirente del raro reperto avrebbe avuto bisogno, secondo alcuni contribuenti, di un trapianto di neuroni.
Le decisioni erano prese collegialmente affinché in caso di conclusioni inutili, impraticabili o dannose non si potesse imputarne la colpa a nessuno. Importante era che venissero istruiti molti fascicoli . Proprio così. Il verbo “istruire” non era mai stato usato più a sproposito.- “Carta! Dovete produrre molte scartoffie!”, ripeteva il Direttore. Per questo egli era soprannominato il “cartaio”. Finalmente lo si era capito.

L’incarico ministeriale riguardava l’eventuale eliminazione dal dizionario di dodici parole e precisamente “asciugacapelli”, “missiva”, “celeuste”, “soprassessorio”, “ardiglione”, “dolco”, “flabello”, “ purillo”, “dropace”, “mucido”, “tiniere” e “verrettone”.
Il Segretario, chiamato per l’occasione l’ “espuntore”, fece una breve introduzione che avrebbe perfino superato qualche esame di laurea triennale. Egli ripeté nella premessa le avvertenze del poeta latino Orazio: “Non ci si può fidare della morte di una parola perché ci sono sempre delle pieghe sociali in cui sopravvive e perché nuovi fenomeni possono farla rinascere”.
Per il resto le parole significavano nell’ordine:

1- “phon”, ormai nella lingua corrente,
2- “E-mail” nella fraseologia comune,
3- “battitore che dava il ritmo del tamburo agli schiavi rematori nelle galee”, da tempo sostituito ovunque dai rilevatori dei tempi di produzione,
4- “provvedimento che rinvia una decisione”, spesso sostituito da “differimento”,
5- “puntale della fibbia”, soppiantato dalla scoperta della plastica,
6- “colore della nostalgia”, difficilmente distinguibile,
7- “ventaglio di piume, comodamente surrogato dal ventilatore,
8- “pezzo di stoffa sulla sommità del berretto basco”, eclissato dalle nuove mode,
9- “intruglio depilatorio”, definitivamente soppiantato dalle universali “cerette”,
10- “svogliato”, messo fuori gioco dal più realistico “fiacco”,
11- “dispositivo per balestra”, di improbabile utilità in tempi moderni,
12- “dardo”, di difficile reperimento e comunque inutile con il progresso venatorio e bellico.

Le riunioni di lavoro duravano da mezzogiorno fino a pomeriggio inoltrato. L’ ”espuntore” si occupava dell’incombente istruttorio, o verbale, il quale terminava immancabilmente con un rinvio, pardon, con un soprassessorio.
Un giorno giunse dal Ministero un sollecito. Strano. Non era mai accaduto. Il “cartaio” si preoccupò tuttavia dopo aver provvisoriamente risposto che c’è un “iter di Direzione in corso”.

“Ogni riunione di lavoro comporta un costo corrispondente a una ventina di retribuzioni medie, oneri accessori inclusi”, aveva osservato il “cartaio”. Bisognava quindi muoversi.
“L’importo è certamente esatto. Ma anche quella ventina di dipendenti era in definitiva pagata per non fare nulla”, rispose una componente della riunione nota per la sua scarsa avvenenza e soprannominata “la più racchia del reame”.

Seguì un lungo e articolato dibattito. In realtà la scarsa produttività non era riconducibile a responsabilità personali. Era il sistema che impediva risultati tangibili e non si poteva fare nulla.
La riunione di lavoro raggiunse tuttavia una conclusione da includere nella risposta al sollecito. Secondo la moderna Giurisprudenza anche i Proci non avrebbero compiuto gravi reati e non sarebbero imputabili. Ulisse sì, invece.- Si sapesse quindi regolare il Dicastero.

(Il Dialogo, Oderzo , settembre 2007)


E S A M I




C’era una volta la mezzadria. Il sistema basava su due partners: i proprietari dei campi e i coltivatori. I raccolti venivano divisi a metà.
La geografia umana rispecchiava la mezzadria. I proprietari erano pochi; i contadini erano numerosi. Le possibilità di evadere da queste due impermeabili condizioni erano scarse. Anche la presenza di borghi maggiori con ufficio postale, municipio e farmacia oppure di agglomerati semicittadini con ospedale, scuole, cinematografo, mercato e banca, lasciava a desiderare come una dentatura bisognosa dell’ortodonzia. Nelle frazioni agricole gli orologi dei campanili segnavano insomma di notte le ore solo per se stessi.
Un giovane che avesse studiato non avrebbe trovato facilmente uno sbocco, perché una miope politica e una ineffabile rassegnazione non avrebbero consentito una presenza locale nella classe dirigente. Uno di questi giovani era tuttavia riuscito ad arruolarsi nella Gendarmeria, professione che garantiva una retribuzione in attesa di qualcosa di meglio e precisamente la prosecuzione degli studi in prospettiva di un impiego nella scuola.
Dopo qualche tempo la necessità di lasciare la Gendarmeria divenne latente, ma alcune circostanze agirono da catalizzatore. Un giorno era stata distribuita una disposizione di servizio secondo la quale un tutore dell’ordine che avesse visto cadere una bomba atomica, avrebbe dovuto compilare un certo modulo ed inviarne una copia alla più vicina Direzione. Una settimana dopo era giunta una direttiva per sanzionare quanti avessero prelevato un secchio d’acqua in riva al mare per lavare l’automobile. La situazione precipitò a causa di una sentenza penale riguardante un mendicante. Costui era senza fissa dimora e stava solitamente sotto una pensilina di un capolinea poco frequentato dagli autobus della periferia. L’uomo viveva di espedienti e per un piccolo furto era stato condannato a qualche mese di arresti domiciliari. La Gendarmeria avrebbe dovuto controllare che il pregiudicato non si allontanasse dalla pensilina-domicilio, eventualità che avrebbe significato il reato di evasione.

Il giovane lasciò dunque l’uniforme e partecipò a un concorso (o meglio a un “gongorzo”, come si diceva nella città in cui l’esame si sarebbe svolto) per l’unico posto disponibile presso un Istituto di una località montana. Il risultato fu lusinghiero perché i concorrenti erano due ed egli era risultato secondo. Il primo in graduatoria ottenne la cattedra ma poco prima della fine dell’anno scolastico chiese l’aspettativa. Questa facilitazione prevedeva una lunga assenza dal servizio, la conservazione del posto con retribuzione ridotta a un terzo e l’attribuzione della supplenza al secondo in graduatoria.

Gli esami avevano luogo nella biblioteca, cioè nella parte laterale della grande galleria con enormi finestre per la generosa illuminazione gradita alla bignonia dai fiori ranciati, al dicasio dai germogli laterali e alle radici avventizie della gialappa perfino. La commissione d’esame era ripartita intorno a una dozzina di tavolini, ciascuno dei quali corrispondeva a una materia.. I risultati sarebbe stati infine raccolti e armonizzati da un Consiglio dei docenti con la supervisione consultiva del Preside e definitiva del Commissario governativo, un esaltato del Risorgimento giunto con tanto di famiglia al seguito per la gioia di Sant’Erario.
La preparazione degli studenti appariva alquanto superficiale al supplente, che tuttavia non disse nulla per non essere considerato uno cui duole il dente del pregiudizio. In fin dei conti i giovani conoscono molte coordinate creative, virtuosismo abrasivo e nitore argomentativo.
È noto che le domande d’esame sono piuttosto ripetitive. Le risposte sono invece differenti: qualcuna è esatta, altre meno. Ci sarebbero poi casi particolari. Come sarebbe a dire, se le alternative possono essere soltanto due?
L’insegnante supplente dovette accorgersi che non è sempre così. A un candidato era stato chiesto di citare un poco di bibliografia su Giacomo Leopardi. La risposta fu che questa non esisteva affatto, come risultava dal libro di testo prontamente esibito quale prova. In effetti si poteva leggere che la bibliografia sul poeta era “sterminata” e dunque…- Un altro esaminando espose con dovizia di particolari l’incontro di Dante con Beatrice, che sarebbe avvenuto nel Purgatorio. La donna idealizzata dal Poeta si sarebbe presentata vestita di verde, di bianco, di rosso: un’evidente anticipazione destinata a realizzarsi poi nel Rinascimento. Tutto risultava annotato nel corrispondente verbale dell’esame, che esprimeva quindi una valutazione negativa.

Nel corso della votazione definitiva il Preside propose la cancellazione delle due insufficienze. Nel primo caso il termine “sterminato” sarebbe stato semplicemente frainteso. Nel secondo caso, in effetti, sia il Purgatorio che il Rinascimento non corrispondevano alle realtà spazio-temporali della Commedia, ma l’allusione tricolore era indice di un orientamento degno di incoraggiamento. Gli altri componenti della Commissione annuivano col capo. Il Commissario sostenne che la sua proposta era di penetrante rilevanza socio-culturale e contribuiva a elevare l’istruzzione, che in nessun caso doveva essere intesa come imitazione dello struzzo.

Le vacanze erano incominciate. Come d’uso, gli insegnanti andarono a salutare il Preside, ma il bidello informò che il signor Direttore era fuori posto.

LA POIANA E LA LEPRE

Dove il parco degrada verso il Rasego accadde un episodio che non avrebbe potuto verificarsi altrove e di cui non sono noti precedenti. Due piccioni si erano scontrati in volo: uno era precipitato esanime sulla riva del fiume. È indiscutibile che i piccioni siano ingenui, ma fino a questo punto sembrava sinceramente troppo!

La scena era stata osservata con sorpresa da una poiana e da una lepre albina. Entrambe erano stanziali. La poiana era una sorta di falchetto con becco robustissimo senza dente e fauci molto fesse, tarso più lungo del dito medio e grande cacciatrice di topi.- La lepre aveva fitto pelame, orecchi lunghi, zampe posteriori più lunghe che la fanno atta alla corsa, al salto, a movimenti agilissimi in ogni verso. I peli erano di colore albiccio e dilavato a causa di un carattere genetico recessivo.

Dopo avere assistito alla collisione diventava evidente che si trattava di un sintomo di stupidità, dal quale nemmeno gli animali erano esenti e che avrebbe potuto diventare contagioso. L’idea di abbandonare la zona endemica e ritornare nei lontani luoghi d’origine era comune ai due animali. La mancanza di topi dovuta alla scomparsa della coltivazione sia del grano nella ricca veste di spighe d’oro, sia delle pannocchie dai grandi denti, era diventato un motivo impellente per la poiana, la quale sospettava inoltre che in qualche pertugio regnasse perfino la rogna. La lepre, invece, non aveva propriamente ragioni alimentari. Essa voleva piuttosto scoprire perché i suoi genitori non l’avessero voluta e fosse stata avviata su un carro alla volta del mercato del mercoledì, dal quale poi si era miracolosamente salvata.

“I nostri paesi nativi sono molto lontani. Con le ali servirebbe una settimana per raggiungerli. Tu ci impiegheresti circa tre mesi. La ricerca dell’identità è dolorosa. Assomiglia a certe radici quadrate: alcune sono immaginarie”.

“Potresti portarmi in volo con te”.

“Un così lungo periodo senza mangiare mi impedirebbe di arrivare alla meta. Anche per te sarebbe difficile sfuggire per mesi ai cacciatori e ai loro cani”.

“Facciamo così. Tu mi prenderai con te e quando avrai fame potrai cibarti della mia carne. È l’unica possibilità per superare il lungo viaggio. Qui non possiamo più vivere”.

Sembrava un buon accordo, anche se c’erano rischi ed errori di valutazione.

La poiana e la lepre salutarono i salici dai fiori unisessuali, i pioppi dal bel portamento, i tigli con le foglie rugose a forma di cuore, il rameggio sempre verde del bosso, il trifoglio ramoso e le altre tenere erbe di cui si rivestono i prati di Rigole.- Poi partirono verso l’orizzonte lontano come ogni orizzonte.
Il primo giorno trascorse tranquillo. Verso sera ci fu però il primo sacrificio: il codino della lepre. Ma sì, a che cosa serve in fin dei conti un’appendice, un residuo del genere?
Il viaggio continuò e anche le lunghe orecchie sparirono una dopo l’altra.- Poi fu la volta delle zampette anteriori. Se si prescinde dal dolore, ne rimanevano comunque altre due di zampe, diamine!- Certo, anche queste non durarono a lungo ma, tutto sommato, a che servivano le zampe se c’erano le ali amiche?
La situazione si aggravò quando si dovettero sacrificare altre residue parti del corpo. Mancava ormai poco alla fine del viaggio e fu indispensabile intaccare gli organi interni. Stomaco, polmoni, fegato (non la cistifellea) furono dolorosamente divorati.

Erano già in vista le nobili stelle alpine e le genziane dai fiori vistosi. Anche il cuore fu allora consumato. D’altronde anche se avesse continuato a battere, non sarebbe stato possibile stargli dietro. La lepre era morta.
La poiana depose sulla porta dell’obitorio il piccolo scheletro che volle essere così deciso al ritorno e puntuale a dissolversi. Poi un suono scaturì dal becco dell’uccello:”Uzemi, tieni”.
L’accordo era stato rispettato senza tutela contro la morte.




L E M A S A N È T E




La masanèta è la femmina del granchio d’acqua dolce. È dotata di un robusto carapace con un diametro di circa 4 centimetri e di 10 arti. Quattro paia di zampette servono per il movimento e un paio costituisce le chele necessarie per nutrirsi e per difendersi.- L’alimentazione è varia: alghe, derivati vegetali, piccoli invertebrati, girini.- Durante l’inverno ha vita diurna mentre durante i periodi caldi si attiva soltanto di notte. In agosto e settembre avviene l’incubazione delle uova, il cosiddetto corâl.

Il segno zodiacale del Cancro, governato dalla Luna, è rappresentato da un granchio considerato simbolo di tenacia. In realtà la vera caratteristica astrale è la sensibilità con tendenza alla timidezza. Purtroppo il Cancro conserva anche la sua triste fama di malattia inguaribile.

Nei tempi passati le masanète erano molto numerose nei corsi d’acqua. La loro cattura aveva luogo dal 10 di ottobre al di 5 novembre, periodo della loro massima commestibilità. La preparazione avveniva nel modo seguente:

SE FÁ CUSSÌ

- Se bùta ‘na quantità jùsta de masanète vìve* in àcua de bòjo,
- Cavàrghe le zhàte e tùt cuèl che intrìga,
- Destacàr el petorâl da-a scùssa (in te-a scùssa l’è el corâl de tìnta aranciòn),
- Mèter el tùt (scùsse, petorâl e corâl) in te ‘na terìna e conzhàr co òjo, sâl e ànca un scjantìn de àjo e de parsemòl co ‘na presa de pèver,
- Del petorâl se màgna tùt cuànt, ànca se el scrìzha un fià sòt i dènt; de-a scùssa sòl che el corâl cavà fòra con un piròn,
- Le masanète le saràe mèjo frède: le è pì bòne el dì dòpo parchè intànt le cjàpa pì savòr.

(* cuèi che i à el cuòr tènero che i se contènte de-a pìzha!)

Nel fiume di famiglia, che scorreva tra gli alti argini erbosi e del quale alcuni ragazzi erano stati talvolta per gioco affluenti minori, aveva la scuola delle masanète oltre a quella dei pesci.
Un giorno il maestro aveva raccontato una storia tratta dal mito.- Esone aveva di buon grado accettato di farsi bollire nella caldaia di Medea per ritornare giovane. Nonostante l’avvertenza dell’insegnante a non imitare l’esempio, egli fu rimosso dalla scuola per aver istigato i piccoli crostacei ad evitare, se possibile, il proprio destino. Tra le masanète c’era infatti un certo orgoglio di poter servire da cibo autunnale e un Comitato, investito del problema, aveva decretato che lezioni del genere non potevano essere tollerate. Capita spesso che le proprie ragioni siano considerate come la Ragione.
I giovani frequentatori delle due scuole, quella dei pesci e quella delle masanète, si parlavano tuttavia e qualcosa trapelava. Gli avannotti, che poi erano i giovani pesci fluviali, spiegavano per esempio ai piccoli crostacei che era proprio da stupidi sentirsi fieri di essere gettati vivi nell’acqua bollente, mentre loro avevano il privilegio di essere cotti solo dopo morti.

“Che cosa?- Stupide noi?- Non sia mai!”, replicarono le masanète, “A noi piace essere bollite vive. È bene che la nostra gioventù non sia traviata da altri modi di pensare. Potrebbe finire la consuetudine di essere bollite vive, perbacco”.

I giovani granchi non rividero più il loro maestro, ma quell’acqua “de bòjo” continuava indisciplinatamente a scottare nella loro mente.
Il numero delle masanète si ridusse drasticamente col tempo. Non bisogna infatti dimenticare che le bestiole vengono pescate anche in fase di muta nei mesi di aprile e di maggio, quando si chiamano ancora “molèche”. Stavolta la loro fine non è nell’acqua ma, leggermente infarinate, nell’olio bollente. La circostanza, nonostante il parere contrario del Comitato, non sembrava poi una consolazione!
Le poche superstiti decisero, ignorando immancabili pareri in contrario, di non riprodursi più e di estinguersi lasciando il posto ad altre creature in grado di farsi mangiare senza le tremende sofferenze loro riservate dall’ingordigia dei ghiottoni.

Per questo motivo le masanète scomparvero dai corsi d’acqua che sono stati creati perché il paradiso scenda sulla terra, vi rimanga e consideri i fiumi un altro paradiso. Esse continuano a esistere nelle valli da pesca marine, ma il loro costo diventa talmente proibitivo che presto si estingueranno sia la loro memoria, sia le atroci procedure di preparazione. Il mercato è un grande persuasore in fin dei conti e arriva anche dove altre istituzioni non giungono.

(Il Dialogo, Oderzo - Febbraio 2008)


L A L U P A

Rapporto dai confini

Migliaia di rane avevano gracidato per tutta la notte nel fiume di famiglia. Un benvenuto così, dopo lunga assenza, non era immaginabile. Ancora meno figurabile nella mente sarebbe stata la colazione al bar con un’ònbra di vino, benessere allo stato liquido. Eppure accadde, ma più per corrispondere all’invito di un amico che per convinzione.

“Dopo tanti anni di attesa, finalmente!- Non hai idea di quanta gioia si provi. Avevo quasi perduto la speranza di vivere un’occasione simile, invece che fortuna, che soddisfazione…!

“Certi momenti, quando li si è sognati a lungo, risultano ancora più felici. Sembra che il tempo non sia nemmeno passato”

“Ma questa è la novità più gratificante della mia vita”.

“Anche per me è un piacere rivederti così in forma”.

L’amico ebbe un attimo di esitazione, come se le mie parole lo avessero distratto o, peggio, afflitto.

“Ma cosa hai mai capito?- Il nostro incontro non c’entra. L’avvenimento importante è un altro. Ne parlano giornali e televisione”.

“Spiegami un poco. Da solo non ci arrivo. Se ben ricordi, io ero ritardato già ai tempi della scuola, nell’altro secolo”.

“Ormai è certo: a Roma è stato finalmente scoperto il Lupercale, la grotta presso le pendici meridionali del Palatino dove Romolo e Remo furono allattati dalla lupa”.

In effetti le ricerche avevano segnalato la presenza di un ambiente decorato a mosaico sepolto a molti metri di profondità. Non era tuttavia una novità, in quanto ne era stata fatta una prima descrizione nella prima metà del 1500. Una credibile attribuzione ad altro scopo era stata poi formulata alla fine del 1800. Inoltre le fonti antiche, specialmente Velleio Patercolo e Dionigi da Alicarnasso, smentirebbero le coordinate dell’attuale ritrovamento. Quest’ultimo sarebbe piuttosto riconducibile a un ninfeo, cioè a un ambiente termale di un’abitazione privata.
Durante il quotidiano rito mattiniero a base di vino avevo cercato di comunicare all’amico i miei dubbi. Non sarebbe la prima volta che la certezza archeologica -Prometeo senza fuoco- subisce ridimensionamenti. Anche il Quirinale, per esempio, era sempre stato creduto eretto sopra il tempio del dio Quirino al fine di amplificarne l’importanza. Ma ora si sa che quel luogo di culto si trovava altrove. Non è un’opinione personale, ma una certezza condivisa. Quando più persone sentono odore di bruciato, dipenderà certamente dalla nota legge dei nasi comunicanti, ma non sembri ingiustificato qualche dubbio.

Non sia mai!- Quella doveva essere la grotta di Romolo e Remo e basta. Non si dubita delle origini o, meglio, di certe origini. Prendiamo per esempio la nostra città. È consueto ometterne la genesi paleoveneta, ma non è consentito esitare su realtà successive, della cui autenticità la storia ha peraltro dimostrato l’inconsistenza. Certo, quando non si sa quasi niente, si può ipotizzare quasi tutto senza temere il ridicolo.
Il giorno successivo fu il mio turno. Mi affrettai a segnalare all’amico entusiasta una nuova scoperta: sarebbe stata localizzata anche la scuola elementare frequentata da Romolo e Remo, di sicuro amorevolmente accompagnati dalla mitica lupa, s’intende. La notizia contribuì ad aumentare l’entusiasmo, ma non a ridurre l’ingenuità o a indurre sospetti.
Ci si può chiedere come mai ciò sia possibile. La spiegazione sta nella cosiddetta convergenza del molteplice. Se la stessa “non verità” è ripetuta da più insegnanti in una scuola costruita ad hoc, diventa verità. Chi è esposto per anni a questo meccanismo difficilmente conserva la capacità di giudizio. Quella verità può svilupparsi anche in nazionalismo. Quest’ultimo è una forma di violenza, il pericolo più grave in questo momento perché non serve all’Europa e nemmeno all’umanità, come sostiene l’attrice turca Serra Yilmaz.



P A P E R E

Catalogo delle amicizie palmipedi






Nel nostro fiume di famiglia le papere erano presenti in gran numero. Si potrebbe affermare che la loro varietà non fosse minore di quella della Paperopoli classica creata da Carl Barks, ove il personaggio più rappresentativo è Donald Duck, meglio noto come Paperino.

Presso il ponte, e quindi non distante dalla scuola dei pesci, c’era la scuola delle anitre. Vi insegnavano due maestre. Una non sapeva decidersi tra un fidanzato prenotato da tempo, devoto ma troppo giovane, e un corteggiatore attraente e inaffidabile; l’altra era sensibile alle lusinghe di un papero intraprendente e peccator cortese, ma si fidava più del tipo medio, coerente anche se un poco nevrotico.

La scolaresca era eterogenea come ovunque. C’erano giovani pasticcioni, altri ragionevolmente seccatori, altri ancora pittoreschi per le lunghe piume. Non mancavano alcuni sbandatelli dimenticati dai genitori con il becco da vecchia luna calante.
L’insegnamento principale consisteva nell’evitare ogni entusiasmo, impazienza e felicità per l’approssimarsi di particolari ricorrenze festive. Come si sa, le anitre sono particolarmente ricercate per taluni banchetti. I risultati dovevano essere tuttavia deludenti, se si escogitarono programmi alternativi di più facile comprensione ancorché di minore utilità.
Molte paperine volevano innanzitutto sapere se potevano, o meno, baciare un rospo.- “Teoricamente sì”, rispondevano le maestre,”ma con il risultato che l’anfibio si possa trasformare in un principe. Il destino dei rospi è notoriamente quello di diventare principi, se proprio va male. Ma che farsene poi di un principe?”.- Seguirono poi indicazioni sulle proprietà terapeutiche dei baci quali simpatici e naturali veicoli di comunicazione. Il cervello libererebbe durante un bacio sostanze chiamate endorfine, le quali posseggono capacità analgesiche. La presunzione che queste sviluppino effetti antidepressivi non sarebbe quindi da escludersi e questa non sarebbe cosa da poco.
Nei corsi serali si affrontavano invece altri argomenti. Si era notato, per esempio, che le piantagioni di alberi, in preferenza pioppi, aumentavano lungo le rive del fiume. Le maestre spiegavano che il pioppo ha una crescita molto più rapida in confronto ad altri vegetali e concludevano:”Anche per gli alberi il tempo è denaro, infine!”- Un altro argomento non da poco era il nome del fiume. Oltre a quello consueto, che significa “vicino alla vittoria”, ne esisterebbe uno segreto. Chi lo avesse scoperto sarebbe stato in grado di evitare le sgradite inondazioni annuali. I fiumi, polmoni del pianeta, sono stati infatti creati soltanto affinché il paradiso scenda sulla terra, vi rimanga e consideri i fiumi un altro paradiso.

Un giorno le insegnanti si ammalarono e fu necessario chiedere una supplenza alla vicina colonia di oche ospiti di un pollaio. Giunse una maestra dei congiuntivi con la congiuntivite ansiosa di fare carriera e convinta, non si sa bene se a torto o a ragione, che politica potesse aiutarla o almeno offrirle maggiore visibilità. La giovane papera esaltò quindi ogni aspetto che potesse condurre a tangibili risvolti ideologici, validi s’intende più per la mentalità delle oche, che per quella delle anitre. Essa era semplicemente innamorata delle bandiere e si era fatta tingere il piumaggio con i loro colori.- Le bandiere le sembravano una rivelazione indiscutibile e pertanto indiscussa, come autorevolmente sostenuto da P.T. Wiseman.- Altre questioni, come quella del pericolo di estinzione delle rane, che da sempre dividevano l’ambiente fluviale con le anitre, non trovavano ospitalità nella scuola. Ancor meno interessava una notizia propagata dai corvi, secondo la quale esisterebbero studi per la scoperta di un vaccino contro la stupidità delle oche, peraltro congelati dalla immediata interruzione dei necessari finanziamenti.
Le maestre titolari guarirono e la supplente ritornò a fare la finta oca tra veri polli. La scuola ricominciò a funzionare e anche l’argomento delle rane fu affrontato e spiegato.- Tempo addietro era sorto un moderno allevamento di ranocchie un po’ più a monte del fiume. Ciò significava nutrimento a disposizione ogni giorno e l’opportunità aveva attirato tutti gli anfibi dei dintorni, ben lieti di non dover più penare per la cattura di qualche insetto di cui cibarsi o per trovare un partner per la riproduzione. Tutto ciò non doveva significare un diretto pericolo di estinzione per la cosiddetta rana rossa, ma il rischio di finire sul mercato e successivamente in padella era obiettivamente molto elevato.

Per il resto la vita delle anitre scorreva piuttosto tranquilla. Non mancavano gli anatrini lasciati in affido da un’anatrella svampita. Starnazzavano gli individui un po’ buoni e un po’ cattivi, i galanti e i conviventi, i prodighi e i risparmiatori. Pigolavano le papere che avrebbero potuto ben figurare quale pubblicità della misoginia. Un poco come in tutte le società, ecco.- I fiumi ne sono testimoni. Non nascondono nulla. Vengono da alte montagne. A volte cantano. A volte ridono, talvolta piangono con noi in silenzio. A volte sono dolci, a volte irati, a volte portano fiori. Talvolta anche un cadavere. I fiumi sono fiumi, che scorrano qui o nel mio paese, come scrisse lo scrittore iraniano Kader Abdollah.
(IL DIALOGO, mensile, Oderzo, mese di aprile 2008)


C O M A N D I !




Una nota giornalista era stata invitata a tenere una conferenza presso il Centro Culturale. Oggetto dell’incontro era la causa che determinò il crollo dell’Impero di Roma, senza peraltro spiegare se si trattasse della città dei Cesari oppure dei Vespasiani.
L’unica cosa da aggiungere a quanto già noto sembrava una frase tratta dal libro di Ben Pastor “Il portatore d’acqua”. L’opera conteneva infatti una spiegazione insolita:”Ci sono tanti occhi azzurri in giro”. Ecco, questa frase sembrava un chiarimento originale e fondato per la fine dell’Impero. Così fu infatti.

Dopo la relazione e le usuali congratulazioni ci si dimenticò di parlare del compenso e la giornalista poteva ritornare da dove era venuta oppure, già che si trovava, fare una breve visita al proprio paese natio nella stessa provincia. Prevalse la nostalgia e fu scelta la seconda possibilità.

C’era qualcosa d’insolito nei negozi. Sembrava che si parlasse un’altra lingua. Le vetrine, specchio impietoso sia per chi sta all’interno sia per quanti sostano all’esterno, rivelavano commesse dal tallone levriero e in parte non esenti da cellulite. Molte portavano una specie di sopravveste di lana ampia e magnifica, indicata per nascondere le abbondanze. I maschi indossavano invece la clamide, cioè un mantello affibbiato al collo o sull’omero destro. I pochi apprendisti vestivano l’alicula, una tunica corta avviluppante le spalle. Tutti indumenti che rievocavano l’antichità romana che, nemmeno a fare a posta, era stata l’oggetto della conferenza. Stonavano in generale le moderne calzature al posto delle più adeguate “caligae”: come jeans sotto un abito da sposa, ecco.

Da sempre veniva inculcata nella gente della città l’idea di un’ascendenza capitolina tanto improbabile quanto ridicola. Tutte le motivazioni storiche sconsigliavano l’emulazione (che non è la semplice imitazione del mulo), ma l’insistenza gradita al potere trovò un sicuro pretesto che dimostrava un’ignara ingenuità dei percorsi della storia: la pubblicità

La giornalista entrò nel negozio che esibiva ancora la vecchia insegna “Generi Coloniali”. La bottega si trovava vicino al recinto degli edredoni, o “anatre dal piumino”, appartenenti al più noto genere delle “Oche del Campidoglio”.

“Comandi !”, disse la proprietaria paludata con una toga matronale.
“Non comando proprio nulla. Ci mancherebbe altro, specialmente in un contesto che richiama alla mente come perfino l’Onnipotente abbia creato la vittoria quale schiava di Roma.- Desidererei, piuttosto, un piccolo astuccio per riporre un minuscolo cacciavite necessario a stringere la montatura dei miei occhiali”.
“Mi faccia penzare ‘nu poco. Onde stà? Ecco, signò, questo è un agariolo”, rispose la negoziante con una improbabile pronuncia romanesca che sarebbe certamente dispiaciuta al poeta Trilussa, ma che alludeva a una scarsa propensione per il lavoro.
Già, l’agariòl, involucro ligneo per aghi: parola rimasta indietro nel tempo che ci raggiunge.

L’atmosfera non era solo commerciale, ma di costume. Fuori una nonnina apostrofava il nipotino per come indossava la maglietta:”Un vedi questo! Ha messo su il davanti per il didietro!”-

La giornalista si chiedeva come mai si fosse giunti a tanto. In altre regioni una tale conformazione mentale con tanto di rinuncia allo spirito di appartenenza, di cui il linguaggio è testimone, non si registra affatto. E pensava:”Non si accorgono che non saranno mai quello che anelano a diventare. Inoltre non sono più nemmeno quelli che erano. Non sono più nessuno. Sembrano monumenti all’ibrido. Una svalutazione, una finzione permanente, infine.”

Man mano che la giornalista procedeva verso la stazione affioravano altre considerazioni. All’adeguamento psichico, per esempio, non sembrava corrispondere, nonostante gli sforzi, la conformazione fisica: le corde vocali e quindi la pronuncia restano quelle che sono, con delusione dei trasformisti. La risposta “comandi”, ancorché meno usata, rimane annidata nella psiche quale traccia di un’inspiegabile subalternità. In altre parole la carne sarebbe magari forte, ma lo spirito debole. Poiché ciò contrasterebbe tuttavia con il messaggio evangelico, un popolo devoto non dovrebbe comportarsi a questo modo.
In ogni caso il linguaggio che ne risultava, segno di un’ incompiuta metamorfosi traversale, appariva grottesco. Esso non corrispondeva alla struttura e al perimetro del pensiero, ma piuttosto al pigolìo della gramigna. L’Intacchinamento linguistico diffuso non sarebbe piaciuto nemmeno a Giacomo Leopardi che pure, nonostante tutto, si era lasciato sfuggire la sgrammaticatura “il zio” nello Zibaldone. In conclusione non si poteva provare per questo stato di cose una stima maggiore di quanto esso meritasse.
Le autorità vedevano di buon occhio la nuova proclività giustamente rappresentata soprattutto dai personaggi vestiti da schiavi, e non da poeti, romani. Le burocrazie nutrivano così la loro preda per poter fare un banchetto più ricco, come magistralmente si espresse Paulo Coelho nell’opera “Monte cinque”, in cui si narra come il protagonista si fosse trasformato, con la fantasia, in un poco piacevole corvo. Oh, i corvi! Ce n’erano due, indifferenti e boriosi, solitamente stazionanti tra il Foro (più appropriato sarebbe chiamarlo foruncolo) e il tempio delle Vestali appositamente ricostruito vicino all’allevamento degli ippocampi. Per il resto il mitico santuario era comunque deserto. Forse per mancanza di materia prima.

E’ vero che per uscire da certe situazioni è sufficiente il passaporto. Ciò non significa però che tutti i pettini non vengano al nodo, o qualcosa di simile come dice il proverbio. Rimane legittimo (o meglio leggittimo per adeguarsi alla nuova tendenza traslocata peraltro con successo in un esame di gongorzo pubblico) chiedersi come andrà a finire.

La giornalista guardava la gente e pensava a voce alta:”Finirà come l’Impero Romano diamine. Ci sono tanti occhi azzurri in giro”.
La notte di San Lorenzo era imminente e gli abitanti delle stelle cadenti aspettavano che la terra precipitasse, per esprimere a loro volta e finalmente il proprio desiderio: essere e non apparire.

(Dialogo Veneto N. 4,on line.- 23 giugno 2008)
(IL DIALOGO, Oderzo.- Luglio 2008)


C H I D I V O I È S E N Z A P E C C A T O….

La sera scende ovunque dal cielo. Nel paese solcato dal fiume anonimo e irreqieto essa sorge tuttavia come un’onda liquida con odore di pesca matura dai prati e dai campi, che sono la cassaforte della terra. E a quella luce rosea i grilli sono soliti cantare il loro rosario di lodi.
Non accadeva praticamente nulla nel paese non ancora pizzadipendente e così vicino ai monti, che sono in definitiva i massimi pesi di questo mondo. Un misfatto avrebbe inoltre potuto, secondo un calcolo statistico, verificarsi in quel luogo solo ogni 889 anni. Anche la genialità delle cornacchie non incuriosiva più. Funzionava così: i neri uccelli portavano le noci in un crocicchio quando l’unico semaforo era rosso. Appena il verde si spegneva, si affrettavano poi a raccogliere i frutti schiacciati dalle ruote dei pochi veicoli di passaggio. L’esperimento non sarebbe stato naturalmente da ripetersi in certe località disordinate, poiché nessuna delle bestiole sarebbe sopravvissuta. Tutto qui. Era ovvio che la gioventù si annoiasse in un ambiente simile, dove si credeva che l’amore platonico fosse un sistema contraccettivo del passato. Non destava quindi meraviglia che qualche ragazzo diventasse talvolta, per così dire, affluente minore del fiume.
Ogni tanto la novità era costituita da processioni religiose e il massimo dell’intraprendenza si realizzava in rare recite all’aperto, inscenate da ragazzi e ragazze su temi religiosi, come la Passione, il Natale, la cacciata dei mercanti dal tempio, il cammino di Gesù sulle acque…- Il parroco aveva letto per l’appunto qualche giorno prima un passo del Vangelo di San Giovanni:”Ora gli scribi e i Farisei condussero una donna colta in adulterio, e, dopo averla messa nel loro mezzo, gli dissero:-Maestro, questa donna è stata colta nell’atto di commettere adulterio. Nella Legge Mosè ci ha prescritto di lapidare tale sorta di donne. Realmente, che ne dici?- Naturalmente dicevano questo per metterlo alla prova, onde avessero qualche cosa di cui accusarlo. Ma Gesù si chinò per scrivere col dito per terra. Persistendo essi nell’interrogarlo, si drizzò e disse loro: - Chi di voi è senza peccato le getti per primo la pietra.- E chinatosi di nuovo scriveva per terra.”

L’argomento si prestava a un breve dramma. Fu scelto quale palcoscenico un tratto della riva dove lo strame frusciava e le acque del fiume avevano formato una specie di spiaggia con tanto di sabbia fine e bagnata. Un habitat favorevole sia al Martin pescatore, sia al Martin peccatore. Nessun ostacolo ci fu per la scelta di quanti dovevano rappresentare gli scribi e i Farisei: alcuni con sembianti da crisantemo, altri con la faccia da biomassa e denti che galleggiavano nella bocca. Il loro portavoce, diabetico per troppa sdolcinatezza, avrebbe dovuto in definitiva pronunciare soltanto poche parole!- Le difficoltà si presentarono quando si trattò di scegliere coloro che dovevano sostenere la parte di Gesù e della donna accusata di atti compiuti, si fa per dire, nell’esercizio della propria femminilità. Nel primo caso non poteva essere uno qualunque, ma uno che almeno sapesse scrivere. Si optò quindi per il maestro della scuola e la scelta fu gradita a tutti. Nel secondo caso, poiché nessuna donna, incluse quelle sotto la soglia minima della desiderabilità, voleva assomigliare al personaggio evangelico di cui si trattava, sebbene non fosse prevista la pronuncia di parole, si dovette procedere per estrazione a sorte. Toccò a una giovane bellastra con occhiali da sole simili a foglie di fico per nascondere lo sguardo di due occhietti fritti nel rossore, la quale, così si mormorava, era amante dei cavalli. In senso metaforico, naturalmente. Meno metaforica sarebbe invece stata la sua abilità nell’incontrare corteggiatori mentre la madre stava dormendo.- Anche questa scelta fu in fine convincente, poiché ci sarebbe stata una indiscutibile coincidenza con la realtà. Nessuna avrebbe potuto interpretare quella parte meglio di lei, così si mormorava.

La rappresentazione ebbe luogo domenica pomeriggio. La veste senza cucitura di Gesù era stata confezionata dalla tessitrice del paese. Gli spettatori, in parte coniugi con qualche carenza, erano curiosi e interessati. Capitava di rado un evento come quello, perbacco. Gli scribi e i Farisei avevano un vestiario approssimativo, ma originale. La donna accusata non era vestita proprio come una santa, ma non importava poiché soltanto le vere sante sarebbero donne ideali.
Tutto andò molto bene. I battimani e la soddisfazione del pubblico furono quanto mai meritati.
La ragazza che aveva interpretato l’adultera aveva tuttavia un desiderio: leggere quanto ripetutamente era stato scritto nella sabbia. Quelle parole lasciate ad asciugare al chiaro di luna la inquietava. Tornò quindi con andatura autoinguinante sulla riva del fiume prima che si facesse buio e trascrisse quanto riteneva di aver letto:”Quanti credono di aver successo in amore non sperano più, perché sono illusi di aver raggiunto il loro scopo. Coloro che pensano di aver avuto definitivamente successo in amore, cioè di avere sottoscritto con l’amore un patto indissolubile, sappiano che essi rischiano di diventare cornuti dell’amore”. E infine:”Non si debbono porre i topi a guardia del formaggio, poiché non si è mai abbastanza cauti nella scelta dei propri contemporanei”.
In un incontro occasionale il maestro spiegò il significato di quanto aveva scritto. Le prime parole vogliono dire che perché i sogni si avverino, bisogna prima svegliarsi. L’altro avvertimento riguarda la prudenza in ogni circostanza. Ci sono casi in cui il peccato è celato nella apparente regolarità e non viceversa. Bisogna infine diffidare da quanti accusano il prossimo: potrebbero farlo per interesse o mossi dall’invidia.


R I P A S S O D I S T O R I A


La storiografia romana è certamente prodiga di notizie sulla vita dell’epoca. Si tratta comunque di uno storicismo invertebrato. Se si desidera piuttosto conoscere in dettaglio quanto avveniva nella capitale o nelle province, bisogna invece ricorrere a qualche oratore o cronista guastafeste.
Tra questi bene informati figura Plinio il Vecchio. Si viene così a sapere che Giulio Cesare aveva provocato con la sua ambizione un milione di morti, compreso il genocidio dei Veneti residenti nella Gallia Transalpina. La cifra assume particolare rilievo se si pensa che a quel tempo, considerando anche la concessione della cittadinanza ai provinciali dopo le guerre civili, la popolazione dell’Impero era di soli 4.023.000 cives.- Secondo Euripide il personaggio aveva inoltre sostenuto l’inaccettabile principio:”Se occorre violare il diritto per regnare, lo si faccia; in tutti gli altri casi si rispetti la giustizia”. Non sembra proprio il caso di prendere in considerazione Giulio Cesare per eventuali celebrazioni.
Un’altra fonte è Marco Tullio Cicerone. Egli scrive la Seconda Filippica subito dopo le Idi di Marzo, quando Giulio Cesare venne assassinato in Senato. Veniamo in tal modo a sapere che Marco Antonio era il braccio destro di Cesare. Egli era attorniato da una miriade di gente poco per bene. “Comites nequissimi” li qualifica Cicerone, cioè “cattive compagnie” da non confrontarsi con quelle delle nostre gioventù, la cui frequentazione costituiva peccato da confessare.
La Sesta Filippica è ancora più chiara. Marco Antonio aveva un grande seguito quando viaggiava. C’erano allora i littori, che oggi si chiamerebbero la scorta. E fino a qui nulla di straordinario, data la carica che il personaggio rivestiva. Poi seguivano parecchi grandi carri coperti ed equipaggiati per rendere più agevoli le lunghe trasferte. I passeggeri erano prostitute, lenoni e parassiti. Le popolazioni dei Municipi, invece che includere nell’accoglienza una risata torrenziale, dovevano rendere omaggio a quegli ospiti, si fa per dire, e sostenere le rilevanti spese per il mantenimento, il soggiorno e le regalie. Non importava se ciò corrispondeva ad un impoverimento della comunità.
Cicerone non precisa nulla che riguardi Oderzo. Ma a noi sembra lecito chiedere se, per caso, Oderzo non fosse Municipio Romano tra il 49 e il 42 a.C. e precisamente amministrato da quattro magistrati, di cui si conosce solo il nome di M. Laetorius Paterchianus , tanto per dare un riferimento temporale e onomastico ragguagliabile con la storia.- In caso affermativo Oderzo sarebbe stata certamente coinvolto nei costosi festeggiamenti cui Cicerone faceva riferimento. Qualora ciò costituisse motivo di vanto, regime condiviso e orgoglio, piuttosto che di fastidio, sdegno o disonore, sarebbe giustificata la celebrazione estiva del mito impolverato con tanto di travestimenti.- L’evento dovrebbe invece essere rimosso dalla memoria, qualora la partecipazione fosse stata forzata o mal sopportata dalla gente, come si suppone.
La storia ricorda, inoltre, che l’Imperatore Commodo, figlio di Marco Aurelio, spese verso la fine del II secolo d.C. somme molto elevate di denaro pubblico. Il motivo?- Combattimenti tra gladiatori. Egli stesso vi partecipava coraggiosamente, dopo essersi accertato che gli avversari fossero armati di semplici spade di legno. Non si sa mai.- Ecco, anche rievocazioni del genere sarebbero da evitare, specialmente se finanziate da risorse pubbliche in tempo di crisi finanziaria.
Per comprendere qualcosa di più non rimane altro che attendere la prossima estate. Nel frattempo si deve, comunque, prendere atto che Marco Antonio non era rilevante nemmeno esteticamente. In una moneta d’argento risalente al 32 a.C. egli è infatti raffigurato con gli occhi sporgenti, il naso aquilino e il collo taurino. Proprio tutto il contrario di come appare nel famoso film di L. Mankiewics del 1963. Se ne tenga conto per un’eventuale immedesimazione.





E L T Ì L I O (àl Tèj / Tajèr)

Lé pòch da dìr, el Tìlio al è ‘l àlbero de-a vita. Fin da sènpre ‘sto àlbero lé stât cegnèst in gràn considerathiòn da-a nòstra tradithiòn piavesàna-montegàna. Na òlta no se podèa gnànca pensàr a’n paesèt, pàr cuànt pìzhôl kèl fùsse sènzha àn bèl tìlio / tèj te-a piàzha. Sôt la sò onbrìa fèa bànca el sìnico co-i sò consilièr. D’istà pò, jèra lògo ànca pàr àltre reuniòn: òmi a fàr afàri, zhènt a fàr fìla, pàr-fìn a tajàr-se i cavèi. Là se magnèa e se balèa co tànt de sonadòri. Sôt el tìlio/tèj se fèa sàgra tèi dì de fèsta, e l’é ànca cuà che i dhòveni ‘ inparéa a deventàr gràndi: àn çentro sozhiâl, se pôl dìr. Praticamèntre al tèj/tìlio al jèra n cuèrt pàr la bòna zhènt: ùn àrbol cò-i sò ràn co fà la còca cò-i sò pitusét sôt. I dìs che ànca la Madòna côl sò fantolìn/putìn la polséa sôt la so onbrìa cò la ‘ndèa in transfèrta, o la ‘ndèa a catàr sò màre Sànta Ána (Nèta), o la màre de sò dhermàn: el Sànt Huàne.
‘Sto benèdeto tìlio al ne fà vègner in a mènte el Rè Matiàzh, ch’el vèa vù coràjo de conportàr-se maâl pàr- fìn coôl Signòr pàr vìa de-a sò insolènzha. Cussìta ghe a tocà pèrder ‘na batàlia pròpio vezhìn àn tìlio cressèst in mèdho i prà. I cònta pò ànca che ‘sto Rè “slovèneto” Matiàzh al jèra restà serà èntro in-te na cavèrna còi sò ùltimi soldà. Dùti lòri i se vèa indormenzhà e i se saràe svejàdi da nòvo nòme che inte-a nôt de Nadàl, cuànde che an tìlio al saràe vegnèst-sù pròpio vezhìn la gròta ònde ke lòri i jèra seràdi èntro. Pìn vànti côl tènp el tìlio/tèj àl saràe cressèst, àl varàe fiorì e pàr ùltimo al se saràe secà, mòrt. Ál Rè Matiàzh alòra àl se varàe svejà, e ciamàdi dùti i sò òmeni, al varàe vinzhèst la guèra pàr che cuèi ch’el vèa incontrà i saràe dùti scanpàdi. E tànta zhènt la é ndàda drìo-ghe pàr vìa che dùti, dhòven e vècj, i ghe cegnèa a fàr cuèl che lù l ghe diséa, drìo-ghe a le sò instruthiòn. Ál bòn udòr dei fiòr de ‘sto tìlio/tèj àl ghe varàe dât morbìn e fât deventàr sprìnghi tùti, e chi che stèa mâl, i saràe stàdi mèjo sùhito. Lé pàr cuèsto ch’el tìlio/tèj i dis che l’é l’ “àlbro de-a vita”. ‘Sto tèj/tìlio al à n gràn spàzhio in dùte le stòrie de la Uròpa çentrâl, un fià da pàr tùt. I é lòghi che i à vìst stanzhiàdi i Vèneti de ‘na vòlta. Vèneti che i é restàdi semenàdi pa stràda ìnte a migrathiòn e che magàri incò i pàrla “cirillico-illirico” drìo la Câl Ongarèsca/Sciahonèsca, che la và a Nassént, o la Stràda boreàna del Ánbra che la rimònta in tramontàna fìn tèl màr Bàltego. Sènpre pàr cuistiòn de espressiòn: ghe n’è ìnte la Venèthia dei nòstri che i pàrla nostràn, àltri sòte sfòrzh pa inparàr el fiorentìn/tiberìn, ma i farà pòca stràda, pàr che i và fòra ràzha. Ghe n'è pò cuèi de tràns-àcua/tràns-oçeànich che i pàrla nostràn-indiàn (tupì/huaranì)-braziliàn; àltri tèl mòndo nòvo-castiliàn de-a Mèrica Latìna, o ànglo-mericàn, o bèn australiàn, sôt le stèle bèle de la romàntica constelathiòn de la Crôs Austrâl/Cruzèiro do Sùl. El gràn scritòr e poèta Walther von der Vogelweide (1169-1228) al à scrivèst la bèla canzhòn, scuasi un madrigàl: ”Sôt el Tìlio” voltàda dal todèsch mediàn ìnte n vèneto patòch e rùstego de-a Zhànca Piàve (Zhèneda co Ùdèrzh, …co Montegàn e Ongarèsca pa stravès):


1) Nota zlenguìstega: vardé che pàr: tèj/tìlio/tajèr se podaràe ànca fàr ùso de: “tìlia”, pàr vìa che ànca el salézh al à la sò dithiòn fémena: “salghèra”, o bèn: cuchèr=cuchèra, noghèra, arnèr=arnèra, ulivèr=ulivèra, noselèr=noselèra, sarezèr=sarezèra. - Dapo: el tèj, pàr de pì de èsser sède del consìlio cumunâl de Zhèneda (“sub tilia Coenitae”) al varàe ànca dèi concorènti, tìpo: noghère e morèr tèi cortìvi dè-e càse colòneghe. Me sovién la famòsa Pisolèra de Vilòrba, el Crucugnèr dè-a cortina de Vigonòvo/Vinouf de Fontanafrèda de Pordenòn, Sànta Marìa del Ròver, vànti de rivàr a Tarvìs=Trevìso, e tànti àltri càsi, vezhìni e slontàni: Morùz, tèl Furlàn, pò da novo: Lipiza te-a Zlovénia, o Lìpsia/Leipzig in Sassònia, o Lindau sùl làgo de Costànzha, pa no parlàr del stradòn “Unter den Linden” de Berlìn. Pa finìr-la: ‘sto Tìlio l’é bèn presènte te-a topo-nomàstega (nòmi de lòghi) e ìnte la aràldica del Zhèntro/Mittel-Europa. Magnìfico pâl so portamènto, la sò onbrìa e l parfùn de-i sò fiòr, ‘sto tìlio i te-o dìs: Lipa par slàvo e Lìnde pàr todèsch. “E più non dimandare, Contenté-ve pàr incò, càri da Dìo!”


S Ò T E L T Ì L I O

Sòt el Tìlio ìnte l boschèt
Ònde che noàntri dò se sè catéa,
podé trovàr garòfoi e fòje de morèr,
intorcolàdi co tànta vòja e passiòn.
Se sènt ànca n rossignòl cantàr bèl.

Mì sòn rivàda ìnte l boschèt,
indòve ch’el me moròs
al jèra-drìo spetàr-me.
Propio là al me vèa ciamà:
“Madòna Sànta!”
pàr-chè mì podèsse pàr sènpre ricordàr.
Se lù al me à basà? An grùn de bàsi!
Vardé, mò, el colòr dei me làvri!

Lù al vèa parecià pàr mì
an bèl lèt co fiòr de strafòi.
Se cualkidùn al fùsse passà da cuée bànde,
al se varàe fât maravéja grànda
pàr vìa de-e rosète pestàde e fiàpe,
pò: se podèa incòra véder bèn
indòve che mì me jère destirà.

(Walther von der Vogelweide)


2) Comènto: cuà ghe n’è sentòr e parfùn da Cantàr de-i Cantàr de-i Lìbri Sànti, o bèn de Jùlia e Romìo de-a Màrca de Veròna. ‘Sto Vogelweide al à da èsser stât an Tiròl, còa prìma capitàl in Sabiòna, sòra Klausen/Chiusa, ìnte a stràda del Brèner, che noàntri cognossén bèn, che òn fât la naja alpìna te-a Tridentìna. Da ricordàr ànca che cuèle Álpi dei cantòn ladìn (Álpi Vènete) no le jèra ncòra stàe batidhàde bastardamèntre, esoticamèntre e napoleonicamèntre pàr: Dolomiti. “Unicuique suum!”).
(Il Piave, Conegliano Veneto, aprile 2009)
(Il Dialogo, mensile, Oderzo aprile 2009)

A L T E Z Z A I M P E R I A L E

“Le folle non hanno mai sete di verità. Deificano l’errore. Chiunque le disillude tende a diventare loro vittima.” (Gustave Le Bon)


Poco prima della metà di dicembre 1824 i cocchieri ricevettero l’ordine di tenere pronti cavalli e carrozza per una trasferta molto importante. L’Arciduca Ranieri d’Asburgo, Vicerè del Regno Lombardo-Veneto, desiderava visitare le città imperial-regie di Oderzo e Motta.
Si presume che anche a Oderzo fervessero i preparativi. La gendarmeria sarebbe stata certamente informata e il signor Mantovani sarebbe stato lusingato di ospitare il personaggio e il suo seguito nel proprio albergo. Entusiaste sarebbero state, naturalmente, le famiglie Amalteo e Tomitano, presso le quali il regnante si sarebbe fermato per qualche ora. Anche la popolazione non sarebbe stata indifferente: la visita di un’altezza imperiale non era un episodio frequente.
Per quanto poca esperienza abbia con le corti imperiali del mondo, ognuno può bene immaginarsi la scena. Una carrozza con un tiro a sei cavalli guidati da due cocchieri; due servi al seguito; un paio di gendarmi di scorta e un segretario dovevano accompagnare il Capo di Stato diretto a Oderzo. Non si può certo fare un confronto con le attuali scorte dei politici, ma si trattava pur sempre di una realtà inconsueta cui provvedere con cibo e alloggio.

La rugiada lunare, chiamata “aguàzh” era ancora gelata e la temperatura era pungente come il freddo del nulla. Dal finestrino della diligenza si vedevano le conifere: bellezze d’inverno. La brina incipriava i prati come una nuova mano di gelida vernice. In lontananza si udivano i rintocchi del picchio. Nei pollai i capponi esultavano felici per l’approssimarsi del Natale.
Il tragitto non era agevole. La “Callalta” evidenziava buche ed asperità appena mitigate dal confronto con i fossi esigui che la accompagnavano. Il Granduca Ranieri, fratello dell'Imperatore Francesco II d'Austria e futuro suocero di Vittorio Emanuele II di Savoia, non era soddisfatto. Quando i viaggiatori giunsero alla Piave, anche il ponte si presentava malconcio e ciò aumentò l’irritazione del Principe. Non c’erano tuttavia alternative per i mezzi di trasporto a quel tempo: la ferrovia si sarebbe fatta attendere ancora per 71 anni!- Una pausa si imponeva comunque per ristorare le persone e i cavalli. Durante questo intervallo Ranieri dovette aver impartito l’ordine per un riassetto della Callalta. Da come il ripristino fu effettuato, si comprende come allora le decisioni delle autorità fossero subito eseguite: a differenza delle attuali delibere, per le quali occorrono tempi lunghi nella speranza che esse vengano dimenticate o abrogate da successive amministrazioni.

Nelle prime ore del pomeriggio i monti si mostrarono in tutta la loro irripetibile senilità. Gli alberi dal bel portamento erano miti compagni e l’Arciduca pensava, con invidia, che alle piante riesce qualcosa che gli uomini non possono fare: un sonnellino in piedi. Nei campi ai lati della strada le “bilussère” erano vigneti alti, larghi e grossi della magia del “vin moro”.

Oderzo attendeva con i suoi portici, già frequentati d’estate da innumerevoli rondini e divenuti d’inverno silenziosi rifugi per il letargo delle eleganti vespe gialle nere come i colori dell’Impero. La città era piccola, tanto da sembrare quasi privata. Un filo di luce liquida era il Monticano, fiume mitteleuropeo e non peninsulare, che scorreva anonimo e irrequieto tra gli argini imbronciati come il mormorio del tempo non addomesticato da nessuna clessidra onoraria. Lungo il ramo interno del corso d’acqua, vicino al ponte del Gatolè vegetavano i salici piangenti, che in nessun caso possono essere considerati alberi tristi.

Sul cancello maggiore a sinistra prima dei portici del grande palazzo nel Borgo Maggiore, Ascanio e Francesco Amalteo, rispettivamente primo e settimo dei sedici figli di Giambattista, attendevano l’illustre ospite. Questi era al corrente che gli Amaltei, giunti a Oderzo da Innsbruck nel 1400, erano famosi per l’impegno culturale iniziato da Marcantonio e Francesco e poi sviluppato nei secoli da Gerolamo, Giambattista, Cornelio, Pomponio, Ottavio, Aurelio e Ascanio. Gli ultimi due erano stati poeti di corte a Vienna.

L’Arciduca volle subito visitare la biblioteca della famiglia, dove sarebbe stato conservato, tra l’altro, un raro codice della Commedia dantesca già prestato a un editore veneziano per una delle prime copie a stampa. Da quell’epoca l’opera sarebbe stata poi denominata “divina”. Ranieri d’Austria rimase entusiasta per la quantità e la qualità di libri e manoscritti custoditi nella biblioteca e volle trattenersi con amabile sensibilità a colloquio con i proprietari. Fu durante questa conversazione che egli apprese l’esistenza dell’altrettanto celebre biblioteca opitergina dei Tomitano, cui pure dedicò un poco del suo tempo.

Le speranze di una più lunga permanenza del Principe a Oderzo andarono tuttavia deluse. Egli intendeva proseguire il viaggio per Motta, la città quasi al livello del fiume che l’attraversa: la Livenza.
La sera scende ovunque dal cielo. A Oderzo essa sembra invece salire dalla terra e avrebbe un color prugna. In questa particolare suggestione gravata dal freddo clima dell’inverno continentale, il viaggio di Sua Altezza Imperiale riprese attraverso il paesaggio in un tempo in cui la guerra dell’uomo contro l’albero non era ancora cominciata.

Francesco Amalteo, portatore sano di cultura, volle che di quell’importante evento per la sua città rimanesse traccia nel tempo. Egli fece quindi apporre sopra la porta d’ingresso della celebre biblioteca questa lapide:

Il 13 dicembre 1824 Ranieri Arciduca d’Austria,
Viceré del Regno Lombardo-Veneto,
onorò della sua presenza con un’ora di umanissimo colloquio
la Biblioteca degli Amaltei, che è vanto della Provincia di Treviso.
Francesco Amalteo affidò ai posteri un tale onore per la sua casa.

La lapide, insieme a quella esistente a palazzo Tomitano, fu frantumata nel 1866 in nome della cultura e dell’amore per la storia locale, si suppone. È stato come se oggi la scuola pretendesse di escludere gli Dei dall’Iliade. I tentativi per un ripristino dell’iscrizione hanno incontrato dapprima silenzio e poi lungaggini nella speranza che tutto finisca nella dimenticanza. In nome dell’interesse e dell’amore per una pagina di storia della città, s’intende.



(Il Dialogo, mensile, Oderzo aprile 2009)




L A C A P R A



“Il potere è più facilmente esercitato
tra coloro che non pensano”
(Platone)

La nostra città si trova su un altopiano. I dintorni sono zone verdi per la materia grigia. A volte le nuvole sembrano monache che si addormentano durante la preghiera. In qualche occasione le nubi sono così leggere, astratte e bizzarre da sembrare il risultato della follia. D’estate c’è un vento a colori dopo i temporali, chiamato arcobaleno.
Si percepisce ovunque un diffuso benessere. I negozi sono pieni di merce e ovunque domina un rassicurante senso di tranquillità. Non accade praticamente mai nulla. Le poche iniziative sembrano situazioni in cui la sazietà viene a contemplare il nulla. Una vera civiltà della noia, insomma.- La noia, come la stupidità, è uno spegnitoio inesorabile.

La nostra città non ha un fiume. Essa ha tuttavia un ponte. Si tratta del residuo mentale di un’epoca coloniale, quando la costruzione di ponti era sbandierata quale massima dimostrazione di abilità e civiltà perfino nel deserto, dove l’acqua non esiste e il fiume non può quindi dividere ciò che il ponte unisce.

La nostra città non ha la ferrovia, bensì un efficiente servizio di autocorriere. Durante un viaggio è capitato di udire un dialogo tra due signore solo tendenzialmente femminili.
“Sono stata in Egitto. In occasione di un viaggio nel deserto un beduino mi scorse e propose a mio marito di cedermi in cambio di una capra”, raccontò una lusingata.
“Mi sembra una valutazione troppo bassa. Avrebbe potuto offrire almeno una cammella”, osservò l’altra.
“Nel deserto una capra non è meno di una cammella. E poi, dove l’avrebbe messa mio marito una cammella?”.
Ecco, questo colloquio dava un’idea del livello medio dell’intelligenza locale. La città era quindi come un pianoforte con un unico tasto nero, il quale rappresentava la cultura.

Alcuni volonterosi, precisamente due professori di agraria e di disegno integrati da un gruppo di studenti, si incaricarono di modificare l’orizzonte culturale della città. Non era impresa da poco: sembrava di chiedere alla luna e alle stelle di dare un nuovo cielo.
Per animare un poco la vita cittadina con dimensioni di novità furono avanzate due proposte:

1- Riprodurre in una serie di sceneggiature primaverili un’atmosfera da criminalità organizzata con tanto di finte estorsioni, intimidazioni, vendette, ecc., come la cronaca quotidiana di altre zone informava con ampiezza di particolari;
2- Inventare vedute intese a convincere la cittadinanza circa una propria, improbabile ascendenza egizia o romana e quindi indurre una distrazione dalla naturale, composita identità.

La prima ipotesi fu scartata. Non tanto perché poteva essere vista come apologia di reato, quanto per alcune difficoltà di altro genere. L’esperienza aveva infatti insegnato che, in occasione di un gemellaggio deliberato da una località vicina, la folta delegazione ospite non se ne andò più e fu necessario procurare alloggi popolari e impieghi per i nuovi venuti. Poiché per istruire i figuranti in modo che le loro esibizioni fossero credibili sarebbe stato necessario importare alcuni esperti, qualche dubbio inquietava gli organizzatori.

La seconda congettura fu respinta solo a metà. Niente Egitto. La storia romana risultò invece gradita, benché non se ne conoscesse il motivo. Non fu inoltre chiarito se si trattasse della città dei Cesari o di quella dei Vespasiani, ma la mentalità di chi non ha città eterne nel proprio territorio è molto sensibile al riguardo.

Bisognava ora passare dal progetto alla realizzazione. Uno degli insegnanti disse a un ragazzo:
“Se vai a Roma per l’Anno Santo, procura alcune cartoline dei ruderi. Disegnerò alcuni cartoni tanto per abituare gradualmente i concittadini all’idea”.
Il giovane si diede da fare e, poiché nel suo viaggio era compresa anche una visita ad altri siti archeologici, un paio di cartoline furono acquistate anche in queste località. In fin dei conti i ruderi sono sempre ruderi, non è vero?
Appena i cartoni furono pronti incominciarono le perplessità. Qualcuno diceva:

“Sono un falso, una mistificazione, un inganno. Non si comprende se si tratti della città dei Cesari o di quella dei Vespasiani. Queste sono immagini che nulla hanno a che fare con la nostra terra. Ne seguirà una crisi di rigetto, perché certe supposte origini sono come talune radici quadrate: immaginarie”.

“Non ti preoccupare. Il nostro popolo non fu mai romano. Forse vassallo dei Romani come gli Edonisti, di cui Erode fu re e tiranno. Ma finché esisteranno i salami, ci saranno fette a sufficienza per gli occhi dei nostri concittadini. C’è una nicchia di persone che ragionano con la propria testa, questo è vero, ma pochi conoscono la storia. Possiamo andare tranquilli”, rassicurava il docente.

L’altro professore non voleva coinvolgimenti, era certo che anche le cure dimagranti potevano fare magre figure, si rifiutava di insegnare qualcosa di falso ai giovani e sosteneva:
“Questo poi non è un foro! È solo un foruncolo. Italo Calvino sosteneva che solo dopo aver chiara la superficie delle cose, si può cercare che cosa c’è sotto. Certe etichette danno fastidio perfino nella biancheria. Talune esibizioni sono come leccare un posacenere, ecco. Andrebbero bene quale targa per un Deposito dei Soggetti Smarriti, altro che per vantarsi!”.

Il giorno successivo era presente anche un professore di storia. Egli apparteneva alla Accademia degli Apoti, cioè di quelli che non la bevono facilmente, e aggiunse le seguenti precisazioni:

1- Le legioni stanziate nelle province durante la dominazione romana (181 a.C. – 476 d.C.) erano costituite da mercenari illirico-germanici. L’onomastica nelle lapidi rinvenute documenta “Flavius, Rufus, Flavianus, Rubius, Rugius, Rufinus, Rutilius, Longus, Longinus, Magnus, Caesus, Caesar, Caesulla, Carsilla, Caesennius, Caesonius, Ravilia o Ravilla, Albus, Albinus…” a significare rispettivamente gente dai capelli biondi o rossicci, dagli occhi azzurri o grigi, dall’alta statura e colorito chiaro, tutte caratteristiche non propriamente capitoline. Catone il Censore aveva gli occhi azzurri e capelli rossicci; Silla era biondo e con gli occhi azzurri; Augusto aveva capelli e occhi chiari; Cesare era di alta statura e pelle chiara, pur essendo di occhi e capelli scuri…-

Quando i militi venivano congedati, ricevevano un terreno da coltivare. I graduati avevano anche una somma di denaro. Questa era in realtà la composizione della popolazione agricola (coltivatori) e urbana (ceto più elevato, perfino con pavimenti a mosaico nelle proprie case risalenti però alla fine dell’Impero), che integrò l’antico substrato umano ed economico sloveneto ancora non sommerso. Nulla di romano, ma molto di illirico-germanico in ogni caso. Ciò vale anche per la nostra città che, come tutte, fu realizzata dai dintorni e non viceversa.

2- Marco Tullio Cicerone chiarisce, subito dopo le fatidiche Idi di marzo e precisamente nella 2^ e nella 6^ Filippica, alcuni aspetti della storia romana che non vengono mai evocati:
-Marc’Antonio (braccio destro di Cesare che concupì, tra l’altro, sia la moglie sia il nipote di Erode) amava circondarsi di prostitute e ruffiani (Comites nequissimi). Questi convogli si spostavano continuamente nelle varie province e gli abitanti dei Municipi erano tenuti a rendere loro omaggio, nonché a pagare il costoso sostentamento.

-L’Imperatore Commodo (Figlio di Marco Aurelio, circa 180 d.C.- Poiché uno schiavo gli aveva preparato un bagno troppo caldo, lo fece arrostire nel forno!), fu incriminato di fronte al Senato per avere inscenato spettacoli di gladiatori con il denaro pubblico.

Le progettate esibizioni, noiose zie bisognose di aggiornamento, non avrebbero quindi corrisposto a nessun risveglio, ma a semplice reinvenzione dovuta a una fragilità intellettuale che, in quanto retroguardia di pregressi colonialismi, consente l’arbitrio rievocativo. Non si teneva in alcun conto che la storia sia un tempo provvisto di senso e che non è saggio stravolgerla. In altre parole si tratterebbe della prima rata mediatica di un auspicio, o elogio, di un Regime.- In alternativa si sarebbe potuto riaccreditare la verità storica, vale a dire togliere qualcosa alla storia grassa per dare alla storia sacrificata, ma una preventiva demonizzazione operata con l’arrogante concetto delle “invasioni barbariche”, anziché della corretta dizione “migrazioni di popoli”, precludeva ogni possibilità. Una nemesi farà giustizia di tutto ciò proprio tramite gli episodi migratori in atto, che nessuno si permetterà più di definire con il precedente epiteto. Se venisse praticata l’analisi generale del dna mitocondriale, si potrebbe ricostruire anche le origini geografiche del nostro popolo. Clamorose smentite a quanto ci è stato finora insegnato non mancherebbero. Vi sono argomenti che non ammettono alcuna contestazione, ma non suscitano alcuna convinzione secondo quanto affermato da David Hume, concluse il professore di storia con scarsa educazione coloniale.

Le argomentazioni non facevano una grinza. Certa politica fa però di tutto per avere la storia dalla sua parte e per mantenerne il marchio mediante l’esclusione di ogni dimensione locale, tranne l’ingenuità e la libidine di genuflessione. Anche se è inevitabile che non duri. Furono quindi progettati eventi che, sebbene privi di acceleratori gustativi, corteggiavano i cinque sensi. Per definizione i figuranti non interpretano mai se stessi. Non si ravvisava generosità intellettuale nelle loro movenze. Si potrebbe dire che fossero come caramelle imbevute di vibrazioni intese a suscitare improbabili emozioni intellettuali. Da tutto ciò non giungeva alcuno spirito di appartenenza. Al massimo si poteva attivare un “sesto senso” chiamato anche capacità di critica e, in certi momenti, crisi di rigetto.

Le celebrazioni che stavano alla storia come il tifo sta allo sport, terminarono nel giorno dei morti con uno spettacolo denominato mercato degli schiavi. Sorgeva proprio vicino al chiosco in cui era in vendita la paglia rinvenuta nella grotta in cui la lupa aveva allattato Romolo e Remo. Come in ogni emporio di schiavi che si rispetti c’erano venditori e compratori, transazioni in denaro e baratto. Tra la merce esposta si trovava anche la donna dalle credenziali scarse già valutata nel deserto egiziano al valore di una capra. Sarà forse a causa del tempo trascorso dal primo episodio, o per altri ignoti motivi, ma nemmeno stavolta l’offerta di permuta andò meglio: sempre una capra.


I O, I L V I N O

“Che vita è mai, o Signore,
quella di chi non ha vino?”
(Salmo responsoriale)


Questo è il titolo di un libro, che l’egregio amico e Santo Bevitore Gigi Serafin mi ha fatto cortesemente pervenire.
Una trentina di vini costituiscono una rassegna sontuosa di prodotti della Mesopotamia Veneta, cioè della terra tra la Piave e la Livenza, fiumi di cui qualcuno di noi è stato da giovane screanzato affluente minore. Almeno una decina sono di provenienza transalpina e smentiscono l’indicazione a pag. 6, secondo la quale soltanto gli Italiani sarebbero amici del vino. Siffatta visione restrittiva sarebbe solo un residuo di una errata mentalità artificialmente riscaldata, o buona educazione coloniale, che negli ultimi tempi tende inconsapevolmente e anacronisticamente a escludere dall’esistenza quanto non è romano. Una incomprensibile dimensione di subalternità dunque. Se certe esibizioni fossero un vino, sarebbero aceto.
Le immagini sono lo splendore di questo libro. Le tre viti effigiate a pag. 9 sono la più originale delle crocifissioni finora prodotte dall’arte mondiale. L’abbondanza dei soffioni ricorda come la primavera duri solo quanto un nido di primavera nel sambuco. E la neve non è che un altalenare di farfalle morte di freddo.
Il vino è benessere allo stato liquido. Sembra pertanto adeguato il motto che accompagna il quadro di Hendrick Goltzius conservato nel museo di Philadelphia:”Sine Cerere et Libero friget Venus = L’amore si raffredda senza cibo e vino”.- Il vino è la parte “intellettuale” del pranzo, per così dire. Solo il vizioso vi cerca l’alcol; il buongustaio vi scopre la poesia. Non si dimentichi tuttavia che il vino toglie anni, ma regala mesi, come sostiene Claudio Magris riferendosi a Joseph Roth.
Nessuno si è mai accorto che la sera scende ovunque dal cielo, mentre nella vigna, oro verde dei campi, essa invece sale dalla terra ed ha un color prugna?- Tra le viti il fruscio della lucertola ricorda come la natura sia un equilibrio tra i mondi animale, vegetale e minerale. Le tonde coccinelle hanno intanto vita brevissima, ma già dopo poche ore ne hanno piene di umor nero le sette palline sulle elitre rosse.
Le pagine di Giancarlo Moretto ci informano che anche il vino ha un’anima, la quale contiene il profumo del sole. La magia nera del Cabernet non può quindi essere un genere di conforto per falliti. Una preghiera sorge spontanea:”Dacci oggi il nostro rosso quotidiano”.- Alla salute, allora!- E a che cosa altrimenti?
Un pensiero meno gioioso affiora dopo una giusta bevuta. Nella cantina, cenacolo del vino, il mosto invecchia bene nelle botti di rovere. Sugli scanni di rovere in Parlamento invecchiano bene alcuni politici.

(Il Dialogo, Oderzo luglio 2009)


GLI EDREDONI

Anche i paesaggi si possono leggere. Non faceva eccezione il nostro villaggio, in parte denominato “luogo delle acque basse”. Si comprendono così una natura troppo estrema per essere contraddetta, una banderuola sul campanile che occupa da sempre un posto tra due venti contrari e prati che si coagulano di passeri, anime bambine vestite di piume: un paesaggio plurale smaltato qua e là di rossi papaveri.
In una notte con una luna da sabato sera accadde qualcosa di inaspettato. Un consistente gruppo di grossi uccelli palmipedi si era stabilito vicino al ponte quasi al livello del lento fiume. Si trattava di edredoni o “anatre dal piumino”, note anche come “oche del Campidoglio”.
I nuovi arrivati, dopo aver attentamente studiato la composita comunità locale di uccelli acquatici dotati di carena dello sterno ridotta e zampe corte a dita unite da membrana lobata o intera, cominciarono a saggiare le varie vocazioni disponibili alla subalternità. Presto emersero le loro intenzioni e la tendenza a vivere a spese degli ospitanti. In altre parole progettavano assoggettare e colonizzare tutte le specie di palmipedi del paese in attesa di nuove opportunità anche presso i “galliformi”. Non passava giorno senza prepotenze e perfino aggressioni fisiche.

Non mancò la spiegazione per la nuova presenza e l’inusitata realtà. Tutto veniva fatto, si diceva, per la liberazione delle specie esposte alle incursioni delle martore dal pelo bruno gialliccio, ai saccheggi delle flessibili faine, alle intrusioni delle agili donnole e perfino alle astuzie delle volpi dalla folta coda. Non importa se le ultime apparizioni di questi animali risalivano a mezzo secolo prima. Dopo la liberazione sarebbe stata poi introdotta la civilizzazione delle schiere liberate. In questa opera era compresa in primo luogo, come in tutte le colonizzazioni che si rispettano, la riconversione linguistica.
Una delle prime pretese fu infatti l’immediata abolizione dei linguaggi delle diverse specie e la contestuale introduzione del chiasso del nuovo branco, integrato da imprecazioni e da una inconfondibile agitazione di ali.- “Parlare la lingua materna è come vivere”, era stato spiegato, “e la vita invecchia, consuma, fa male alla salute. Perché allora insistere?- Perché rimanere arretrati usando parole logorate e dal suono barbarico?”- Se rimaneva solo l’idioma dei nuovi venuti, tutti i pennuti resi subalterni avrebbero invece compreso gli ordini impartiti e non c’erano pretesti per insubordinazioni o equivoci. Questa era la strategia, o meglio la voce del predone. Quanti non si adeguavano erano oggetto di minacce e di aggressioni. I piccioni viaggiatori si incaricarono subito di comunicare a tutti gli interessati le nuove disposizioni. L’informazione fu completata da un’assicurazione: il nuovo starnazzamento aveva già avuto un certo successo in passato durante un famoso assedio di una città costruita su alcuni colli.

Le anatre mute decisero che la cosa non le riguardava. Facessero tutti un poco come volevano. Esse si servirono del loro interprete di fiducia per comunicare l’estraneità alle nuove disposizioni. Il traduttore era un vecchio barbagianni che abitava in un anfratto del cimitero. Non si pensi che fosse una fatica di poco conto fare l’interprete. Intanto questi doveva conoscere, nel caso di specie, anche la lingua dei segni usata dai muti, appunto. Inoltre, come in tutte le parlate, anche la lingua dei segni ha i suoi dialetti.

Le oche domestiche grigie o tutte bianche, non volevano dispiacere alle loro congeneri. Come è noto, le oche, tranne alcuni esemplari che si sottraggono alla consolidata classificazione grammaticale, sono femminili per definizione. Bisognava vederle come sbirciavano gli ingombranti ospiti! Soltanto loro e qualche ragazza del paese, comprese quelle con garanzia ormai scaduta e altre in età da zampe di gallina, sapevano occhieggiare strabicamente in quel modo, a capo basso per carico peccaminoso, quando arrivava qualche estraneo da quelle parti. Tutte accettarono subito e di buon grado gli ordini. In fin dei conti non dovevano sforzarsi poi molto per imparare.- Le papere seguirono l’esempio senza nemmeno una pernacchietta. Che resistenza avrebbero potuto fare le poverine contro quegli intrusi determinati e prepotenti, probabilmente appoggiati da chissà quali protezioni?

Qualche difficoltà derivò dai germani reali dal becco lungo verdastro, con piedi di color arancione e un paio di riccioli sulla coda. Alla fine anche loro dovettero assoggettarsi ai nuovi ordini, ma istituirono delle scuole per gli anatroccoli, affinché non dimenticassero il linguaggio materno. Le lezioni, frequentate anche dai pulcini dei “marzhorìn”, si tenevano in un luogo appartato, dove le rose selvatiche sanguinavano libere nel profumo di tanti ricordi di spine. Se fossero stati scoperti, sarebbe stato un guaio. Il pericolo era reale: c’erano molti confidenti, o spie, in giro. I corvi erano tra i più sospetti. Certe cose sono come gli anni di scuola: bisogna attendere che passino. I prepotenti sono comunque destinati a provocare crisi di rigetto prima o poi.

Le gallinelle d’acqua, più piccole del colombo, nere di sopra e grigio ardesia di sotto, erano molto perplesse. Appartenevano anch’esse ai palmipedi?- Le loro tre dita anteriori lunghissime e verdi lo escluderebbero, ma la loro abilità nel nuoto e nel tuffo dimostrerebbe una certa affinità. Decisero di guadagnare tempo e, per il momento, far finta di niente.

I gabbiani invece si ribellarono. Questi uccelli hanno certamente uno sguardo da sciocchi, ma proprio insensati non sono. Il loro grido rauco somiglia a uno scroscio di risate. Sembrano convinti che, se il Regno è nei cieli come è stato autorevolmente sostenuto, gli uccelli del creato siano avvantaggiati rispetto agli umani. Decisero quindi di migrare, attirandosi lo sdegno dei cigni simili a bianchi punti interrogativi.- Oh, l’emigrazione! Non si va via per stanchezza del proprio paese ma, poiché prima o poi si deve morire, è possibile intanto fare esperienza con una morte finta. Ecco.
Il fiume esiguo non sapeva più cosa pensare. Si spogliò, fece il bagno nella propria acqua e annegò.

(Il Piave on line, Conegliano Veneto 16 ottobre 2009)


A L A P A

(L O S C H I A F F O)

[Racconto di Nerio de Carlo]

Erano i primi giorni di giugno. Il fiume era morto nel suo letto a causa della siccità. Le rane gracidavano le preghiere funebri.
La città, come la maggior parte delle località montane, viveva in una quotidianità difficilmente modificabile. L’unico diversivo era offerto da un’artificiale ricostruzione di eventi rievocanti un’antichità, cui la zona avrebbe fatto parte un tempo. Parte della popolazione si era mascherata da antichi romani. Molti non avevano una coscienza e l’affittavano dalla scuola ostentando il colpevole piacere della soggezione. A nulla erano valse le indicazioni della stampa, secondo le quali tutto era storicamente infondato. Una importante banca aveva perfino contribuito a sopportare i costi della rievocazione. Non mancavano, tuttavia, quanti sostenevano che il carnevale fosse passato da tempo e che non fosse il caso di usare in tal modo i soldi dei risparmiatori.

Tra le figure più stravaganti appariva il cittadino Marco Lucio Verazio, il quale sosteneva di essere un discendente di un Marcius Lucilius Veratius effettivamente esistito a Roma verso l’anno 89 a.C.-
Per capire chi fosse l’antico, iracondo personaggio è necessaria una premessa. Si prova sollievo quando si fa una cosa desiderata da tempo. Si pensi, per esempio, a levarsi un sassolino dalla scarpa, anzi dalla crepida, come allora si diceva in latino!

Veratius aveva un singolare modo per togliersi una soddisfazione: dava pubblicamente alapae, cioè schiaffi, a quanti non gli piacevano. La ricreazione non era tuttavia consentita dalle norme, che oggi si chiamerebbero “codice penale”. Si trattava di una “inuria” bella e buona, cioè di un torto conciliabile con il pagamento di venticinque assi. Più un peccato che un reato. Se a quel tempo fossero esistiti i confessionali, la penitenza sarebbe stata di un paio di giaculatorie al dio Mercurio.
Anche qui bisogna fare una premessa. L’asse era una valuta romana di bronzo che verso l’anno 286 a.C. pesava circa 163 grammi. Nemmeno venti anni più tardi il suo peso era di soli 54 grammi. Ai tempi di Veratius doveva aggirarsi sui 13 grammi, un valore esiguo, equivalente forse a un odierno centesimo. Lo schiaffeggiatore si faceva sempre accompagnare da uno schiavo con un certo numero di bustine contenenti 25 centesimi da consegnarsi all’offeso. Tutto finiva.

Anche Marco Lucio Verazio imitava sia l’abbigliamento sia il comportamento del suo antenato nei primi giorni di giugno. Le bustine con i centesimi non erano più portate da uno schiavo, s’intende. I tempi erano cambiati e c’era una “badante” vestita da schiava, come si usa dire.- Non era necessario che qualcuno gli avesse detto o fatto qualcosa: gli piaceva anche schiaffeggiare a caso, tanto gli costava poco!
A qualcuno la circostanza non piaceva, ma non c’era nulla da fare: questa era l’usanza. Sarebbe stato possibile, coerente e corretto contestare una consuetudine codificata dalla storia?- Giammai!- David Hume aveva sostenuto:”Ci sono argomenti che non ammettono alcuna confutazione, ma non suscitano alcuna convinzione”. Dunque o si è antichi romani, o non si è, perbacco!- Sarebbe troppo comodo fregiarsi di baldanza capitolina quando fa comodo, e poi disconoscere e criticare condotte di quella civiltà, quando ciò risulta sconveniente.
Del problema fu investita l’Amministrazione Pubblica. Fu accertato che il comportamento in questione era stato considerato un problema già nell’antichità. Si ricorse allora alla più efficace delle soluzioni: un forte aumento dell’ammenda per “inuria”.

Così fu fatto anche nella nostra città montana per evitare, o almeno diminuire, le annuali intemperanze di Verazio e di quanti avrebbero voluto imitarlo. In teoria sarebbe stato in realtà possibile permettersi qualche soddisfazione, ma a caro prezzo. Meglio quindi limitarsi a peccare con il pensiero, lasciando perdere opere e omissioni. Tra quest’ultime avrebbe presto figurato anche il ritiro del contributo bancario.


(Pubblicato dal mensile “Il DIALOGO”, Oderzo luglio 2010, pag.17)
(Pubblicato dal mensile “IL PIAVE”, Conegliano agosto settembre 2010)


L E Z A N Z A R E

(Racconto di Nerio de Carlo)

Questa storia non andrebbe letta da soli. Bisognerebbe raccontarla agli amici, adolescenti e forestieri accanto a un fuoco acceso E’ un mondo perduto. Le sue parole sono state portate via dalla bora, ma potrebbero ancora transitare da bocca a bocca come le fiabe di una volta.

L’utilità delle zanzare non è stata mai chiarita. Eppure, se esistono, una funzione devono pure averla.
Non può certo trattarsi della puntura che trasmette all’uomo il parassita della malaria, il quale compie appunto nel corpo degli anofeli buona parte del proprio sviluppo. Non può nemmeno dipendere dal fatto che si senta talvolta l’insistenza di uno sguardo certamente attribuibile a una zanzara che ci fissa dal paralume.
Ohibò, le zanzare. Il molesto ronzio delle zanzare corrisponde alla nota “fa” nella scala musicale, ma nella versione in falsetto. Esso è particolarmente fastidioso di notte. Proprio nel buio matura la convinzione che bisogna difendere tutti gli animali, meno le zanzare. Bisogna infatti pur salvarsi la pelle! È quindi legittima difesa eliminarne il più possibile. Meno male che dopo le varie punture anche le zanzare, nel loro piccolo, si addormentano.
Il Comune aveva deciso di ridurre la molestia delle zanzare incentivando la loro cattura. Per evitare ulteriori spese di consulenza sarebbero state ritenute valide le indicazioni del bando già in atto contro le mosche, emesso da un’altra Amministrazione Comunale.


La nostra città aveva il più importante, anzi l’unico, istituto scolastico della zona. C’era perfino un museo e di storia naturale con un’enorme collezione di reperti, animali impagliati, rettili in formalina, conchiglie, farfalle e insetti di ogni genere. Tra quest’ultimi c’erano anche le zanzare!-
Il professore di scienze naturali ripeteva spesso che studiare la natura non significava fabbricare spilli per infilzare gli insetti. E questa fu per molti studenti l’unica lezione rimasta impressa nella mente per tutta la vita.
Oltre al museo c’era anche l’aula di fisica. Il locale aveva i banchi, compreso quello cosiddetto degli “asini”, su ampi gradini. Anche chi occupava l’ultimo posto poteva seguire gli esperimenti. Per la verità si andava raramente nell’aula di fisica. I ragazzi dell’ultimo anno avrebbero tuttavia potuto accedervi per verificare qualche nozione appresa nell’altra aula sotto la torre dell’istituto, dove la stufa non veniva peraltro mai accesa sebbene gli inverni fossero molto rigidi.-
Durante uno di questi accessi due giovani stabilirono di scoprire un rimedio per eliminare finalmente le zanzare dalla terra. Non ci sarebbe stato nulla di male. Che cosa sarebbe mai, infine, la sparizione di un insetto dalla faccia della terra?- D’altronde, a pensarci bene, anche le pulci erano ormai praticamente sparite dall’ecosistema e nessuno ne rimpiangeva l’esistenza. Si può dire la stessa cosa per le piatte e sottili cimici e per i cervi volanti dalle grandi mandibole.

Le prospettive non sembravano negative. Era questione di applicarsi e di insistere.- C’erano però anche motivazioni in contrario. I fabbricanti di insetticidi e di prodotti repellenti contro le zanzare avrebbero dovuto ridurre la loro produzione. Ne sarebbe conseguita una certa disoccupazione nel settore. Anche gli ingegnosi adesivi da appendere al soffitto, inizialmente pensati per invischiare le mosche ma rivelatisi efficaci anche per impaniare le zanzare, avrebbero subito una contrazione delle vendite. Era successo così anche per i recipienti pigliamosche di vetro con l’aceto nel fondo, diventati ormai reperti da museo. Poche storie: si poteva fare.
La remora maggiore era costituita dai pipistrelli. A quel tempo ce n’erano moltissimi quando Venere diventava un puntino lucente fermo nel buio. Preferivano un tratto di riva dove le fronde dei salici piangenti, che non sono alberi tristi, scendono come trecce delle fate nel fiume, del quale i ragazzi del paese erano peraltro per gioco affluenti minori...- Quel luogo era perfetto anche per capire che gli alberi devono essere le creature più pazienti del mondo proprio perché non sanno nulla della pazienza.
I pipistrelli sono chirotteri notturni, la cui membrana alare alle estremità è senso del tatto. Essi sono insettivori con una particolare predilezione per le zanzare. La sparizione di queste ultime avrebbe significato una turbativa nella catena alimentare di quei mammiferi e con loro una autentica dimensione del buio: più complicità e molti segreti da raccontare. Non sarebbe stato tuttavia un motivo sufficiente per interrompere gli esperimenti.

Anche le rane e i rospi erano ghiotti di zanzare. Ce n’era da per tutto allora. Un luogo particolarmente frequentato era una pozzanghera nei pressi del ponte, vicina alle viti di Raboso il Magnifico. La piccola vigna produceva un vino che diventava rosso di gelosia soltanto se accostato nel primo giorno di primavera alle labbra di una ragazza che abitava non lontano. Di notte era corale il rosario delle rane.
La rana è un anfibio anuro, cioè senza coda, la cui specie più comune ha la pelle verde punteggiata di giallastro. Le zampe sono palmate e atte al salto e al nuoto. Si sviluppa per metamorfosi dal girino. Corre non pochi pericoli per la sua commestibilità.
Per i rospi era diverso. Hanno il corpo coperto da bitorzoli e secernono un umore di odore sgradevole. Non sono ricercati come le rane. Più silenziosi, sembravano piuttosto consci che loro, se dovesse andare proprio male, potrebbero diventare principi secondo l’antica favola.

Tutte queste considerazioni non interruppero gli esperimenti che promettevano ottimi risultati. Era quindi ragionevole prevedere che le zanzare sarebbe state sterminate e pipistrelli, rane e rospi sarebbero quindi scomparsi entro breve tempo. Qualche esemplare miracolosamente sopravvissuto sarebbe stato visto come una rarità.
I due giovani non erano comunque certi che la loro scoperta, benché inizialmente redditizia dal punto di vista commerciale, sarebbe diventata, a lungo andare, un vero vantaggio per la società. L’imprevisto è sempre in agguato.- Prima di divulgare, pubblicizzare e industrializzare la loro scoperta intesa ad eliminare le zanzare dall’ambiente, essi si adoperarono per raccogliere uova di zanzara da congelare in apposite provette e conservare per futuri impieghi. Per quanto poco ognuno abbia impiegato il suo tempo a raccogliere uova di zanzara, sa bene che un’attività del genere non è cosa da poco.
L’impresa riuscì comunque e un giorno potrebbe rivelarsi anche sfruttabile commercialmente. Non è infatti escluso che, dopo un congruo periodo di prova senza zanzare, si senta la necessità di scegliere il male minore e riequilibrare l'ecosistema con una loro massiccia reintroduzione.

(Mensile "IL DIALOGO", Oderzo, gennaio 2011)

MICROFAVOLA (*)

Il Re degli Elfi era un nano e aveva circa trecento anni di età.
Un giorno comperò una livrea usata al mercato del mercoledì. L’abito era di broccato cremisi, aveva ampie maniche con polsini provvisti di bottoni dorati ed era costato parecchio: un vero lusso.

Un pomeriggio il Re passeggiava nel bosco della Vizza e una farfalla Asòpia si introdusse nella manica della sua marsina nuova. Subito dopo vi entrò anche un ragno Falangio. Il Re abbottonò in fretta la manica e verso sera radunò la sua corte elfica presso una pianta di lavanda dai fiori che assomigliavano ad api blu pronte a volar via se qualcuno le disturbava.

“Sapete che cosa ho io nella manica?”, chiese il Re ansioso di mostrare la costosa marsina ai cortigiani.
Si fece avanti un Elfo sui trecentoventi anni di età, che per caso si chiamava Falangio e aveva, sempre per caso, una moglie di nome Asòpia, il quale disse:”Sarebbe una storia troppo lunga da raccontare ora, ma io sono un esperto di come uno nella vita si possa trovare imbrogliato suo malgrado



(*) Ascoltata nell’inverno del 1950 nella stalla di Basalghelle.

(PUBBLICATO DA "IL DIALOGO", Oderzo, giugno 2011)



I L G O N G O R Z O

Il viaggio era incominciato male.
Il biglietto ferroviario mi era stato donato e doveva essere utilizzato entro il mese. Il controllore disse che il documento non era valido, perché rilasciato per due persone e il secondo viaggiatore mancava. Bisognava pagare la multa e munirsi di un altro biglietto con relativa maggiorazione di prezzo. Rifiutai di sottostare all’intimazione, costasse anche un occhio della testa. Tanto io non appartenevo alla famiglia Polifemo!
Gli altri viaggiatori nello scompartimento parlavano ad alta voce al cellulare. Una novità rispetto al passato. Prima dell’invenzione del telefono cellulare la principale occupazione era infatti quella di mangiare in continuazione durante il tragitto. Sembrava ora impossibile che, in un’altra parte del mondo, ci fosse tanta gente in ascolto e quindi senza far niente. Il sospetto era giustificato. Altrimenti come si potrebbe spiegare che le loro ricariche durino per ore, mentre le nostre schede si esauriscono in fretta? Come mai le loro batterie non si consumano mai? L’impressione che si tratti di conversazioni fittizie sarebbe sostenuta dal fatto che poche disponibilità economiche potrebbero sopportare tariffe tanto costose per interminabili collegamenti dove si parla senza dir nulla.
In qualche libro sarebbe scritto “beati i poveri in spirito perché non hanno il telefonino”, o qualcosa di simile. Forse alcuni non comunicavano veramente in treno. Altri sembravano, invece, parlare da soli come gli stolti. In realtà avevano l’auricolare, ma anche in questo caso non era certo che esistesse un interlocutore. Quando l’abitudine al soliloquio si ripete e perdura, induce quasi inevitabilmente a parlare da soli con qualche tendenza all’esagerazione!
Io non possedevo il telefono cellulare. Avevo indossato solo il mio spirito e mi sentivo libero. Il telefono toglie infatti la buccia naturale alle parole. Più che uno strumento di comunicazione esso è, infatti, una estensione del soggetto, un’appendice inseparabile dell’io. Più che una cosa, meno che una persona!
Durante il viaggio pensavo che nel mondo fosse in corso una metamorfosi. Già nel mito esistevano esseri ibridi: unicorni, centauri, chimere, ippogrifi, sirene…- A proposito di sirene, si trattava di donne o pesci? Pesci, naturalmente. L’altra sembianza sarebbe stata puro mimetismo animale. Ebbene, anche adesso si tenderebbe a diventare più animali e meno umani. Parlare da soli è poi simile a svegliarsi trasformati in scarafaggi, come è successo al mio amico Gregor Samsa.

È incredibile quanto si venga a sapere del prossimo, quando si ascoltano i telefonisti e i telefonati del cellulare, soggetto e oggetto di molte esistenze. Per molti corrisponde alla necessità di dare una visione di sé diversa dalla realtà. Anche l’impostazione e il tono della voce sono particolari in questo genere di comunicazione.

Un personaggio con le palpebre a mezz’asta e il naso tendente al convesso sedeva proprio di fronte a me e descriveva apparentemente a qualcuno le tappe della sua carriera burocratica.Era stato impiegato fuori ruolo per anni, come allora si diceva. Poi, finalmente, il tanto agognato posto fisso nella categoria d’ordine, mentre i suoi studi avrebbero meritato almeno quella di concetto, perbacco!
Per un avanzamento c’erano scarse speranze e tutte rigorosamente contromano, perché l’Ente Pubblico pretendeva il superamento di un concorso, denominato abitualmente “gongorzo”, da effettuarsi nella Capitale tra i dipendenti delle varie sedi. Soltanto pochi raccomandati dalla speranza geograficamente riservata avevano fortuna. Si può dire che tutti i posti fossero capillarmente prenotati. Un bravo giovane della zona sarebbe stato praticamente escluso da ogni lusinga. Era meglio rinunciare alla prova se si voleva evitare la patente di asino, integrata dalla prospettiva di eccedere intanto in età e di essere accolti con una inespressa ma evidente pernacchia dei colleghi sempre puntata alla tempia.

Un giorno sarebbe giunta al personaggio una imprevista telefonata di un Ispettore Generale Regionale che lo conosceva: Così si comprendeva dalla conversazione telefonica ad alta voce.

“Immagino che Lei partecipi al gongorzo. Anche mia figlia lo farà. Poiché i nostri cognomi hanno la stessa iniziale, le prove dovrebbero avere luogo nella stessa data. Ci sono due sessioni, ma suggerirei quella all’inizio di novembre per avere l’aiuto di tutti i Santi. Non si sa mai. Sarei quindi lieto se faceste il viaggio insieme e la mia figlia non fosse sola in quei giorni”.

La risposta fu inevitabilmente positiva. Ci mancherebbe altro.

Ci incontrammo alla stazione. Sia detto con verecondia lessicale, ma lei era una specie di bambinona fossile con la pelle che tremava sotto le lentiggini.
Durante il viaggio parlammo del più e del meno. Una cosa rimaneva tuttavia fissata nella mia mente: taluni sono talmente beneficiati dalle formiche che poi possono tranquillamente permettersi di proseguire con le cicale.
Alla sera facemmo una passeggiata lassativa tra le bellezze della Capitale. Accadde allora ciò che non avrebbe mai dovuto succedere. Mi sfuggì un pensiero ad alta voce:”Oh, che pena essere qui con Te…!”- Una cosa del genere non dovrebbe essere ammissibile per un uomo per bene, nemmeno se la donna che gli sta accanto assomigliasse a una meridiana in ombra o a un ventaglio d’autunno. Concordammo di incontrarci il giorno seguente abbastanza presto perché lei doveva assolutamente portare i saluti del padre al Direttore Generale dell’Ente. Tutto comprensibile e normale: i funzionari si conoscevano da tempo ed entrambi avevano fatto molta carriera.
Io rimasi nella sala d’attesa, la cui finestra formava la figura del rettangolo e dello sguardo. L’odore era simile a quello di un negozio di calzature. Per puro caso il mio pensiero andava ai poveri che vincono la lotteria. Non diventano mica ricchi! Rimangono poveri che hanno vinto una lotteria. Al massimo possono trasformarsi da formiche in cicale.
Dopo il colloquio il Direttore Generale riaccompagnò la collega e lei mi presentò dicendo il mio nome. Parole di circostanza e null’altro. Poi il Direttore chiese:
“Come ha detto che si chiama, giovanotto? Dopo le presentazioni dimentico spesso i nomi, perbacco”.
Ripetei automaticamente il mio nome e ce ne andammo.
Il giorno seguente ci fu la prova scritta del “gongorzo” in un palazzo chiamato Ministero dell’Inferno. A differenza della sessione estiva, quella dopo il giorno di Ognissanti non registrò un numero elevato di partecipanti. La correzione degli elaborati fu effettuata con insolita sollecitudine. Già nella stessa sera fu affissa la lista degli ammessi all’orale con i relativi voti. Noi due eravamo andati bene e fu subito gioia. Anche se all’esame orale previsto per il giorno successivo avessimo raggiunto una semplice sufficienza, c’erano ragionevoli speranze per una media onorevole.
Sembrava incredibile, ma proprio noi due risultavamo tra i primi in graduatoria del gongorzo! Un vero miracolo. Un risultato a lungo sperato e sognato, ma sempre deluso in precedenza. Un avanzamento economico di tutto rispetto, ma nessuna maturazione o capacità aggiuntiva.

Il personaggio scese dal treno continuando il suo racconto. Descrisse forse anche la faccia dei colleghi alla notizia, facilmente immaginabile e comparabile. A me non rimaneva altro che riflettere. Il telefono portatile assomiglia ormai alle cosiddette “vacanze forzate” e al delirio che le accompagna. L’uno e le altre non appartengono all’azione personale, bensì alla comunicazione collettiva. In siffatta condizione non contano i contenuti, ma solo l’ebbrezza di sembrare partecipi di qualcosa che non vale nulla e magari ci è del tutto estranea. La possibilità di azione è paralizzata e altrettanto succede alla possibilità di elaborare psicologicamente ciò che si è vissuto. Il viaggio è ormai superato dal turismo: si vede tutto, ma non si assimila nulla. Il colloquio è sostituito dal telefono cellulare: si dice di tutto ma non rimane nulla. L’esperienza svanisce. Mancano sia il vivere che il rivivere, sia la riflessione che il significato. Per non parlare dell’individuazione di un tragitto o di un orientamento. Un gongorzo, insomma.
(Pubblicato dal DIALOGO, Oderzo, novembre 2011)

LA SCUOLA DELLE CAPINERE

Racconto per ignoranti
di Nerio de Carlo


“Ai miei superiori didattici,
con rispetto parlando”.


In paese c’erano tre scuole: per i ragazzi, per i pesci e per le capinere.
La prima era una casetta gialla senza pretese, costruita ai tempi dell’Impero con una sola aula per tre classi elementari incluso il cosiddetto banco degli asini. La seconda si trovava nel fiume vicino al ponte e ai salici piangenti dove le libellule sbocciano in primavera. La terza era nel bosco della Vizza, dove le foglie sono appese tra noi e il sole dondolando come teste di bambini che dicono NO.

Nella scuola elementare non si insegnava praticamente nulla, tranne la glorificazione del nuovo Regime che aveva, tra l’altro, proibito ai giovani locali preparati e diligenti di diventare insegnanti. I posti erano riservati ad altri e i maestri locali cercavano altre professioni o emigravano. Le lezioni insistevano contro il ricongiungimento con il passato sgradito al potere. In prospettiva gli Istituti Magistrali sarebbero stati chiusi. Il colmo della cultura da insegnare alla gioventù fu raggiunto quando si sostenne che Beatrice era apparsa a Dante vestita di verde, bianco e rosso. Non si trattava affatto dei simboli delle tre Virtù Teologali, come si sapeva da sempre, ma dei colori di uno Stato ancora non configurabile alla fine del XIII secolo! La chiesa e l’osteria, sempre attente a quanto accadeva in paese, erano attigue l’una all’altra ma non si accorsero di nulla. Solo la pecora effigiata nello stendardo del Comune si era innervosita un poco, ma nulla cambiò. I cittadini avrebbero pagato le tasse per servizi che non avrebbero ricevuto.
Nella scuola dei pesci era diverso. Il decreto sull’interdizione dell’insegnamento agli insegnanti locali valeva sempre, ma la sua applicazione sotto acqua era difficile. Così anguille, carpe, lucci, pesci gatto e quant’altro avevano appreso importanti nozioni di vita oltre alla realtà che i pesci grandi mangiano i pesci piccoli. Avevano imparato che Dio è come un mare di cui le creature, soprattutto i pesci, sono le onde. Non è il caso di preoccuparsi se non si comprendono alcune cose fuori dalla normale capacità di percezione. I pesci sanno e chiedono forse che cosa sia il mare?

Per la scuola delle capinere era diverso. Vi erano ammessi anche i fringuelli, che in definitiva non sono altro che passeri con i gradi da caporale sulle alucce.

Un giorno giunse un uccello della famiglia dei rampicanti, dal becco dolcemente curvo, i piedi corti, gialli, col dito esterno versatile, le ali strette, acute, la coda cuneiforme e la voce sonora di due soli suoni. Accennava a improbabili discendenze storiche e disse:”Io sono il cuculo e tra poco vedrete che cosa sono capace di fare”.
Non poche capinere, specialmente quelle bruttine, trascurate, indiscutibilmente fuori garanzia per l’età e solo tendenzialmente femminili, si dimostrarono subito incantate dal nuovo venuto. Pur non appartenendo alla famiglia delle oche, esse avevano l’illusione di trovare finalmente un compagno seppur poco raccomandabile e parecchio parassita.
Il campione proveniva da lontano e più precisamente dal Passo del Lume Spento, che doveva trovarsi da qualche parte tra il mare e una nota zona vinicola da dove era opportuno migrare verso territori meno accorti. I risultati furono presto evidenti perché erano comparse nei nidi strane uova. Le capinere erano tuttavia troppo stupide per non accorgersi che qualcosa non andava.
L’anno seguente c’erano molti cuculi e pochissime capinere nel bosco della Vizza. I piccoli di quest’ultime chiedevano informazioni sulle modalità della loro nascita, ma ricevevano come risposta allusioni a piante, in prevalenza cavoli, o a altri uccelli, di solito cicogne bianche o nere dal becco lungo, acuto, rosso. Nessun accenno alla verità. Anche il caratteristico canto delle capinere era cambiato e sembrava piuttosto una canzone crepuscolare del Mar Morto. I pulcini erano troppo pochi per formare una classe e il maestro dal viso tendente al convesso fu licenziato, come volevasi dimostrare. Questi volle tuttavia lasciare un ultimo insegnamento, diverso dalla solita lezione lassativa. Come i pesci, pur nuotando nell’acqua, non sanno che cosa sia il fiume, anche gli uccelli, pur volando nell’aria, non sanno che cosa siano la volta celeste e le nuvole, le quali sono fatte rotolare da una mano grande come il cielo e stanno bene dove non sono . Ecco: le nuvole, i laghi del’etere, si trovano nel cielo e sono il cielo. Esse sono una eternità sempre mobile della loro e della nostra formazione nonché del loro e del nostro scioglimento.

Nel giorno di Tutti i Santi (me compreso) una civetta sapiente mimetizzata nel fogliame perché non si è mai prudenti abbastanza, fata custode della Vizza, raccontò una favola del mito tanto nota quanto evitata nella sua conclusione.



Vicino al bosco della Vizza c’era una volta un piccolo regno abitato dalle tortore. Il nibbio, uccello rapace dal becco senza dente che piomba sulla preda dall’alto, costituiva un serio pericolo per le tortore. Queste riuscivano tuttavia a sfuggire al nibbio grazie alla velocità delle loro ali lunghe e aguzze.



Un giorno il nibbio disse alle tortore:
”Perché trascorrere tutta la vita nell’ansia? Se mi fate vostro re, vi proteggerò da ogni malanno”.
Le sciocchine gli prestarono fede e il rapace, preso possesso del regno, cominciò a mangiarsele una a una e a esercitare il potere con artigli crudeli.
Una delle tortore sopravvissute disse:
”Ben ci sta se siamo punite”.
(Pubblicato dal DIALOGO - Oderzo - , novembre 2011)

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