Tuesday, June 27, 2006

Storia

STORIA


CAMILLO DE CARLO, 007 A NORDEST

E’ possibile ricostruire l’attività informativa o spionistica, secondo i punti di vista, di Camillo De Carlo, consultando le sue memorie. La sua presenza a Tetuan (Marocco) fin dal 1939 accenna all’intenzione dell’Italia a partecipare alla seconda guerra mondiale circa sei mesi dopo. Le informazioni riguardavano sia l’esercito francese, già alleato prezioso durante la Grande Guerra, sia la flotta navale inglese che sarebbero diventati gli avversari futuri. -
Le fonti erano costituite da pescatori attivi nello stretto di Gibilterra. Tutto veniva comunicato all’ Ambasciata italiana di Madrid, la quale era incaricata di informare Roma. De Carlo fu capo del Servizio Italiano Militare fino al marzo 1942 e si conoscono anche i nomi dei suoi cinque collaboratori. -
L’attività si intensificò successivamente in Spagna, dove operava il servizio informazioni tedesco. I nomi e i profili dei vari componenti costituiscono un mosaico di personaggi operanti nell’ombra, ma determinanti per le sorti della guerra. Sorprendente risulta il comportamento dei corrieri diplomatici spagnoli, distratti mentre le informazioni uscivano dalle loro valigie e attenti mentre riscuotevano i relativi compensi. Interessante appare, inoltre, la descrizione dell’ Ammiraglio tedesco Canaris, incontrato a Madrid nel 1941.
Il 18 agosto 1943 De Carlo ritornò a Roma. C’era già stato il 25 luglio con la deposizione di Mussolini e il contestuale subentro di Badoglio. La situazione doveva essere molto incerta e fluida. L’armistizio dell’8 settembre era alle porte. C’ erano in verità informazioni che lo prevedevano per il 7 settembre. Lo testimonia la bozza dei provvedimenti che il Consiglio dei Ministri avrebbe adottato nella seduta del 9 settembre, per la quale non ci sarebbe stato il tempo materiale se la data fosse stata quella ufficiale! Come si può comprendere, la gestione dell’alleanza con la Germania diventava sempre più difficile. “La guerra per noi continua nello spirito dell’alleanza”, aveva telegrafato personalmente Badoglio a Hitler confermando la precedente decisione adottata dopo la caduta di Mussolini. Era tuttavia impossibile che i tedeschi credessero alla “parola data”. Anche De Carlo non era all’inizio favorevole ad un voltafaccia. Fu Mario Badoglio, figlio del presidente del Consiglio, a tentare una convinzione con sottigliezze verbali. “Solo l’onore fascista e non quello italiano è impegnato con la Germania”, si legge nelle memorie citate in premessa. Non è lecito sapere quali dimensioni avessero i due generi di “onore” e quale prevalesse sull’altro. C’è da giurare però che, se la Germania avesse vinto la guerra, ogni distinzione tra i due “onori” sarebbe sparita per lasciare il posto alla comune vittoria. A pensar male si commette peccato, ma s’indovina, è stato autorevolmente sostenuto. Camillo De Carlo aveva il grado di Maggiore per le forze armate tedesche, come risulta da un’importante onorificenza militare germanica conferitagli il 5 giugno 1939.
Egli era, inoltre, un conoscitore d’ arte in grado di scegliere un dipinto di pregio da donare personalmente all’Ammiraglio Canaris. Il gesto doveva significare stima e vicinanza per gli alleati tedeschi, prima che questi fossero improvvisamente dichiarati nemici dopo l’imminente armistizio e, soprattutto, con la successiva dichiarazione di guerra. Come la dicotomia Fascismo – Italia aveva fatto breccia in lui, egli tentò di far valere con i Tedeschi la diversità tra Nazismo ed Esercito, ma ottenne l’avvertimento che la mancata osservanza dei patti avrebbe avuto gravi conseguenze. Per la cronaca, il famoso quadro non fu recapitato a Canaris com’era stato promesso, in quanto l’annuncio dell’armistizio sconsigliò un viaggio in Germania, come si può facilmente comprendere. Anche un incontro di De Carlo con il Feldmaresciallo Erwin Rommel a Garda, inteso a rassicurare la fedeltà italiana nonostante le novità politiche, andò a vuoto. Tanto, la Volpe del deserto non ci avrebbe comunque creduto!
Dopo un giorno di permanenza a Vittorio Veneto, il viaggio di De Carlo ebbe luogo, ma la destinazione era cambiata.- “A Roma seppi che il Re e Badoglio si erano allontanati”, si legge nelle memorie. Non viene usato il termine “scappati” mentre la città veniva bombardata.
Seguirono alcune prudenze, come il pernottamento presso la contessa Falzacappa (non amata suocera di Camilla, sorella di Camillo) anziché nel lussuoso hotel romano Excelsior. Il tutto si concluse poi con il trasferimento a Ussita (Macerata) per seguire il Re e Badoglio. De Carlo sarebbe ritornato a Vittorio Veneto nel giugno del 1945 con il grado di Tenente Colonnello.-


(Il Piave, mensile, Conegliano Veneto)



LA PACE IMPOSSIBILE DI CARLO I D’ ABSBURGO
di Romana de Carli Szabados


PREFAZIONE di Nerio De Carlo


Scrivere è un dono doloroso. La scrittura ha il diritto di scegliere e perfino di sbagliare. Scrivere sul mito asburgico è stato a lungo rischioso. Dopo autorevoli precedenti letterari la censura non esisterebbe più: c’ è solo una serie di paletti per recintare la crescita culturale. Si potrebbe maliziosamente sospettare che si temano i confronti. Comprendiamo.
Compito della scrittura è di fare luce dove c’ è buio. Si scrive anche per capire perché si scrive. Questo libro ne è una dimostrazione. Carlo I d’ Asburgo, ultimo Imperatore della Casa d’ Austria, viene presentato, nell’ agile prosa dell’ autrice, circondato dagli avvenimenti del proprio tempo e della propria dinastia. Geniale e originale risulta l’ accostamento del suo destino con quello dell’ omonimo avo Carlo V. Interessante emerge poi la figura dell’ Imperatrice Zita, tenace compagna e lucida consigliera per dieci anni fino alla morte del monarca. In sintonia con attuali vicende europee non esenti da preoccupazione, appare inoltre la citazione nel libro stesso della lettera del 16 ottobre 1914. Alla fine della missiva è infatti espressa una visione profetica circa le conseguenze che anche i vincitori subiranno dal successo. Sarebbe il caso di meditare.
Particolare rilievo assume nell’ opera il costante desiderio di pace radicato nella persona di Carlo I, evidenziato dall’ autrice con una prosa di cui soltanto una donna è capace. Ciò non può essere disgiunto dal fatto che nel 2004 i popoli dell’ Impero Asburgico abbiano trovato una nuova forma di convivenza. Viene così realizzato l’ ultimo proposito del morente Imperatore di soffrire, affinché i suoi popoli si riuniscano, anche se l’ Europa è una pallida madre che non ci fa sognare.
Il messaggio di questo libro è che la Mitteleuropea rappresenta un deposito di esperienze dimenticato, anzi negato, che è il caso di riscoprire e rivalutare. Vienna rimane, inoltre, la leggenda e il cuore d’ Europa, ultimo sogno.
Romana de Carli Szabados ha voluto, come in altre sue opere provviste di scelta iconografia ed affinità elettive, celebrare il sole degli Asburgo che, nonostante tutto, fu comunque un sole. Il passato non passa invano. Qualcosa rimane. Un buon autore deve infine sempre disturbare.


POSTFAZIONE di Nerio De Carlo


Scrive Romana de Carli Szabados nel suo libro su Carlo I d’ Asburgo: “Quel Lenin aveva dato l’ ordine dell’ azione e conquistato il potere intero al rientro dall’ esilio, mobilitando i suoi fedeli e, cosa strana, senza l’ appoggio della folla, ma con un manipolo di professionisti abili quasi quanto lui”.
Non è un’ osservazione da poco. Era l’ autunno del 1917 e la rivoluzione russa aveva paralizzato l’ esercito sovietico, determinando la successiva pace di Brest-Litovsk sul fronte orientale.

Gli Atti del Processo di Beatificazione di Carlo I d’ Asburgo si occupano autorevolmente anche di quell’ importante contesto. Si scoprono puntualizzazioni inedite che, per la prima volta, trovano pubblico riscontro in queste righe. La documentazione Summ. Test , pag. 221 – 222, prodotta dalla figlia minore dell’ Imperatore Elisabeth Charlotte, informa testualmente: “Il Governo tedesco aveva escogitato un piano per far cadere sia la Russia sia l’ Italia: taluni esponenti di spicco, che si trovavano in esilio, dovevano essere infiltrati in Russia e in Italia mediante un treno speciale. Se non erro, per la Russia si trattava di Lenin e di Trotzki. Non ricordo più chi fosse destinato all’ Italia. In ogni caso essi dovevano suscitare la rivoluzione nel loro paese. In tale maniera i fronti sarebbero crollati di per se stessi. Il Servo di Dio si oppose energicamente per due ragioni: in primo luogo perché il Comunismo era nemico della Religione; secondariamente però anche per saggezza, poiché un’ ideologia politica non si arresta ai confini. Questo rifiuto di mio padre ha determinato che nessun comunista potesse essere contrabbandato in Italia. Il fatto tuttavia che la Germania sia riuscita a introdurre segretamente Lenin in Russia, non rientra nelle responsabilità dell’ Austria”.

Non si tratta di una nota qualsiasi, bensì di una testimonianza che integra nientemeno che gli Atti del Processo di Beatificazione e che trova puntuali riscontri storici. Il fatto poi che la stampa non voglia prenderne atto, rende la questione ancora più interessante. “Non giocare col fuoco” fu d’ altronde il consiglio di Giove a Prometeo! Il famoso treno speciale fu infatti usato e i professionisti non mancavano di certo. Le conseguenze moscovite sono ben note.
Gli accorti lettori potranno interrogarsi o immaginare, forse con scarsa educazione coloniale, che cosa sarebbe accaduto se la rivoluzione fosse scoppiata anche in Italia. Per fare ciò essi dovrebbero chiedersi se l’ ambiente fosse stato favorevole e maturo per tale sovvertimento. Nessuno ignora che nel 1917 ci siano state la disfatta di Caporetto, le numerose diserzioni e decimazioni di militari, l’ occupazione di oltre 12.000 chilometri quadrati, le uccisioni di funzionari di Polizia e di ufficiali, le sollevazioni operaie di Torino e altrove, la consegna della sciabola agli insorti da parte di un Generale…- Presso la Casa Reale italiana, poiché la Regina era contigua alla Casa Imperiale russa, si sapeva della tragica fine dei Romanov.
E’ forse il caso di rivedere certi segmenti storici inculcatici e di ammettere che taluni esiti hanno avuto motivazioni finora tenute nascoste. Per addolcire la pillola si potrebbe, magari, fare ricorso al volere divino affinché le cose andassero come sono andate. In ogni caso sarebbe come aver faticosamente salito una scalinata sulle ginocchia (ve n’è una a Roma!) e tentare ora di scendere alla stessa maniera.


(Edizioni Goliardiche, Trieste - Sede editoriale Bagnarla Arsa (UD).



L A L E G G E N D A D E L S A N T O I M P E R A T O R E

Quando il 41° Quaderno del Lombardo-Veneto informò nel 1995 che Carlo I d’Asburgo poteva essere proclamato Beato, quasi nessuno ci fece caso e soltanto i conoscitori della storia lo ritennero possibile.
Giunge ora la notizia che l’ultimo Imperatore d’Austria sarà beatificato dal Papa il 3 ottobre 2004 per la sua vita e condotta cristiana.
Carlo I era nato nel 1887 e divenne Imperatore alla fine del 1916, quando morì il prozio Francesco Giuseppe. Aveva sposato Zita di Borbone-Parma, dalla quale ebbe otto figli, uno dei quali ancora vivente.
La sua successione al trono potrà sembrare insolita, non essendo Carlo né figlio né nipote dell’Imperatore deceduto. In realtà l’erede al trono Rodolfo era morto all’età di 31 anni a Mayerling, vittima di un omicidio su commissione e non per suicidio, come si volle far credere. Il posto nella dinastia fu occupato dal nipote dell’Imperatore Francesco Ferdinando, ma anche questo morì assassinato nel 1914 a Sarajevo. Suo fratello Otto, pure nipote dell’Imperatore, era morto nel 1905 lasciando due figli: Carlo e Massimiliano. Al primo di questi toccò dunque la successione al trono di Vienna a soli 29 anni di età.
Carlo I era un uomo sensibile e altruista. Durante la Grande Guerra egli non esitò a gettarsi nell’Isonzo in piena per salvare un suo soldato. Durante la ritirata dalla Val d’Astico verso Arsero, l’ufficiale medico riteneva che un milite simulasse un’infermità per non marciare: l’Imperatore in persona volle controllare e concluse che né lui né l’ufficiale avrebbero potuto camminare in quelle condizioni, per cui era necessario il ricovero.
Durante gli inverni 1916 e 1917 egli ordinò che le lussuose carrozze e i famosi cavalli lipizzani di corte fossero adoperati per trasportare carbone per il riscaldamento e i viveri che erano stati recuperati in qualche maniera. Da un raffronto non risulta che altri regnanti si siano comportati allo stesso modo.
Non diverso fu il trattamento dei propri famigliari. La famiglia imperiale doveva consumare le razioni di guerra. Il pane bianco era proibito. L’unico fratello dell’Imperatore aveva 20 anni e cercava di soggiornare a Vienna. Fu costretto invece a recarsi al fronte. Un Arciduca dovette restituire il denaro ricevuto per un proprio brevetto ceduto all’Artiglieria. A un altro Arciduca furono sequestrate le somme guadagnate con la vendita di legumi secchi all’esercito: gli fu attribuita soltanto la modesta retribuzione spettante a un semplice venditore di granaglie sul mercato.
Un contadino galiziano era stato udito pregare per lo Zar di Russia e condannato per alto tradimento. Una ballerina era stata processata per aver risposto male a un ufficiale che l’aveva offesa. Entrambe le sentenze furono annullate per ordine imperiale.
L’Imperatore Carlo I era uomo di grande devozione. Nel suo proclama al momento della successione fu espresso il desiderio di raggiungere la pace prima possibile. Egli avrebbe fatto qualsiasi cosa per il papa, si trattasse pure di andare contro i propri interessi dinastici. A tale proposito desta sospetto il silenzio della trionfalistica propaganda austrofoba nei confronti di Carlo I. Forse l’Italia fu favorita durante il suo regno e tacendo non sarebbero emerse notizie che non si dovevano, e probabilmente non si devono, sapere. Tutto ciò meriterebbe un approfondimento in altra sede.
Dopo la Grande Guerra, i cui veri vincitori furono la fame, la miseria, la rivoluzione e la morte, il trono austro-ungarico crollò. L’Imperatore e la sua famiglia dovettero andare in esilio. Nel 1921, su invito del Papa, Carlo I tentò invano due volte di riconquistare il trono. Morì nell’isola di Madeira a soli 35 anni. I suoi resti non riposano nella Cripta dei Cappuccini a Vienna.
Gli Atti del Processo di Beatificazione dell’ultimo Imperatore della Casa d’Austria contengono molte dimensioni di portata storica degne di grande considerazione. Se nel Veneto esistesse una Stampa degna del nome, questa dovrebbe occuparsene con intelligenza e senza timore per gli aspetti di originalità e verità che ne possono derivare.

(Il Dialogo, mensile, Oderzo. Settembre 2004)


CONTROSTORIA VENETA CON MALIZIA

Il processo a Napoleone, svoltosi nel 2003 a Venezia, si è concluso con una sentenza di condanna.
E’ stato riconosciuto colpevole dell’irruzione nel territorio della detestata neutrale Repubblica di Venezia nel maggio 1796, incurante del fatto che il proprio nonno materno Ramorino fosse originario di Treviso, secondo Chateaubriand.
Altri motivi di condanna furono: 1) il Trattato di Campoformido del 1797; 2) la confisca della flotta della Serenissima; 3) il trafugamento di 40 milioni in monete d’oro presso la zecca di San Marco (un terzo delle quali consegnate alla madre Letizia, che le portò nel romano palazzo Rinuccini); 4) l’asportazione di inestimabili tesori d’arte; 5) la sistematica persecuzione degli oppositori.
Si potrebbe discutere sulla legittimità del suddetto processo. E’ in realtà possibile uccidere un nemico, ma non processarlo. Per farlo bisognerebbe possedere una legittimità che certamente non può derivare dalle vittorie militari.
Supponiamo pure che, per assurdo, il procedimento possa considerarsi giusto. I capi d’accusa avrebbero dovuto essere ben più numerosi. Il primo dei cinque addebiti, il Trattato di Campoformido che il 17 ottobre 1797 attribuì il Veneto all’Austria, non evidenzierebbe tuttavia gli estremi di reato.

L’intera storia veneta, vale a dire il recupero della memoria intera allargata ai capitoli scomodi, si compone di dieci periodi:

1- Dal 12° secolo a.C. al 2° secolo a.C. = periodo paleoveneto integrato dalla presenza celtica,
2- Dal 2° secolo a.C. al 5° secolo d.C. = periodo romano (Regio Venetia et Histria),
3- Dal 6° all’8 secolo d.C. = periodi longobardo e franco (Ducati e Marche),
4- Dal 9° all’11° secolo d.C. = Sacro Romano Impero,
5- Dall’11° al 13° secolo d.C. = Signorie,
6- Dal 14° secolo d.C. al 1796 = Repubblica di Venezia,
7- Dal 1707 al 1805 = Sacro Romano Impero,
8- Dal 1805 al 1813 = effimero Regno Napoleonico,
9- Dal 1814 al 1866 = Impero d’Austria,
10- Dal 1866 = Regno d’Italia.

A prescindere dai punti 1) e 2) in gran parte preistorici e comunque troppo lontani, è dal periodo dei Ducati Longobardi e delle Marche Carolingie che si forma un centrale nucleo storico consistente e omogeneo per il Veneto, destinato a durare ben oltre un millennio e precisamente dal 6° al 19° secolo.
L’epoca da considerare per lo scagionamento di Napoleone a causa di Campoformido comincia in realtà dal 9° e termina nel 19° secolo, anche se la sua omogeneità non è mai stata riconosciuta almeno in Italia. Che cosa avrebbero, infatti, a che fare le Signorie e i Principati, entità locali per definizione, con gli Imperatori? Che cosa c’entrerebbe Venezia, una Repubblica, con l’Impero?
Il filo di Arianna serve per arrivare in fondo al labirinto ma, se il filo fosse una matassa, non si uscirebbe più.
Il Sacro Romano Impero fu fondato da Ottone I di Sassonia nel 962, ma la genesi risale all’incoronazione di Carlo Magno avvenuta 162 anni prima a Roma. La conferma coincide successivamente con la poco nota canonizzazione dello stesso Imperatore in data 25 dicembre 1125 sempre a Roma.
Cominciamo a dire che già nell’anno 805 ben due Dogi veneziani si sono recati ad Aquisgrana per rendere omaggio all’Imperatore Carlo Magno. Ne consegue che, poiché Doge significa Duca, Venezia poteva allora configurarsi come un Ducato soggetto all’Impero, il quale a sua volta si era trasformato da realtà politica monolitica in un aggregato di Stati.
Quanto alle Signorie, affermatesi prima dell’espansione di Venezia nella terraferma, i Principi sia laici (come gli Scaligeri, i Da Camino, i Da Romano, i Carraresi…), sia ecclesiastici (come i Patriarchi, Vescovi, Abati e simili) erano Vassalli diretti dal 1180 e Vicari dell’Imperatore nelle rispettive zone. Taluni territori veneto-friulani, come il Pordenonese per esempio, appartenevano ai territori ereditari asburgici addirittura fin dal XIII secolo e alla Carinzia anche da prima. Essi erano pertanto già Austria ancor prima che questa esistesse come Stato.
Ritorniamo a Venezia, che nel frattempo era cresciuta. Sembrerebbe ormai inverosimile ogni accenno alla sua riduttiva condizione di Ducato. Da sempre un potere, quando si fortifica, tende a cancellare i propri eventuali trascorsi di subalternità. L’operazione non riesce, tuttavia, quasi mai del tutto. Qualche traccia rimane. Si osservi, per esempio, lo stemma di Venezia con l’immancabile leone. Esso è sormontato da una corona “ducale” a cinque punte visibili, costituite da altrettante torri.
Nella chiesa di San Giorgio in Isola, navata laterale, a sinistra entrando, c’è il monumento al Doge Marcantonio Memmo, il quale non aveva ricoperto la carica a lungo. L’iscrizione funebre recita: “Marco Antonio Memmo in regendis populis singolari/ summa urbis Laetitia ad Ducatu Venetiae”. L’epigrafe è recensita anche nel IV volume dell’opera del Cicogna “Iscrizioni veneziane illustrate”, che risale al 1824. C’è dunque un riferimento ufficiale al “Ducato di Venezia” e siamo nel 1615, poiché il Doge moriva il 29 ottobre di quell’anno. Il vocabolo “ducatus” ha in realtà anche altri significati, circoscritti alle competenze militari. Tale eventualità però non ricorre per un supremo magistrato investito di ben altri poteri.

Quale imputazione deriverebbe a Napoleone per aver sancito a Campoformido la riconduzione del Veneto nel Sacro Romano Impero?
Oltre alla continuità territoriale con il Ducato di Carinzia e la Contea del Tirolo esistono secolari trascorsi con l’Impero a differenza di altri reami peninsulari, il meno distante dei quali era rappresentato dal Regno della Chiesa. Si può essere certi che Ludwig van Beethoven non avrebbe incluso quel Trattato tra i motivi che lo convinsero a cambiare la dedica a Napoleone della sua celebre Terza Sinfonia, l’Eroica. La circostanza sarebbe stata piuttosto un’attenuante tra le prevalenti aggravanti di altro genere. Il concetto italiano era, inoltre, del tutto prematuro. La stessa geografia del tempo collocava tale idea in altre latitudini, come dimostra la cartografia del tempo.

(Quaderni del Lombardo-Veneto, N. 59, pag. 42-43. Padova 2004).




L’ONDA LUNGA DELLA STORIA

Le cocinelle hanno vita breve, ma già dopo poche ore ne hanno piene di umor nero le palline sulle elitre rosse. Esse non sanno nulla del mutare delle stagioni. Ciò non impedisce tuttavia che ci sia stato un ieri e che venga un domani. Anche gli episodi della storia sono frutto del passato, ma hanno effetti sul futuro. La difficoltà sta nel collegamento tra l’antecedente e l’avvenire. Gli intrecci complessi formano la storia. Modificare il passato non è cambiare un fatto isolato: è annullare le sue conseguenze che tendono a essere infinite e impreviste, secondo Jorge Luis Borges.
La mattina del 30 gennaio 1889 l’Arciduca Rodolfo, erede al trono austro-ungarico, e la giovane Maria Vetsera con la quale egli aveva un rapporto di amicizia progredita e affinità elettive, si fa per dire, furono trovati senza vita nel castello di Mayerling. Suicidio fu l’invetrata causa ufficiale della morte, peraltro subito smentita da un telegramma di corte al Vaticano per consentire il funerale nella Cripta dei Cappuccini immortalata da Joseph Roth.
Pochi credettero a quel giallo imperiale e molte furono le congetture. L’idea dell’omicidio è la più insistente e probabile. Sono stati indicati i moventi più fantasiosi. A nessuno è venuto in mente che si sia trattato di un motivo che sta sempre anche all’origine delle guerre: le finanze, magari di ampia portata, impastate con la politica . L’allusione è meno improbabile di quanto si creda. Già l’integerrimo Catone il censore aveva subito 40 processi per corruzione e il suo “delenda Cartago” derivava dal fatto che a Cartagine si produceva un olio d’oliva migliore di quello dei suoi uliveti laziali.
La scena europea era nel 1889 la seguente. La Francia era stata battuta dalla Germania nel 1871 a Sedan. Fervevano sentimenti di rivalsa. La dinastia degli Orleans tramava per riavere il trono di Parigi. La capitale francese continuava a considerarsi il centro del mondo senza accorgersi che dove è il centro non c’è nulla. Entrambe le tendenze erano impersonate da Georges Clemenceau. Il personaggio congiurava nell’ombra senza mai comparire, tranne che nei numerosi duelli nei quali egli si limitava spesso a sparare nella coscia degli avversari o nelle immediate vicinanze.
Il trattato di mutua assistenza del 7 ottobre 1879 tra la Germania e l’Austria aggravò la situazione. Clemenceau voleva annullare quel patto e cercava appoggi a Vienna basandosi, non per ultimo, su un conto rimasto aperto tra l’Austria e la Prussia fin dal 1866, quando questa determinò la dolorosa cessione del Veneto all’ Italia. L’avvicinamento della Russia alla Francia nel 1886 lasciava sperare per una simile operazione anche a Vienna. La chiave per tutto ciò sembrava essere il principe ereditario Rodolfo, ma gli infiltrati francesi presso la corte asburgica si rivelarono inferiori alle aspettative. Bisognava cercare personaggi più abili che ne sapessero una di più di quel povero cristiano del diavolo.
In quegli anni era molto in auge un campione di intrighi, una vecchia conoscenza di Clemenceau: Cornelio Herz, diplomatico, giocoliere, tecnico, guaritore, politico, medico, ricattatore, giornalista, avventuriero, donnaiolo e instancabile untore poliglotta dell’ alta finanza. Il suo genio emerse specialmente nella più colossale impresa tecnica dell’epoca: l’elettrificazione di intere città. A ciò vanno aggiunte le installazioni telegrafiche e telefoniche per un iniziale e promettente giro d’affari anche in Austria. Inutile dire che a Herz furono attribuiti gli Ordini della francese Legion d’Onore e degli italiani Santi Maurizio e Lazzaro. Un uomo potente, ma privo di qualsiasi morale, adatto per i programmi anti austriaci di Clemenceau, che lo aveva conosciuto durante il suo soggiorno americano.
Un miracolo del secolo era anche il Canale di Panama. L’emissione del relativo prestito fu affidata a Cornelio Herz, il quale si avvalse di Jacque Reinach, pure lui uomo con la faccia da mercoledì, secondo le descrizioni. Il rimborso di quelle obbligazioni conobbe serie difficoltà, com’era facile da prevedere. Proprio come qualche caso nei nostri tempi. Ma Clemenceau offerse a Herz la copertura politica e lo scaldalo fu appannato.
Il Principe Rodolfo era entusiasta per i progressi dell’elettricità in quel tempo e nutriva ammirazione per il loro fautore. La realizzazione di una rudimentale telescrivente lo aveva affascinato soprattutto in prospettiva di una rivoluzione nelle comunicazioni militari. Il proponente pensava, invece, a un impiego delle innovazioni telegrafiche in un’altra rivoluzione, in altre parole per un ipotizzato colpo di stato a Vienna, in cui Rodolfo sarebbe stato il protagonista. I contatti con Herz e con la politica francese degradarono improvvisamente per il rifiuto del principe e l’appalto non ebbe luogo. Caddero così le implicazioni tecnico-politiche del grande affare. Rodolfo avrebbe esclamato in quella circostanza: “Contro la Chiesa sì – contro mio padre mai”. L’informazione proviene da Zita, l’ ultima Imperatrice della Casa d’Austria, e si comprende come l’erede al trono non fosse una falena abbagliata dal buio.
Rodolfo avrebbe potuto palesare le condizioni politiche contenute nelle proposte pervenutegli, cioè la sua congiura contro Francesco Giuseppe per sostituirlo sul trono. Ciò sarebbe stato certamente imbarazzante per l’ Austria ma pericolosissimo per la Francia, cui Bismark avrebbe subito dichiarato guerra.
Bisognava far morire Rodolfo, fu la logica conclusione di Herz e di Clemenceau. La vittima lo sapeva.
L’assassinio del principe sarebbe stato naturalmente eseguito da ignoti assassini mercenari. I nomi dei mandanti, cioè del trio Clemenceau-Herz-Reinach, non sarebbero mai stati di dominio pubblico. Rodolfo si sarebbe difeso con un tavolo quando si accorse dell’irruzione a Mayerling, perdendo nella lotta anche alcune dita. La ragazza sarebbe stata invece uccisa altrove e poi accostata al cadavere dell’uomo per integrare la compromissione. Qui bisogna distinguere tra memoria cinica e memoria alienata. Nella prima si decide di mentire; nella seconda si rinuncia con rassegnazione a sapere notizie rischiose. Diciamo allora che circa un mese dopo gli omicidi di Mayerling e precisamente il 7 marzo 1889, Re Milan di Serbia, simpatizzante per l’Austria, “abdicò”. Suo figlio Alexander fu assassinato con sua moglie Draga per dare via libera all’alleanza franco-russa. Nel 1898 fu pugnalata l’Imperatrice Elisabetta, la mitica Sissi. Casualità o preparativi per Sarajevo 1914?
Nel 1919 ebbe luogo a S. Germain la Conferenza di pace, in seguito alla quale furono imposte all’Austria pesanti sacrifici territoriali. Per ricattare la Commissione austriaca e indurla ad accettare tutte le condizioni, i componenti dovettero alloggiare a palazzo Reinach! Questo significava un sinistro avvertimento in quanto il possessore dell’immobile era stato contiguo ai responsabili della tragica fine di Rodolfo d’Asburgo. In altre parole: “O firmate, o fate una brutta fine”. La notizia e la sua interpretazione derivano, tra l’altro, da Camillo De Carlo, protagonista e medaglia d’oro della Grande Guerra, che fu appunto Segretario della Delegazione di pace italiana in quell’occasione.
Si comprende in tal modo come nella moviola della memoria il luttuoso fatto di Mayerling abbia determinato, tanti anni dopo, un avvenimento storico di portata mondiale. Quanto al futuro, è sempre prematuro parlarne.
In ogni caso dimenticare la storia significa doverla rivivere. Questa è, per esempio, una risposta da dare a quanti si interrogano sull’ islamizzazione dell’Europa. Essi non sanno, infatti, che il fenomeno in corso è diretta conseguenza del crollo dell’Impero Austro-Ungarico avvenuto nel 1918, di cui sono note le responsabilità internazionali.


I M P R E S E G A R I B A L D I N E

A pagina 151 dell’elenco telefonico milanese c’è il recapito dell’Associazione Nazionale Veterani e Reduci Garibaldini. Se è consentita una riflessione, questa riguarda l’età dei soci, i quali dovrebbero aver superato i 150 anni.
Com’è noto, lo sbarco a Marsala avvenne l’11 maggio 1860. Il movente non fu propriamente il patriottismo, ma la somma di tre milioni di franchi francesi pagati in piastre turche d’oro, come dimostra la quietanza conservata presso la Loggia massonica londinese “Quatuor Coronati”. Anche i piroscafi furono concessi gratuitamente. Battevano bandiera a strisce (una è esposta al Museo del Risorgimento di Agrigento) e furono facilmente confusi con navigli americani in cerca di rifornimento, evitando in tal modo la reazione della flotta borbonica.
Prima di partire i Mille furono fotografati singolarmente per evitare che, se tutto fosse andato bene, fosse presentato un esagerato numero di richieste di benemerenze possibilmente non virtuali. Giova ricordare che Giuseppe Garibaldi fu attivo in Italia dal 1848 ed è pertanto giustificato chiedersi quale fu il destino dei suoi volontari prima e dopo lo sbarco a Marsala.

Da Roma a Venezia

Nel 1849 la Repubblica Romana era caduta e Garibaldi pensò di andare a Venezia per appoggiare l’insurrezione. Todi, Città della Pieve, Chiusi, San Marino, Cesenatico furono le tappe intermedie della trasferta. Da quest’ultima località, dopo la requisizione di alcune imbarcazioni, il contingente garibaldino si accinse a far rotta verso Venezia portando con sé molti valori, di cui si era appropriato a Roma e nei luoghi attraversati.
A Magnavacca (Ferrara) furono catturati dall’esercito austriaco 162 volontari e 11 ufficiali. Il 5 agosto 1849 i prigionieri furono portati a Pola dal battello a vapore “Trieste”. Ad essi furono distribuite le razioni alimentari previste per la truppa austriaca e qualche capo di vestiario, dato che tutti erano “vestiti in modo miserabile e sono anche senza biancheria intima”, come si legge nella relazione del Generale imperial-regio Standeisky.

Guerra civile americana: su due fronti

Dopo l’impresa di Marsala altre gesta attendevano i Garibaldini. Ottocento di essi emigrarono in America nel 1861 per partecipare alla guerra civile. Due anni dopo 365 Garibaldini appartenenti al 39° di Fanteria comandato dal Generale nordista Hancock, combatterono contro 370 Garibaldini dell' 8° Reggimento di Fanteria comandato dal Generale sudista Early. Per la precisione i primi portavano la divisa blu, mentre i secondi indossavano l’uniforme grigia. I caduti tra le loro file furono in quell’occasione 95 e 60. Il giorno seguente le loro perdite furono quasi doppie, quando ebbe luogo la conquista della collina Cemetery Hill.

Storia da rivedere

Vi sono forse alcuni punti da rivedere nella storia ottocentesca. Potrebbe sorprendere che già nel 1849 la Marina avesse navi a vapore di notevoli dimensioni, ma ciò corrisponde a verità, anche se il loro numero non era ancora cospicuo. Anche l’immagine indotta di un esercito austriaco persecutore va ridimensionata, considerato il trattamento riservato ai prigionieri con uno status alquanto incerto. Si devono inoltre tener presenti le gravi condizioni dell’armata austriaca funestata da una diffusa epidemia malarica, citata nelle fonti ufficiali come “febbre della Laguna”. Anche qualche riflessione su certi comportamenti e ideali non sembra infine fuori luogo.

(Il Piave, mensile. Conegliano V.)



LEGGENDA, STORIA E CULTURA DEI CIMBRI

“Se la disposizione della materia è stata buona e come si conviene alla storia, è quello che ho desiderato. Se poi è mediocre e di scarso valore, è quanto ho potuto fare”. (II Maccabei, 15 – 38)

Prüdere Liben ! Fratelli cari !

Non ho la pretesa di raccontare “la storia”, ma semplicemente “una storia” che potrebbe cominciare alla maniera cimbra e universale con le parole “Vor viil viil jaar = molti, molti anni fa”.
I Cimbri del Cansiglio sono originari di Roana, nel Vicentino. Giunsero nel bosco nel 1707, ma il loro nuovo insediamento ebbe nei primi periodi forse carattere stagionale.
Il 30 ottobre 1811 nacque un nuovo abitante del Cansiglio: Basilio Azzalini.
Ciò fa ritenere che la comunità fosse diventata stabile.
Di tutte le ipotesi avanzate sull’ origine dei Cimbri, soltanto tre possono essere prese in considerazione:
1) Superstiti della battaglia vinta dal Console Mario nell’anno 102 a. C. ;
2) Residui di popolazioni germaniche molto numerose, che nell’ alto medioevo abitavano vasti territori del Veneto ;
3) Migrazioni di coloni germanici nei primi secoli del secondo millennio.
Per la prima ipotesi non esistono documenti. Essa non è storicamente sostenibile, ma è sorprendentemente la più radicata nella coscienza degli abitanti dei 7 Comuni (1). Lo conferma anche un episodio accaduto molto tempo fa: un principe danese volle visitare quei paesi e fu accolto entusiasticamente col grido: “Viva il nostro re!”.
Consideriamo allora le altre possibilità.
Nel V secolo d. C. parecchie stirpi germaniche erano già stabili nell’ Italia settentrionale. Esse chiesero dei territori per viverci, ma il generale romano Oreste glieli negò. Nell’ anno 476 Oreste fu vinto presso Piacenza dal condottiero germanico Odoacre e contemporaneamente anche l’ ultimo imperatore romano d’ occidente, Romolo Augustolo (figlio di Oreste) fu deposto.
Le terre in precedenza richieste dalle popolazioni germaniche qui migrate furono loro finalmente assegnate.
Quelle prime popolazioni transalpine sarebbero state rapidamente fagocitate dai loro vicini latini, ma altri contingenti giunsero da Oltralpe sulla scia delle migrazioni dei popoli. Nell’ anno 489 i Goti di Teodorico vinsero Odoacre e dopo quattro anni conquistarono anche Ravenna. Il nuovo regno non durò molto, poiché i Goti furono a loro volta vinti nella battaglia del Vesuvio nell’ anno 552 d. C.
Le sconfitte non significarono evacuazione delle regioni a sud delle Alpi. Il Vescovo Enodio di Pavia, morto nel 516, ci assicura che : “Tanta parte della gente di Alemagna venne a trovarsi entro i confini d’ Italia senza danno dei possessi di Roma ed essa tornò ad avere un re dopo che aveva meritato di averlo perso. Chi aveva prima depredato le nostre popolazioni era diventato poi custode dell’ Impero. Aveva abbandonato fuggiasco la Patria, ma aveva fatto la sua ricchezza delle nostre terre e quindi trovato di potervi stabilire” (2).

Poi giunsero i Franchi e gli Svevi. Lo storico Procopio ci informa nel suo “Bellum Goticum” che: “Teodiberto, re dei Franchi, era poco prima morto di malattia (anno 547), dopo essersi, senza alcuna ragione, reso tributari alcuni paesi della Liguria, le Alpi Cozie e gran parte della Venezia. Questo perché i Franchi, traendo partito dal fatto che entrambi i belligeranti (Romani e Goti) erano impegnatissimi e senza pericolo alcuno si erano arricchiti proprio di ciò per cui quelli si facevano la guerra. Nella Venezia soltanto poche cittadine rimanevano ai Goti, i luoghi marittimi ai Romani: tutto il resto se lo erano assoggettato i Franchi (3). E inoltre: “Più in là c’ è la Liburnia, l’ Istria e la Venezia, che si estendono fino alla città di Ravenna. Qui risiedono le popolazioni marittime. Al di là di queste, nell’ interno, abitano i Siscei e gli Svevi, non quelli sottoposti ai Franchi, ma altri, diversi” (4).
Tra il 568 e il 774 ci fu il regno longobardo. La lingua longobarda si estinse nelle regioni meridionali poco prima dell’ anno 1000, mentre resistette a settentrione, secondo il Bruckner.
Non si dimentichi a questo riguardo che dall’ anno 653 in poi non furono pochi i re longobardi di origine bavarese. Basti ricordare i nomi di Teodolinda (il cui trono d’ oro sarebbe stato nascosto nel Feltrino dai seguaci dell’ ultimo re, Desiderio), Ariperto, Gundeperto, Bertari, Cuniberto, Lindeperto, Ansprando ed il famoso Liutprando.
Come è noto, Carlo Magno sottomise i Longobardi, ma la vittoria non gli bastò. Lo storico Eginardo ci informa che l’ imperatore dispose il trasferimento di popolazioni sassoni in Italia. Nell’ anno 804 la migrazione fu completata con l’ invio di diecimila elementi irrequieti non meglio identificati.
Un documento del 2 maggio 874 attesta una donazione al vescovo padovano Rorido e vi si riscontrano numerosi nomi germanici. Nel 917 il duca Berengario del Friuli donò ad un altro vescovo padovano, Silicone, il paese di Solagna sul Brenta, vendendo i suoi poteri giudiziari “sui Germanici e sugli altri uomini libero che abitano o che abiteranno nella predetta valle di Solagna” (5).
Possiamo tentare una conclusione con le parole dello studioso padovano Antonio Loschi, anch’egli cimbro, il quale sostenne che in tempi remoti i “Cimbri”, vale a dire popolazioni germaniche, abitavano la Regione dal fiume Adige al mare Adriatico. Questa dichiarazione risale al 1400, ma è confermata da un episodio accaduto pure secoli fa. In una delle rare alleanze tra vicentini e padovani, il comandante dei primi, desideroso di non far conoscere i propri piani strategici agli alleati, parlò alle truppe “in tedesco”.
Nei Tredici e nei Sette Comuni, ma anche in altre località settentrionali, potrebbero essere successivamente giunte altre popolazioni dal nord per vari motivi. Nel 1166 cui fu a Pergine una ribellione contro il feudatario Guindibaldo.
Motivo della sollevazione sembra essere stata l’ adesione di Pergine alla Lega dei Comuni Veneti, ma nel documento scritto il 13 marzo 1166 si legge che la popolazione germanica non si era ribellata. Non si comprende dunque il perché di una emigrazione di perginesi di lingua tedesca verso i territori veronesi e vicentini, presumibilmente già abitati da genti germaniche.
Non sempre la storia ricopre l’ intero settore affidatale tra scienze, per cui si ricorre anche alla linguistica e alla filologia. Secondo queste due ultime scienze, le popolazioni germaniche dei Sette e Tredici Comuni sarebbero più recenti e giunte nel XII secolo dal territorio austro-bavarese. Un secolo più tardi altre migrazioni avrebbero popolato le località di Folgaria, Lavarone, Lucerna, Sappada, Sauris, Timau, Val Ferina.
In effetti sono rintracciabili nella parlata cimbra numerosi caratteri dell’ alto tedesco, nonché determinanti particolarità fonetiche e lessicali degli idiomi bavaresi e tirolesi. Ciò escluderebbe ulteriormente la possibilità di trovarci di fronte a superstiti dell’ antichissima popolazione germanica settentrionale vinta dai Romani.
Anche lo stesso nome di “Cimbri” contribuisce a smitizzare la provenienza germanico-danese. In seguito alla prima rotazione consonantica il termine aveva infatti acquisito una aspirata iniziale, tanto è vero che continuiamo a trovare toponimi come “Himmerland” e “Himbarsyssel” nel nord Europa, ma non da noi.
I Cimbri possono dunque essere veramente quel che rimane delle popolazioni germaniche abitanti nel Veneto dopo la caduta dell’ impero romano ed integrate da successivi trasferimenti fino al secolo XIII.
Rimangono gli enigmi del nome e delle attuali affinità linguistiche con la zona austro-bavarese. Il riferimento alla popolazione cimbra vera e propria, cioè quella del I secolo d.C., è solo un’ assonanza. In realtà i Cimbri attuali si sono autodenominati tali dall’ appellativo “Cimbar-mann”, che vuol dire “lavoratore del legno”. La parlata può invece benissimo sembrare simile ai vicini, un tempo contigui, linguaggi austro-bavaresi per effetto degli inevitabili prestiti linguistici, come oggi accade con l’ italiano, solo che ora non si può più parlare di “prestito”, ma di stabile influenza.
Per quanto riguarda i Cimbri del Cansiglio, essi lavorarono nel bosco per la “Serenissima”, sempre bisognosa di buon legname per le sue famose navi. La loro attività fu particolarmente apprezzata dall’ Imperial-Regio governo austriaco, che ben conosceva il valore delle genti oneste e laboriose. Infine anche il regno d’ Italia consentì loro ufficialmente nel 1871 di permanere in quella che a buon diritto era diventata la loro terra.
Nel 1874 i Cimbri del Cansiglio erano 250, distribuiti in 43 famiglie. Tre anni più tardi la popolazione risultava cresciuta di 30 individui e raggiungeva le 280 anime. La comunità contò poi ben 50 famiglie. Queste furono sempre un tangibile esempio di corretta convivenza con le popolazioni vicine e una indicazione di come si possa crescere insieme nel reciproco rispetto, anche in presenza di culture differenti e senza dover rinunciare alla propria identità.
Molto si potrebbe dire sulla cultura cimbra. Basti però ricordare che è diventata proverbiale l’ espressione: “Questa persona è giusta come un Cimbro”. Il resto non può che essere secondario e marginale.
Mi permetto di chiudere con questi versi in “cimbro”, rivolti ai giovani:

Pui, pui vergiss as et : Ragazzo, ragazzo, non dimenticare
Va olters virn Nene, virn Urnen dai tempi per avi e nonni
In do geben de Hamat. qui è stata la patria.
Plaip a de Hamat vir di ! Che lo sia anche per te!

LA LEGGENDA DELL’ ORIGINE CIMBRA

De ünzarn eltarn habent hortan kchöt, dass ünsar stam vun zimbarn ist von taüschen lentarn af an nort kömet in des bellisce lant, in zait vom krige, ba dar grosse stroach ist den gant übel.
Des grosseste toal von krigarn ist gevallet toat, un de andarn haben sich verporget in balt ate perge von draizen kåmåün oben vern un dandare ate perge von üzarn züben kåmåün oben vitschenz.
Übar disa hoge ebene in daü zait ist gabest alles an balt, ba habent genestet de pearen un de wölve, un koane låüte.

I nostri genitori hanno sempre raccontato che la nostra stirpe di Cimbri è giunta nel paese latino dai territori tedeschi del nord, in tempi di guerra, non essendo loro riuscita la grande battaglia.
La maggior parte dei guerrieri è caduta e gli altri si sono nascosti nel bosco sui monti del Tredici Comuni sopra Verona ed altri sui monti dei nostri Sette Comuni sopra Vicenza.
Su questo Altipiano a quel tempo c’ era una grande foresta, dove proliferavano orsi e lupi, ma non la gente.

(2) Quid quod a te Alemanniae generalitas intra Italiane terminos sine detrimento possessionis Romanae inclusa est, cui eventi habere regem, postquam meruit perdidisse. Facta est latialis custos imperii sempre nostrum popolatione grassata. Cui feliciter cessit fugisse patriam suam, anm sic adepta est soli nostri epulentiam, acquisita est iis, quae noverit ligonibus tellus adquiescere (Bergmann, Bd. 120, Anzbl, p. 4).
(3) Paulo ante Francorum rex Theodebertus morbo obierat (547), cum sibi multo negozio tributaria fecisset nonnulla Liguriae, loca, Alpes Cottias, agrique partem maximam. Etenim Franci, ârrepta belli, quo Romani Gothique erant impliciti, opportunitate, sine discrimine ditionem suam iis loca auxerunt, de quibus illi pugnabant. Venetorum pauca oppia Gothis supererant: nam Romani marittima, Franci caetera occuparant. (Procopio, lib. IV, cap. 24 – edit. Venet. 1729 Tom. II, 226).
(4) Liburnis proxima ist Istria, deinde regio Venetorum ad Ravennam urbem porrecta. Atque hi sunt, maris, accolae, supra quos Siscii et Subi, non illi, qui Francis parent, sed ab iis diversis, interiores terrae tractus obtinent.
(5)Nos… pretaxatas vias publicas iuris regni nostri pertinentes de Comitatu Tarvisianense iuxta Ecclesiam Beatissime Justine virginis non longe a fluvio Brenta valle nuncupate Solane…seu omnem terram iuris regni in predicta valle adjacentem de quibus libet Comitatibus tam in territorio Cenedense ad nostram iurisdictionem pertinentem, nec non et omnem iudiciariam potestatem tam Germanorum quam aliorum hominum, qui nunc in predicta valle Solane habitant aut habitaturi sunt… (Bergmann, p. 8).



STORIA DELL’INFLAZIONE MONETARIA

LO ZECCHINO FU LA MONETA PIU’ STABILE

Negli ultimi anni la capacità d’ acquisto del denaro si è costantemente contratta e si può affermare che nessuno degli stati progrediti ne sia rimasto indenne. Paesi come la Repubblica Federale di Germania e la Confederazione Elvetica hanno ragione di sentirsi orgogliosi del loro tasso inflativo contenuto, ma non bisogna dimenticare che una tale percentuale fino a poco prima del secondo conflitto mondiale sarebbe stata considerata come esorbitante, benché anche negli ultimi cent’ anni l’ inflazione sia stata in genere una regola, piuttosto che un’ eccezione.
L’ Inflazione è in stretto rapporto con la storia del denaro e soltanto le sue cause sono cambiate da due millenni e mezzo a questa parte. In un primo tempo il fenomeno inflativo era solito investire un solo paese; in seguito, a causa della sincronizzazione delle varie economie nazionali, conseguente ai traffici mondiali, la sua estensione geografica si dilatò in progressione geometrica.
Le prime monete furono coniate in Asia Minore nell’ anno 640 a. C., ma dovettero trascorrere ben due secoli prima che si presentasse la prima inflazione. Ciò accadde ad Atene nell’ anno 4°6 a.C. durante la guerra del Peloponneso, quando venne a mancare l’ argento per le dracme. Si ricorse allora al conio di monete di rame ricoperte da un sottile strato d’ argento. Il valore del denaro diminuì improvvisamente in Grecia, ma si mantenne relativamente stabile nel settore orientale del Mediterraneo.
Dimensioni ben maggiori assunse l’ inflazione a Roma. In occasione delle guerre puniche, e più precisamente durante la seconda, che vide la calata di Annibale in Italia, le operazioni belliche divennero tanto costose da richiedere in un primo tempo il raddoppio delle imposte, il risparmio forzato e contribuzioni “una tantum”, per poi giungere alla riduzione della consistenza bronzea dell’ asse, che era la moneta standard dell’ epoca. Soltanto la vittoria su Cartagine ed il conseguente pagamento delle pesanti riparazioni di guerra da parte degli alleati dei punici consentirono un certo riequilibrio economico a Roma.
La nuova moneta era ora rappresentata dal “denaro”, il quale conteneva ben 4 grammi di argento fino. Si trattò di una moneta abbastanza stabile fino all’ anno 64 d . C., allorché l’ imperatore Nerone decise la drastica diminuzione dei metalli nobili contenuti rispettivamente nel denaro e nell’ aureo, al fine di procurarsi i mezzi per la ricostruzione della città devastata dal noto incendio. Ad onore del vero bisogna ammettere che Nerone aveva fatto ricorso ad altri metodi per sanare le finanze pubbliche prima di pensare a soluzioni impopolari. Sua era stata infatti l’iniziativa di espropriare sei tra i massimi latifondisti dell’ impero e soltanto dopo aver constatato che le sostanze confiscate erano insufficienti, fu imboccata la via dell’ inflazione generalizzata.
Da allora in poi le monete divennero non solo più piccole, ma anche più povere d’ oro e d’ argento. Il doppio denaro, per esempio, possedeva ormai un sottilissimo rivestimento d’ argento e a nulla valse l’ editto di Diocleziano, inteso a mantenere fisso il valore del denaro eliminando, in via sperimentale, perfino la differenza tra prezzi all’ ingrosso e prezzi al minuto. Il risultato fu tanto disastroso che il prezzo del grano, intorno al 300 d. C., era salito di ben duecento volte rispetto all’inizio della nostra era.
Maggiore fortuna ebbe la riforma di Costantino, introdotta all’ inizio del quarto secolo. Era accaduto che la confisca dei tesori esistenti ancora nei templi pagani si era praticamente rivelata una insperata miniera di metalli preziosi per il conio della nuova moneta. A ciò si aggiunga che sotto Costantino comparve il primo bilancio statale per una razionale effettuazione della spesa pubblica, fino a quel tempo lasciata al caso, disposta secondo le esigenze del momento e sostenuta dalla relativa emissione incontrollata di nuova moneta. Caposaldo di questa valida riforma monetaria fu il “solido”, costituito da 4 grammi di oro fino e coniato per molti secoli mantenendone invariato il peso. Il nome di questa moneta fu veramente degno della sua solidità!
Nel 1284 la Serenissima Repubblica di San Marco coniò il ducato, più noto col nome di “zecchino”. Questa fu l’unica moneta che raggiunse, e sorpassò, la stabilità del solido costantiniano, ottenendo la fiducia di tutti i mercati del mondo allora conosciuto.
Nel medioevo l’inflazione fu determinata dalla volontà dei regnanti, che se ne servirono per procurarsi maggiori entrate, dichiarando spesso con un editto l’improvvisa svalutazione delle loro rispettive monete, subito sostituite da altre ben più povere di metallo nobile. Ad un simile abuso politico-economico è da attribuirsi anche la rovina del pfennig, che fin dal tempo dei vichinghi era considerata una ambita moneta d’ argento, paragonabile al denaro della repubblica romana. Ebbene, nel periodo tra il 1050 ed il 1330 il valore del pfennig era talmente sceso, da essere paragonato a quello di una moneta di rame.
All’ inizio del Rinascimento molte cose cambiarono nel destino del denaro. La scoperta dell’ America, la razzia dei tesori indiani e lo sfruttamento, iniziato nel 1545, della ricchissima miniera presso Potosi in Bolivia, si trasformarono presto in una enorme disponibilità di oro e d’ argento per le zecche europee. Soltanto in Spagna giunsero 7.500 tonnellate d’ argento e 150 tonnellate d’ oro. Tale eccedenza di offerta fece crollare il valore del denaro, tanto che il prezzo del frumento in Europa si quadruplicò verso la fine del XVI secolo.
Finché il denaro era costituito da sole monete metalliche, cui comunque era garantito un certo contenuto argenteo o aureo, l ‘inflazione si mantenne tuttavia entro limiti controllabili. L’ accelerazione aumentò con l’ introduzione della carta-moneta, la quale consentì l’ estensione della circolazione monetaria mediante una irrealizzabile promessa di cambio, a richiesta, con la corrispondente quantità d’ oro da parte delle banche centrali, o, come in Francia ai tempi del Direttorio, con l’ assegnazione di appezzamenti di terra confiscati ai nobili. Attualmente l’ unico valore della carta-moneta consiste nella fiducia nei confronti della situazione economica dello stato, cui la valuta stessa si riferisce.
Le banconote circolavano già in Cina nel 1100 ma quando, all’ inizio del XVIII secolo, una banca parigina riuscì a farle accettare ai propri clienti, quest’ ultimi subirono un immediato danno dell’ 80%. Le cose andarono diversamente in America. Durante la guerra civile gli stati del nord emisero certificati di credito chiamati “Greenbacks”, i quali persero costantemente di valore fino al 1875, ma furono integralmente rimborsati dopo la fine delle ostilità.
L’ inflazione monetaria raggiunse il suo culmine dopo la prima guerra mondiale. Il marco tedesco fu svalutato di circa un bilione di volte, impegnando nel novembre 1923 per la continua stampa di banconote ben 29 fabbriche di cliché, 144 tipografie e 30 fabbriche di carta con un totale di 7.500 dipendenti. La situazione era ancora più disastrosa in Ungheria, dove il pengö era stato svalutato un quadrilione di volte rispetto al suo valore ante guerra, prima di essere sostituito col fiorino nel 1946.
Attualmente il catalizzatore dell’ inflazione monetaria è rappresentato dalla spirale salari-prezzi: l’aumento salariale provoca la lievitazione dei prezzi e viceversa. Ma questa è cronaca di tutti i giorni, cui la struttura degli attuali sistemi socio-economici sembra voler assicurare un lungo avvenire.

(Il Dialogo, Oderzo, ottobre 1982)


LE INVASIONI TURCHESCHE

Antonio De Pellegrini iniziò la propria opera sulle invasioni turchesche, alle quali avrebbero preso parte anche donne, indicando come catalizzatori “malanimo e discordia di Principi italiani”.
La premessa sarà stata sottovalutata o non compresa, ma essa merita un approfondimento. C’erano in quel tempo contrasti tra il Ducato di Milano e la Francia. La crisi si era poi aggravata con la morte di Lorenzo il Magnifico e l’elezione del Pontefice Alessandro VI.
Il Re francese Carlo VIII aveva forti mire su Napoli, dove egli voleva affermare i diritti degli Angiò. Dopo iniziali successi, il suo principale obiettivo diventò il Ducato di Milano, ma morì nel 1498. L’impresa fu continuata dal successore Luigi XII di Francia il quale conquistò Milano nel 1499 e, già che c’era, prese anche Novara proclamandosi Duca di Milano.
Venezia appoggiò la politica francese con la Lega di Blois il 9 febbraio 1499, cambiando il precedente orientamento politico. Il comando delle truppe fu affidato a Nicolò Orsini. Questo era un evidente atto di ostilità contro Milano governata da Ludovico il Moro il quale, abbandonata la città e rifugiatosi in Germania, pensò a una vendicativa rivalsa. Dopo tutto lo Stato di Milano era una potenza europea prima che esistesse l’Italia.
Il Moro non aveva amici in Europa, ma presumeva di averne in Asia Minore. Egli inviò una lettera a Costantinopoli, la quale provocò la disastrosa invasione dei Turchi attestati nei Balcani. “L’immanissimo turco”, così è chiamato il contingente osmano nei documenti dei Porcia-Brugnera, ebbe come guida Ermacora Ungaro. Anche i fratelli Alessandro e Giacomo Digon di Brugnera furono sospettati di aver accompagnato gli invasori, ma non c’erano prove a loro carico. E’ un peccato che molti documenti dei Porcia-Brugnera siano andati perduti nell’autunno del 1917 (quando furono ritenuti attestazioni di debito e subito bruciati dopo Caporetto, ma esistono riscontri sufficienti per la quantificazione dei danni delle distruzioni turchesche).
Venezia si era allarmata e aveva incaricato un famoso ingegnere idraulico di studiare nuove strategie contro le invasioni da oriente. In particolare si pensò di provocare impetuose inondazioni dell’Adige e di altri fiumi mediante dighe a monte, che potevano essere aperte al momento opportuno.
L’ingegnere idraulico era Leonardo da Vinci. Questi aveva dovuto lasciare Milano dopo la fuga del Moro nel 1499. Troviamo il genio nel Veneto nel marzo del 1500 e alcuni cenni nei documenti leonardeschi fanno pensare a un incarico segreto del Senato Veneto.
Non sono noti i risultati dell’eventuale impegno di Leonardo, ma le invasioni turchesche cessarono.
In conclusione Carlo VIII aveva avuto molto denaro da banchieri italiani per le sue imprese. Ludovico il Moro deve aver avuto un ruolo importante nell’occupazione francese di Napoli. La Serenissima si schierò coraggiosamente con i vincitori. Quanto ad Alessandro VI Borgia, egli fece di tutto per favorire i propri figli e nulla per aiutare le nostre popolazioni angustiate dai Turchi.
A proposito, nella quasi unificazione d’Italia operata da Cesare Borgia, figlio del Papa, il Veneto non c’era.
Sia detto con delicatezza, ma tutto ciò contrasta con gli insegnamenti sulla collaborazione mai interrotta nei secoli dalle varie politiche intese a raggiungere l’unità del Paese, propinati da ignari maestri nella scuola.
Di certo furono tempi duri tra il 1400 e il 1500. Ma i tempi non furono migliori nemmeno prima, se si pensa a Giobbe. E anche il clima non dovette essere gran che, se si pensa a Noè.

(Il Dialogo, Oderzo, mensile, gennaio 2005)



IL FIUME LA PIAVE

“Nella mia terra i fiumi sono testimoni. Non nascondono nulla, Vengono da alte montagne. A volte cantano. A volte gridano, talvolta piangono con noi in silenzio. A volta sono dolci, a volte irati, a volte portano fiori. Talvolta anche un cadavere. I fiumi sono fiumi, che scorrano qui o nel mio paese” (Kader Abdollah, scrittore iraniano)

Questo filmato vorrebbe essere, più che una normale rappresentazione, un atto di omaggio al fiume Piave. Il corso d’ acqua, simile ad un filo di luce liquida, conosce ambientazioni conferitegli da eventi storici, ai quali sono estranee sia la natura sia la civiltà delle origini. Si è così determinata una specie di memoria collettiva in crisi di abbondanza.
Il fiume è ricordo di sconfinate sofferenze, di enormi sacrifici, di straordinarie bestialità e di semplici, semplicissimi eroismi (non confondibili con quelli catalogati e resi ufficiali dalla cosiddetta “storia ufficiale”, per usare parole di Alberto Asor Rosa).
Si tratta dell’esatto contrario di quell’eroismo, che forma oggetto di tanti esagerati tripudi nazionalistici. Si tratta piuttosto della vera dimensione umana, estranea alla grancassa da orticaria, nella quale anche i morti hanno un potere.

Diario di guerra, rapporto di servizio divisionale.

“Spiace che il tenente Lorenzo… sia caduto alla testa del suo valoroso reparto. Sono fiero per questa nuova azione gloriosa. Povero, allegro commilitone. Anche tu non avrai avuto l’altro ieri il presentimento della tua bella morte, quando scherzavamo sui teschi.
Ora rifletto che, quando altri scherzano sulla vita, noi non possiamo farlo. Tre giorni fa è arrivata una cartolina per te con la Posta Militare. Quando fu scritta, tu giacevi già morto sulle ghiaie insanguinate. Io l’ho letta al posto tuo. La cartolina dimostrava buon umore. Essa era stata scritta scritta da una ragazza con sottile grafia femminile e io la lasciai cadere:
‘Caro Lory! Pensa un po’, la piccola studentessa bionda di filosofia si è fidanzata sul serio. Dall’altro ieri la cosa è anzi ufficiale. E tu sei ancora vivo? Potrai sopravvivere con tutto ciò? Così si comporta tutta la gioventù. Scrivi presto. Pensiamo spesso a te.’
La scrittura fu iniziata quando tu andavi all’ attacco sul terreno, incitando i tuoi volontari che ti seguivano gridando. E’ stato un superbo contrattacco. Quando la scrittura è terminata, il tuo cuore non batteva più e i tuoi occhi vitrei fissavano il vuoto nulla… La bionda filosofa penserà ancora che tutto sia accaduto per causa sua”.

Il fiume Piave, da perfetto modellatore del paesaggio fatto d’acqua e di tempo, ci ricorda anche che i confini, in una visione di lungo periodo, possono essere privi di motivo e regolarità. La terra non appartiene all’ uomo. E’ l’ uomo che appartiene alla terra. Inoltre la natura non è un lusso, bensì la nostra padrona di casa. Il tempo è il vero lusso.
Sono emerse recentemente cognizioni finora ignorate che potrebbero capovolgere più di qualche convinzione. Ci riferiamo agli Atti del Processo di Beatificazione di Carlo I d’ Asburgo, ultimo imperatore della Casa d’ Austria. Nella documentazione “Summ. Test., pagine 221-222 (Elisabeth Charlotte) sono contenuti importanti riferimenti alla Grande Guerra. Si ha l’ impressione di bere a un’ altra coppa. L’ argomento è interessante, anche se rimane attuale la pericolosità di giocare col fuoco, già ricordata da Giove a Prometeo.
Divulgare tali informazioni sarebbe come discutere con le credenze delle folle, situazione che equivale a discutere con un ciclone secondo l’ espressione di Gustave Le Bon, filosofo sociale francese.
Conviene allora concludere l’ argomento con l’ istruttivo racconto dello scrittore Giovannino Guareschi, il quale pure può suggerire qualcosa: “Correva l’ anno 1918 e io lo lasciai correre. Anche perché era un anno difficile. Il 4 novembre scoppiò la pace e cominciarono i guai”.

Il fiume Piave, il fiume di famiglia, che non scorre solo poiché noi scorriamo con lui, è creatura selvatica più vicina alle leggi della natura che a quelle dell’ uomo. Esso ci rammenta che alla fine il campo coltivato prevale sempre su quello di battaglia. Per questo il corso d’ acqua non sopporterà in eterno l’ ingiuria degli uomini senza reagire.

Ci fu un tempo in cui gli abitanti delle campagne rivierasche conobbero la parzialità della natura, la quale riservava a ciascuno la propria parte di ghiaccio: ai poveri purtroppo durante l ‘ inverno, ai ricchi durante l’ estate!
Ebbene, la nostra gente è riuscita a modificare tale realtà. Essa riuscirà anche a fare in modo che il fiume non venga stravolto. L’ uso dell’ ambiente sta bene, ma non il suo abuso anche se per caso ci fosse qualche “decretino” a consentirlo.
Il fiume Piave è una forza naturale e rappresenta nella zona l’ unico corridoio biologico tra le Alpi e l’ Adriatico, dove un tempo la polenta era il solo denominatore comune. Esso solcava la “Terra dei Larìn”, già ricca di povertà e intrisa dalla rugiada lunare qui denominata ancestralmente “aguàth”, scorrendo tra gli argini verdi come il mormorio del tempo non addomesticato da alcuna clessidra onoraria.
Il paesaggio plurale, la comunità vegetale sulle rive, il cenacolo del vino, il velluto pungente dell’ ortica, le pannocchie dai grandi denti e la galassia dei fiori vengono vicini come per toccarti. Questi campi sono volti, sguardi, mani tese o richiuse. Quando si capta la realtà di queste presenze, si entra in preghiera con esse, non si è più estranei alla loro superficie.

P.S.- Se il fiume Piave potesse esprimere un desiderio e gli uomini fossero in grado di capirlo, questo sarebbe il seguente: “Poiché la Storia è la maestra della vita, è un dovere raccontarla tutta quanta ed esatta. Essa è un arcobaleno liberatorio, che la letteratura maiuscola non finisce mai di mettere nella luce più giusta”.

(Testo del documentario “Sulle orme della Grande Guerra”. Comitato Imprenditori Veneti “Piave 2000” – Anno 2005).



NUOVI EQUILIBRI

Capita che una scoperta declassi un oggetto in precedenza utile. Si pensi, per esempio, ai fiammiferi. Tra poco la gioventù non saprà che cosa fossero. Consideriamo i canali di Suez e Panama. Importanti rotte marittime sono cadute in disuso con negative conseguenze per certe zone e con vantaggi per altre. Ciò non accade solo nei mari, ma anche nei continenti.
Il canale “Ludwig” collega i fiumi Meno e Danubio. La prima idea risale a mille anni fa, ma fu il Re Ludovico di Baviera, il mitico Ludwig, a riproporla nell’800.
L’impiego della ferrovia penalizzò allora quella via d’acqua resa possibile da geniali opere idrauliche da Bamberg a Kehlheim e dunque lunga 172 chilometri. Il canale viene ripreso attualmente in considerazione. I bassi costi di gestione per un traffico fluviale dal Mare del Nord al Mar Nero, senza i passaggi da Gibilterra e dal Mediterraneo, sposteranno i trasporti in altre direzioni. In tale favorevole processo assumono nuovamente particolare rilevanza i Paesi della Mitteleuropea danubiana grazie proprio al canale “Ludwig”. Le implicazioni per i traffici, e dunque per attività produttive e di trasformazione, saranno molteplici poiché anche per la Serbia, unitamente ad altri Stati senza il mare, l’uso dei porti marittimi diventerà secondario. La domanda e l’offerta sono pur sempre le supreme leggi del mercato. I primi beneficiari saranno la Baviera, l’Austria, le Repubbliche ceca e slovacca, l’Ungheria e la Serbia, tutte strade che escono dalla stessa valle. L’indotto sarà costituito dal cosiddetto Nord-Est e dalla Slovenia, cui seguirà la Croazia. Avrà luogo, in altre parole, un ricompattamento della Mitteleuropea con interessanti ricadute per il Veneto.
La Regione ha fatto grandi passi ormai e soltanto la miopia dei presbiti potrà illudersi che la dimensione culturale rimanga disgiunta da quella operativo-economica. E’ noto che la rassegnazione è la professione dei Veneti, ma potrebbe anche accadere che qualcuno sia disoccupato.

(Il Piave, mensile. Conegliano, gennaio 2005)



LE QUATTRO GIORNATE DI MILANO

Qualcuno obietterà che le “giornate di Milano” furono cinque. E’ esatto, ma solo per le giornate utili a certa storia, cioè quella risorgimentale del 1848. Ve ne furono altre quattro cinquant’ anni dopo, ma queste sono decaffeinate nelle greppie mentali per motivi di opportunità. Ci sono cose che sono come un infamante segreto di famiglia che non si deve dire.
Tutto incominciò il 6 maggio 1898. I milanesi si ribellarono contro l’esagerato costo della vita. Quarantamila dimostranti furono contrastati da ventimila soldati comandati dal gen. Fiorenzo Bava - Beccaris durante lo stato d’assedio disposto dal Governo Rudinì. I morti furono 100, i feriti 500; gli arrestati 800. L’impiego dell’artiglieria fu consistente. In un sito Internet si legge: “La tragica reppressione milanese si inquadra nei tentativi reazionari e liberticidi che contrassegnarono gli ultimi anni del Regno di Umberto I°”. Il generale fu decorato con la Croce di Grande Ufficiale “per il grande servizio reso alle Istituzioni e alla civiltà”.
Sia consentita una piccola disobbedienza. Se quella strage fosse stata effettuata dagli Austriaci di Radetzki, che cosa sarebbe accaduto? Semplice: avremmo avuto l’eterna indignazione generale, lapidi a ricordo di quella barbarie, commemorazioni annuali di vasta portata e sceneggiati televisivi a non finire. Invece Bava –Beccaris non compare nemmeno nell’Enciclopedia Italiana Treccani. Ricorre, è vero, asetticamente nella Piccola Treccani , ma senza ascrizione di responsabilità.
Anche in questo caso ci furono esecutori e mandanti. Per i primi non c’è nulla da aggiungere. Per i secondi, invece, la memoria deve diventare interrogazione del possibile.
Il Principe Alfonso Serafino di Porcia viveva a Milano nel palazzo color crosta di panna cotta ove attualmente si trova l’Automobile Club. Noto è il suo legame sentimentale con la cognata Contessa Eugenia Vimercati Sanseverino, che egli sposò nel 1865 dopo la morte del di lei marito. La figlia della Contessa, nata dal primo matrimonio nel 1835 e chiamata pure lei Eugenia, fu adottata come figlia da Alfonso Serafino di Porcia. La ragazza sposò il Duca Giulio Litta Visconti Arese, ma divenne presto l’amante di Umberto I° di Savoia con tutta l’influenza che da ciò le derivava.
Il parco della villa reale a Monza e il giardino della residenza di Eugenia erano contigui e ciò facilitava gli incontri a chiaror di lucciola. Non è improbabile che la donna abbia suggerito al Re nel 1898 di usare le maniere forti a Milano, diventando in tal modo una responsabile indiretta, una mandante, dei luttuosi avvenimenti. Giancarlo Pizzi, sempre bene informato, dà preziose indicazioni al riguardo con la sua relazione negli Atti del Convegno sui Porcia del 1994 (pag. 100). Che una bella donna sia in grado di influenzare un regnante è fuor di dubbio. Che ci fosse, però, una specie di Contessa di Castiglione imparentata, benchè non consanguinea e meno avvenente della Castiglione, con i Porcia non era noto. Tuttavia a pensar male si commette peccato ma si indovina, è stato autorevolmente sostenuto. Anche l’uccisione del Re Umberto nel 1900 potrebbe dunque essere stata una ritorsione per le “quattro giornate di Milano”.
[Il Piave, mensile stampato a Conegliano, feb. 2005]


ANDREA MINUCCI DI SERRAVALLE (1512-1572) MEDICO INSIGNE, ARCIVESCOVO DI ZARA, PRECURSORE DI MINUCCIO MINUCCI.

“A Sua Altezza Imperiale e Regia Otto d’Asburgo-Lorena, Erede e Patrocinatore dell’Impero Austriaco, Signore di Venezia e di Dalmazia”.

Dobbiamo all’ Abate Jsacopo Bernardi alcune delle scarse notizie sulla vita e l’opera di Andrea Minucci. Egli nacque nel 1512 a Serravalle. La località, già nota nella storia per varie e valide ragioni, fu descritta da Giannantonio Flaminio come “amenissima”. Il Barbieri la rappresentò come “cupe orride gole Serravallesi”.
Iacopo Monico, nominato Patriarca di Venezia, scrisse al suo successore nella Sede Episcopale di Ceneda entusiastiche parole su Serravalle (1). Camillo De Carlo, ultimo proprietario di Palazzo Minucci, la definì in un manoscritto inedito (2) come “una contrada chiusa, di un borgo chiuso alla radice delle Prealpi”. L’ elegante scrittore di poesie latine Giovanni Piazzoni (3), che di Andrea Minucci fu amico, ne delineò in due versi l’ esistenza: “Pirei dum medicor celebre: post, sancta deorum Relligio tenuit, morior medicamine falso”. Andrea Minucci studiò in un primo tempo filosofia a Padova e proseguì poi gli studi di medicina presso lo stesso prestigioso Ateneo veneto. Esercitò la professione medica a Venezia con maggiore fortuna di quella che ebbe curando se stesso, essendo egli deceduto probabilmente a causa di una terapia sbagliata!
L’illustre Serravallese frequentò a Venezia la famiglia Corner e fu particolarmente apprezzato da Alvise e Federico, entrambi vescovi e cardinali, nati rispettivamente nella città lagunare nel 1517 e nel 1531.
Un episodio fu determinante per Andrea Minucci. Alvise Corner, Cavaliere Commendatore di Malta, aveva deciso di recarsi a Parigi e di farsi accompagnare dal Minucci. Le ragioni del viaggio non sono note, ma forse potevano riguardare le vicende dell’Ordine Sovrano dei Cavalieri Ospedalieri di San Giovanni di Gerusalemme, detto di Rodi, detto di Malta. A quell’ epoca è infatti attribuibile la ripartizione dell’ Ordine in otto “lingue”, tre delle quali assegnate alla Francia. Il viaggio iniziò il 5 ottobre 1549. Federico Corner, vescovo di Treviso, li aveva preceduti a Lione, dove tutti si riunirono il 10 novembre. Proprio in quel giorno era però morto il Pontefice Paolo III (4) e divenne inevitabile che Alvise Corner si recasse a Roma per il Conclave. Il prelato veneziano andò a Marsiglia per imbarcarsi alla volta di Civitavecchia. Andrea Minucci si mise in viaggio per Venezia, dove giunse nel gennaio 1550 e ricominciò a fare il medico. Alle sue cure ricorreva una scelta e agiata clientela. Poco dopo, l’ 8 febbraio, fu eletto il Pontefice Giulio III (5).

Alvise Corner invitò Andrea Minucci a Roma. Questi accettò il 14 settembre 1550. A questo punto avvennero alcuni fatti determinanti per la qualificazione e la futura carriera del Minucci. Il Cardinale Andrea Corner morì puntualmente (si fa per dire) a Roma il 30 gennaio 1551. Alvise Corner, che già rivestiva la carica di Arcivescovo di Zara, successe al suo defunto parente Cardinale in data 20 dicembre 1551. Non fu un caso che Andrea Minucci entrasse, proprio in quel tempo, nella carriera ecclesiastica. Alvise Corner, oberato dagli impegni della porpora cardinalizia, rinunciò nel 1555 all’ Arcivescovado di Zara. Gli successe il suo Vicario Muzio Calini. Sempre, non per caso, il Calini fu subito dopo (nel giugno 1555) promosso dal Pontefice Paolo IV (6). La sede arcivescovile risultò dunque vacante. Il Cardinale Corner riassunse la carica, ma soltanto per consegnarla ad Andrea Minucci, il quale nel frattempo aveva raggiunto i requisiti formali per esserne investito. La conferma del Pontefice Pio V (7) giunse il 18 novembre 1567, quando l’Arcivescovo Andrea Minucci aveva 55 anni (8). Nei cinque anni del suo ministero Andrea fu sensibile ai pericoli di guerra che incombevano su Zara. Egli ritornò infatti a Venezia per sollecitare provvedimenti (9). Anche a Serravalle fece ritorno con festosa accoglienza (10). Durante il viaggio di ritorno a Zara sostò a Venezia, dove morì nel 1572 all’età di 60 anni. I fratelli Nicolò e Girolamo fecero portare la salma a Serravalle (11). Di Andrea Minucci così scrisse Giangiuseppe Liuti: “… che questo Andrea abbia opere in pubblico nol so: credetti una volta che la Vita di S. Augusta fosse di lui, ora si vuol credere che sia di Minuccio (l’ autore della storia degli Uscocchi), e lo è in fatto”. Bartolomeo Francesco Gera (12), erede di averi, libri e archivi dei Minucci, non evidenziò alcunché di notevole su Andrea Minucci. Il Farlati diede poche notizie nel Tomo V dell’opera “Illyrium sacrum” (pag. 127 e seg.)- L’Ughelli trattò il personaggio nel Tomo V dell’opera “Italia sacra”, ma con poca esattezza (Andrea sarebbe morto e sepolto a Zara!) - Un solo cenno proviene da Valerio Ponte, Arcidiacono della Chiesa Arcivescovile di Zara, nel suo libro “De Ecclesia Jadrensi”. Nulla si seppe dall’Abate Domenico Capretta (13). Di più apprendiamo dall’opera “Nobiltà d’Italia” di Giampietro dè Crescenzi, stampata a Bologna dal Tebaldini: “Da questa patria (Serravalle) e da questa famiglia antica, seminario d’uomini segnalati, sono usciti Monsignor Andrea Minucci Arcivescovo di Zara, che per la sua modestia, integrità e dottrina, si acquistò presso tutti il cognome di buono. Girolamo suo fratello, celeberrimo Giureconsulto, padre di Monsignor Minuzio dà Minucci, Arcivescovo di Zara, Abate di San Crisogono e Preposito di Attinga Vecchia in Baviera, già Segretario dei Romani Pontefici Innocenzo IX e Clemente VIII”.
Si trattava di Minuccio Minucci, nato a Serravalle nel gennaio 1551, che aveva soggiornato a Zara presso lo zio Arcivescovo, preparandosi in tal modo ad assumerne l’alto ufficio. Egli fece apporre un’iscrizione nel Battistero di quella cattedrale (14) e dispose la celebrazione di una messa quotidiana in suffragio di Andrea.

N O T E

1) “Te vocat aprico Cenetensis acumine clivus/ Te placido illimis Mesulus omne vocat/ Gens ubi virtutes et pulchras excolit artes/ Et viget antiquae religionis amor ».
2) La casa di fronte, 1948.
3) Fu contiguo a Francesco Rebertello, Pietro Pagano, Marcantonio Flaminio, Cardinale Dalla Torre, Girolamo Amalteo…
4) Alessandro Farnese, allievo dellUmanista Pomponio Leto. Fu eletto papa all’età di 66 anni dopo un’esistenza alquanto turbolenta. Ebbe parecchi figli illegittimi, fra i quali Pier Luigi, “famoso nella storia dell’umana perversità” secondo il Ricotti.
5) Giovanni Maria Ciocchi del Monte. Figura non esemplare. Dedito al gioco d’azzardo e altre sregolatezze. Il Panvinio scrisse di lui: “Non conobbe la grandezza del papato”.
6) Gian Pietro Carafa. Personaggio duro e collerico, esercitò largamente il nepotismo (Carlo Carafa fu nominato Cardinale quantunque rozzo soldato, dalla vita sregolata e scandalosa).
7) Michele Ghislieri, domenicano. Introdusse notevoli riforme nella corte papale e negli Ordini religiosi. Abolì il nepotismo, ma non fu immune da eccessi d’altro genere. Sotto il suo pontificato ci furono persecuzioni contro i Protestanti in Veneto specialmente nell’anno 1568. Durante il papato di Pio V ebbe luogo la battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571).
8) Il Piazzoni scrive: “Si quicquam charo, de quo quam chare Minucci/ Est gratum adjuro gratis esse potest / Nil mihi quam de te magna quod venit ad urbe/ Quod Divum claro sis quoque tu in solio/ Nec tantum patriae quam toto gratulor orbi/ Quod bene te, tanto preside, tutus erit”.
9) Il Piazzoni scrive: “Pro reditu reverendissimi Andrete Minutii – ad classem venetam: Adriaci portus, et quae tegis aequora Classis, / tutus ab insidiis quisquis ut alta petat;/ Sic vos turca ferox timeat, vos Pronus honoret/ Sic liceat placida posse quiete frui;/ Vos precor in patriam dum Thyrsis vela reverit, (Musulei Thyrsis fama decusque soli)/ Vos nunc este boni, tacitos praebete recessus,/ Nel, duce te, classis, sentiat ille dolos”.
10) Piazzoni scrive: “Fama est in patriam te primo vere reverti: O utinam verum nuncius ille ferat! Pro quo Thura calent, precibus chorus omnis in ipsis, Audiat Omnipotens quas Deus aure bona! Interea et placido subsidant acquora fluctus Et te tranquilla aura vate ».
11) Nella chiesa di S. Andrea, parete di destra presso l’altare maggiore, c’è l’eopigrafe tombale: “Jesu Cristo Redemptori/ Andreas Minutius Jo. Filius/ Artium Scientiarumq. Peritissimus/ Jaderae Archiepiscopus/ Ibi Romae et Ubiq. Clare vixit/ annum agens LX Venetiis obiit/ Nicolaus et Hieronymus S.D./ Fratres Fratrem maerentes/ Huc Deferii et Deponi Curarunt MDLXXII”.
12) Dal quale Giuseppe De Carlo acquistò il Palazzo Minucci.
13) Ceneda, 12.7.1858.-…Non ho trovato nulla che lo riguardi…-
14) Iscrizione nella cattedrale di Zara, Cappella del Battistero:
CHRISTO REDEMPTORI/ ANDREAE MINUTIO SERAVALLENSI7 DOCTRINA RERUM USU CHAR. PRAELATISSIMO7 PER PIUM V PONT. M. JADR. ARCHIEP. CREATO QUI MORIENS/ INCREDIBILE SUI DESIDERIUM BOONIQUE COGNOMENTUM APUD JADR. RELIQUIT/ LONGIS PEREGRINATIONIBUS/ MINUTIUS EIUS EX HIERON, FRATER NEPOS/ IN PACIS AC BELLI STUDIIS VERSATUS BAVARIAE DUCIBUS A CONSILIIS AB IIS HONORIBUS ET OPIBUS AUCTUS/ AC TABDEM INNOC. IX ET CLEMENTIS VIII SUMMI PP A SECRETIS/ CONFECTA DIUTURNIS LABORIBUS VALETUDINE INTEGRA TAMEN AETATE/ AD EODEM CLEMENTE QUI DE EPISCOPIS DILIGENT. EXAMINANDIS LEGEM LAUDATISS TULIT/ XXX POST PATRUUM OPTIMUM ANNO EIDEM ECCL. PRAEFECTUS ET ABBATIAE S. CRISOGONI DONATUS/ MONUMENTUM P. ALTARIA AEDIFICAVIT ET CONSACRAVIT LOCUM TOTUM EXORNAVIT/ SEPULCRUM SIBI DESIGNAVIT ATQUE QUOTIDIANUM SACRUM IN PATRUI/PARENTUM FRATRUM BENEFACTORUM SUISQUE IPSIUS ANIMAE SALUTEM INSTITUIT/ ANNO MDXCVIII/ VIXIT ANDREAS ANNOS LX OBIIT MDLXXII/ VIXIT MINUTIUS ANN. LIIII OBIIT MDCIII/SUMMA APUD BAVARIAE DUCES PRO REPUBLICA CHRISTIANA/NEGOTIA PERTRACTANS.



(Atti del Convegno Internazionale 6 maggio 2000: I Minucci.- Circolo Vittoriose di Ricerche Storiche, Vittorio Veneto.)



NAPOLEONE E IL VENETO


Tra il 1805 e il 1813 Napoleone III considerò, seppure tra notevoli insorgenze, il Veneto per un suo progetto che si rivelò una cruna senza ago.
Il 16 agosto 1806 il Sacro Romano Impero si trasformò in Impero d’Austria a causa delle mutate condizioni politico-teritoriali. L’ultimo Imperatore ereditario, Francesco II d’Asburgo, era praticamente succeduto a se stesso con il titolo di Imperatore d’Austria nell’indiscussa capitale Vienna, cuore e ultima leggenda d’Europa.
Il dominio napoleonico si avviò poi alla fine. Il Congresso di Vienna, svoltosi tra il 22 settembre 1814 e il 10 giugno 1815, stabilì che il Veneto dovesse ritornare nell’ambito asburgico. Dal punto di vista giuridico non c’era nulla da eccepire. L’ultimo monarca a cingere la Corona Ferrea, con la quale si incoronavano gli Imperatori del Sacro Romano Impero, fu Ferdinando II, da non confondere con il suo omonimo e ben più valido antenato cinquecentesco. Lo stemma ufficiale dell’Austria contiene infatti legittimamente anche il Regno di Venezia.
Dopo il 1866 il Veneto divenne parte del Regno d’Italia, evento sancito dal discusso plebiscito del 27 ottobre nello stesso anno. Il determinante arbitro delle vicende politiche in gran parte dell’Europa era allora Napoleone III, Imperatore dei francesi. La sua prospettiva è riassunta nella lettera del 24 luglio 1859 all’Imperatore Francesco Giuseppe: “Poiché Vostra Maestà mi ha detto a Villafranca che la questione della Venezia sarà precisamente quella del Lussemburgo nei confronti della Confederazione germanica, tutto dipenderà dalla maniera nella quale il Vostro Rappresentante esaminerà la questione e intenderà risolverla”.
La posizione austriaca è ancora più chiara, come risulta dalla corrispondenza del Principe di Metternich con il Ministro degli esteri Rechberg in data 27 settembre 1859: “A Villafranca, a proposito della posizione che dovrebbe prendere la Venezia nella Confederazione italiana, i due Imperatori hanno nominato il Lussemburgo per precisare in qualche modo l’analogia che esisterebbe fra queste due Province”.
Il Veneto doveva dunque diventare un Granducato indipendente, eventualità che smentisce la propagandata, unica alternativa della sua annessione al Regno d’Italia.
Per comprendere come quel piano sia fallito, è il caso di ricordare che a quel tempo si trovava a Parigi Virginia Oldoini Verasis. Si trattava della famosa contessa di Castiglione, un’adrenalinica bellezza disponibile e disposta.
La presenza della nobildonna a Parigi non era casuale o turistica.
Cavour stesso aveva infatto scritto al senatore e storico Luigi Cibrario il 21 febbraio 1856 di “aver arruolato nelle file della diplomazia la bellissima Contessa di Castiglione, invitandola a coqueter (civettare) e a sedurre, ove d’uopo, l’Imperatore”.
Se si aggiunge che nel 1866 Napoleone III aveva già 58 anni e la signora soltanto 29, si possono comprendere molte cose. Rimarrebbero tuttavia da chiarire alcuni interrogativi. Come si potrebbe con un altro termine denominare l’istigazione a commettere adulterio nei confronti del marito, peraltro alto dignitario di Casa Savoia?
Si sarà trattato di corna imperiali, ma sempre corna erano!
Premesso che il rappresentare austriaco non poteva competere con gli argomenti della contessa, come potrebbero essere configurati questi servigi? Prestazioni occasionali e saltuarie, oppure collaborazione coordinata e continuativa? La supposta verità - che non è un medicinale da assumersi per via esclusiva - allude piuttosto alla seconda ipotesi, con costi a carico dei sudditi s’intende.
Dato infine per scontato che la seduzione è l’illusione del migliore aspetto della vita, sarebbe stata ipotizzabile a Vienna la stessa operazione di Parigi? No di certo! A parte le 229 dame della corte asburgica, tra le quali poteva pure distinguersi almeno statisticamente qualche eccellenza, a Vienna c’era l’Imperatrice Elisabetta, la mitica Sissi.
Si può dire che tra i vari pericoli, cui Francesco Giuseppe era esposto per il suo ruolo di Imperatore, mancava certamente la probabilità di essere preso a cornate.
In conclusione: per Napoleone III il Veneto valeva bene una bella donna, come in una precedente occasione Parigi valse bene una messa. Per il Veneto, invece, senza la contessa di Castiglione, niente annessione al Regno d’Italia.


(Quaderni del Lombardo-Veneto, n. 58, pag. 58-59. Padova 2004).



P A L A Z Z O M I N U C C I – D E C A R L O : I L S A L O T T O D E L L E G I A D E


Inserire foto cartello inventario austriaco con didascalia: “ Avviso del Comando supremo Austro-Ungarico affisso sul portone di Palazzo De Carlo (documento di alto valore storico, a testimonianza della correttezza dell’esercito AU)

Nel numero di marzo 1995 “Il Piave” si è occupato di alcuni documenti non noti che sono parte integrante della Fondazione “M. Minucci”, in quanto connessi con le vicende del Palazzo De Carlo e di chi l’ha abitato. Viene ora proposta la descrizione di uno dei più piccoli e prestigiosi ambienti della dimora che rappresenta una dimensione importante del patrimonio culturale vittoriose.
L’arte orientale è già presente nel palazzo: basti pensare ai vasi attualmente nel salone d’onore vigilati dai personaggi della storia antica dipinti da A. Lazzarini. Ma la stanza delle giade è un concentrato di gusto orientale. L’ambiente è intenzionalmente poco illuminato, affinché meglio risalti, nell’atmosfera seducente, la collezione delle dodici giade.
La parete centrale è ricoperta da tre pannelli: uno persiano lavorato ad ago con motivi floreali e due cinesi a ricamo policromo raffigurante paesaggi orientali. Alle pareti laterali pendono altri due pannelli a ricamo su seta, pure con decorazioni floreali, ma soltanto uno sarebbe originale.
L’arredamento è completato da divani in seta rosa, un basso tavolino in cristallo il cui piano copre un tessuto damascato, un grande tappeto di Smirne (mt.4,20 x 2,10) in cui prevalgono i toni rosa e azzurro, un lampadario bianco sottile ed etereo che accentua l’atmosfera seducente dell’ambiente.
Le giade sono esposte come su un altare presso la parete centrale. Ci sono un grande vaso rosa con coperchio dalla superficie decorata con draghi e altri animali, due vasi cinesi, uno verde con coperchio e manici di ottone sbalzato, con decorazioni di volatili sui rami. Il vaso con manici e coperchio in giada colorata, che pure raffigura uccelli su un ramo, merita una particolare menzione. Potrebbe essere dipinto, ma se così non fosse, ci troveremmo di fronte a un raro capolavoro di giada birmana dal colore “giallo d’uovo”, com’è chiamato il materiale con cui fu realizzato. Altri due vasi cinesi verdi raffigurano animali stilizzati: sul coperchio un leoncino con ali esigue, forse una chimera. La coppia di aquile cinesi ha le teste smontabili? Questo non è tuttavia l’unico particolare notevole: becchi e artigli sono poderosi, con unghie quasi umane.
Quasi alla sommità risalta per la squisita fattura una coppa arancione lavorata a pelle d’uovo. Nello spazio centrale del gradino più alto si trova una divinità cinese verde affiancata da due vasi lavorati in “pietra saponaria” e col coperchio sormontato dal mitologico leone cinese. Il pezzo più pregevole è tuttavia rappresentato da un blocco di giada rosa, quasi bianca, raffigurante anatre.
Di fronte alla bellezza di questi oggetti si può comprendere e giustificare l’alta considerazione attribuita in Oriente agli artisti che lavorano la giada. D’altronde questa pietra (silicato di calcio e magnesio con durezza 6,5 alla scala di Mohs), nota quale rimedio per i calcoli renali, corrispondeva a una vera e propria pietra preziosa ed era simbolo sia di purezza, sia di ricchezza materiale e spirituale.
Le giade di Palazzo De Carlo sono illuminate ad una ad una, ma con fonti luminose sorpassate. Sarebbe doveroso adeguare l’illuminazione (ma allora non solo quella del “salotto”) con le numerose soluzioni offerte dal progresso.
Si ha motivo di ritenere che, qualora esista l’intenzione di valorizzare la Fondazione nel senso del testamento con il quale questa fu istituita, qualche sponsor del settore dell’illuminazione potrebbe pensare a un investimento in cultura.

(Il Piave, mensile. Conegliano V.)




PORCIA

“A le memorie de done mari,
Carmele di Brugnere,
cun sentiment agrât di fi”


Non si può parlare dei Porcia-Brugnera senza soffermarsi su un’altra antica stirpe: i da Prata.
Sia i Porcia, sia i da Prata erano tra le più importanti famiglie del Patriarcato di Aquileia.
I loro voti furono spesso determinanti nel Parlamento friulano. In occasione di conflitti i relativi
Feudi fornirono notevoli contributi sia in “elmi”, cioè cavalleggeri pesanti, sia in fanteria.
Nel 1419 i da Prata, dopo la distruzione del loro castello ad opera dei Veneziani, uscirono per sempre dalla storia friulana. I loro beni furono poi venduti, nel 1514, a Daniel Florido da Spilimbergo. Si dice tuttavia che la casata continui ancora in Ungheria, ma con il nome di Palffy. I Porcia-Brugnera, invece, rimasero.
Risaliamo nel tempo per meglio capire gli avvenimenti.
Il 1164 è l’anno della comparsa ufficiale dei Prata-Porcia, poiché con questi nomi abbinati deve essere considerata la dinastia. Per la verità, già nell’anno 739 il re longobardo Liutprando aveva concesso la contea di Ceneda a Giovanni Porcia, ma si ha motivo di ritenere che la posizione più certa fosse quella di “Avogaro” di quel vescovado.
L’albero genealogico dovrebbe dunque iniziare con Gabriele, padre di Vecelletto, signore di Prata, Porcia e Brugnera; infatti il 30 aprile dell’anno 1181 egli fu insignito dal vescovo Sigifredo di un castello in Ceneda e nel 1188 ricevette dal Patriarca Gotofredo l’investitura delle terre di Porcia e Brugnera, che si estendevano presso la riva sinistra della Livenza in territorio friulano. Soltanto i conti di Gorizia potevano vantare un’investitura con tanti beni. Gli altri nobili si dovevano accontentare di solito, sempre per l’investitura, di un ben più modesto dono: un lembo della veste del Patriarca. Vecelletto fu anche a capo di un esercito che doveva contrastare certi programmi trevisani per quanto riguardava la Sinistra Piave.
Le cose finirono molto male: comandante ed esercito furono fatti prigionieri ed il primo dovette, anzi, obbligarsi a risiedere a Treviso un mese l’anno.
Vecelletto ebbe due figli: Gabriele e Federigo. Esercitarono l’Avogaria a Ceneda, finchè i da Camino non li sostituirono in seguito alle “lottizzazioni”, che anche nel Medioevo esistevano e come! Gabriele e Federigo, invece che attenersi alla massima che “l’unione fa la forza”, divisero i loro beni. Era il 1203, poiché finchè era vivo il padre, non si sarebbero azzardati a un tale passo. Gabriele assumerà il nome “da Prata”, Federigo si chiamerà “di Porcia”. Infatti ricorre in un un documento dell’undicesimo secolo.
Nel 1214 insorse una contesa per la definizione dei confini tra le proprietà dei da Prata e dei Porcia-Brugnera. Fu accettata di buon grado la mediazione di Ezzelino II° da Romano, detto “il monaco”. Ciò preoccupò non poco il Patriarca di Aquileia, al quale era nota la parentela dei suoi feudatari con la famiglia da Romano, che godeva di una pessima fama. In realtà la parentela esisteva. Vecelletto aveva infatti sposato Gisla da Romano, figlia di Ezzelino il Balbo. Per allontanare i sospetti, Vecelletto aveva per la verità provveduto a diventare provvisoriamente guelfo, anzi aveva perfino combattuto a Legnano nel 1176 contro il Barbarossa. Poi presenziò alle trattative di pace tra l’imperatore svevo e il pontefice Alessandro III° a Venezia, ma sulla sua fede guelfa non si potrebbe giurare.
Dopo la morte di Ezzelino da Romano, avvenuta nel 1260, i da Prata ed i Porcia si riabilitarono presso il Patriarca di Aquileia.
I da Porcia furono poi sempre presenti, ed in primo piano, in tutti gli eventi storici del Friuli, prima contro l’espansionismo in terra ferma di Venezia, quindi contro le invasioni turche, infine nelle guerre napoleoniche.
Per citare un episodio, nella Battaglia di Lepanto, allorché il comandante della flotta Agostino Barbarigo fu gravemente ferito ad un occhio da una freccia (si era appena alzato la celata dell’elmo per asciugarsi il sudore!), Silvio di Porcia assunse il comando della nave ammiraglia.
Si distinsero anche in campo culturale (Jacopo si laureò a Padova in giurisprudenza nel 1509, scrisse trattati militari e fu mecenate di studiosi. Giovanni Artico fu drammaturgo e amico di G.B. Vico; Francesco Serafino, nel ‘700, fu noto archeologo e lasciò numerosi scritti); in campo ecclesiastico (Girolamo il Vecchio e Girolamo il Giovane furono nel ‘500 rispettivamente nunzio apostolico e arcivescovo di Adria; Leandro fu benedettino a Montecassino, poi nel 1728 fu eletto vescovo di Bergamo ed infine fatto cardinale); in campo politico (Giovanni Ferdinando, nato nel 1605, ottenne il Toson d’Oro e fu ministro dell’imperatore Leopoldo I°; Alfonso Gabriele, X° principe, fu governatore di Trieste dal 1817 al 1822 e contribuì notevolmente allo sviluppo della città e per primo ebbe l’idea di fondare una Cassa di Risparmio).
L’XI° principe, Aladar, morì pochi decenni fa ponendo fine al ramo principesco ungherese di una casata che ha onorato Porcia e il Friuli.

(Il Fogolâr Furlàn di Milano)



LE TERRE DI PORCIA E BRUGNERA ED IL LORO CONTRIBUTO ALLA LETTERATURA E ALL’ ARTE DEL PASSATO


Dopo la morte del cardinale Pileo da Prata, avvenuta nel 1400 a Padova, la riserva di ingegni sulla riva sinistra della Livenza sembrava esaurita. Ma a confermare un’ autorevole presenza nella cultura del tempo provvide Jacopo di Porcia. Nato nel 1462 dal conte Artico e da Francesca Padovani di Colloredo, egli pubblicò un trattato pedagogico nel 1492 a Treviso grazie all’ arte tipografica di Gerardo di Fiandra. E’ il caso di ricordare che la prima pubblicazione della Bibbia ebbe luogo nel 1534, dunque l’ opera di Jacopo costituisce un precedente di rilievo.
Tra le indicazioni pedagogiche del trattato ricorre quella di far istruire i bambini da una scuola privata fino al decimo anno di età; poi è consigliabile proseguire gli studi presso una scuola pubblica, perché vi vengano letti con cura Cicerone e Tito Livio. L’ insegnamento della morale non è indispensabile: i bravi ragazzi migliorerebbero, ma i cattivi soggetti peggiorerebbero! Un secondo trattato celebrò la grandezza di Venezia, ma di maggior valore sembra essere l’ epistolario comprendente la corrispondenza con le personalità contemporanee venete e friulane, ma anche con l’ imperatore Massimiliano I, col Pontano, col Filarete. Nel 1515 comparve un lavoro in due volumi sulla strategia militare. Piacque e fu ristampato in altre tre edizioni, l’ ultima delle quali a Basilea nel 1537. Notevole e originale è il capitolo sulle armi da fuoco.
Nella prima metà del 1600 fu attivo un altro Porcia: Antonio, detto il Purliliese. Prete e precettore, scrisse una cronaca sugli avvenimenti tra il 1508 ed il 1532.
Antonio si chiamava anche un pittore, nato a Udine nel 1507. Un secondo pittore, Apollodoro di Porcia, si affermò invece nella seconda metà del 1500 e all’ inizio del 1600.
Maggiore fortuna ebbe Giovanni Artico di Porcia, nato il 10 agosto 1682 da Fulvio II e da Laura da Maniago. Dopo gli studi presso il collegio dei padri Somaschi di Murano, Giovanni Artico frequentò personalità, quali Ludovico Antonio Muratori e Scipione Maffei. Nel 1721 fu pubblicata la sua tragedia intitolata “Medea”.
Le “Meditazioni sulla grandezza di Dio e le miserie dell’ uomo” del principe Serafino di Porcia furono pubblicate a Udine nel 1825 e costituiscono un’ opera apprezzata per il suo intento devozionale. Anche la tesi di laurea di Alfonso Serafino di Porcia, intitolata “Vantaggi e danni della scoperta del Nuovo Mondo” e discussa a Padova il 21 agosto 1823, costituisce un valido contributo per la comprensione dei punti di vista ottocenteschi. Fino a qui l’attività diretta. Ma c’ è un’ interessante produzione riflessa. A Padova l’ erudito don Sebastiano da Zanella pubblicò un trattato sulla lingua tedesca aulica con un’ intera pagina di dedica a Girolamo di Porcia-Brugnera, vescovo di Adria e nunzio apostolico presso i principi della Germania settentrionale. Nella parte superiore della copertina campeggia lo stemma dei Porcia-Brugnera.
La vita e l’ attività di Giovanni Ferdinando principe di Porcia occupano un’ importante parte del libro di Gualdo Priorato, pubblicato nel 1673. Anche una “Allegoria dedicata al principe Alfonso Gabriele di Porcia”, pubblicata nel 1826, fece espresso riferimento all’ allora stimato governatore di Trieste.
Lo stile, l’ arte e il valore degli edifici di proprietà dei Porcia-Brugnera furono infine il risultato di una volontà di bellezza e splendore. A prescindere dalla magnificenza del castello situato in Porcia, sono illustrati e dettagliamene descritti nell’ opera di J. W. Walwasor, pubblicata a Norimberga nel 1685, i manieri residenziali in Carniola, Ortenburg, Mauthen, Oberdrauburg, Hermagor, Spittal in Carinzia e Lauterach in Baviera, ma bella mostra di sé fanno anche i palazzi a Vienna e Monaco.

(Il Dialogo, Oderzo)



I POSSEDIMENTI DELLA CASATA DI PORCIA E BRUGNERA IN AUSTRIA E IN GERMANIA

“Ignorare ciò che è avvenuto prima che tu fossi nato, è come non vivere” (Cicerone)


Interessanti rapporti tra i Porcia-Brugnera e la Carinzia sono documentati già nel XII secolo (1). Un diploma del 7.9.1178 conferma la donazione al convento benedettino di Millstatt di un podere di 1700 ettari situato a Fontanafredda. Nel 1449 tutte le proprietà carinziane del convento friulano di Moggio, pure benedettino, furono vendute a quello di Millstatt e qurest’ultimo cedette i propri beni posseduti in Friuli, tra i quali San Foca, al conte Bianchino di Porcia.
Oltre due secolo più tardi il prestigio della casata si affermò in Austria Giovanni Ferdinando di Porcia (1602 – 1665) ottenne nel 1657 l’ onorificenza del Toson d’ Oro e il 17.2.1662 fu nominato principe con un decreto di 15 pagine emesso motu proprio dall’ Imperatore Leopoldo. Suo figlio Giovanni Carlo divenne nel 1666 capo del governo carinziano. L’ acquisizione di una contea in Austria era dunque divenuta un obbligo connesso con la nuova dignità e con la fondazione del ramo austriaco dei Porcia, che durò 256 anni.
La contea di Ortenburg rappresentò una buona occasione: l’ ultimo titolare, il conte Giorgio di Salamanca, era morto l’ 8 dicembre 1639. Poiché non c’ erano eredi, la contea di Ortenburg ritornò all’imperatore. Questi la vendette nel 1640 ai baroni Widmann, grandi commercianti di Venezia, per 300.000 fiorini. Nel settembre1661 morì anche il cardinale Christoph Widmann-Ortenburg, che fu sepolto nella chiesa di San Marco a Roma, e Giovanni Ferdinando di Porcia rilevò dai parenti di quest’ ultimo la contea omonima per 365.000 fiorini in data 8 ottobre 1662. Per la precisione i possedimenti che ne facevano parte erano i seguenti: Oberdrauburg, Winklern, Mauthen, Spittal, Hermagor ed altri beni minori. Quanto alla somma pagata, questa corrispondeva, a puro titolo indicativo, ai seguenti parametri: circa mezzo milione di vitelli macellati, circa 7.100.000 polli, 37 milioni di uova, 44 milioni di salsicce, 37 milioni di litri di birra, 37 milioni di tegole, 1500 aratri, 16 milioni di anni di lavoro di un operaio specializzato (10 ore di lavoro al giorno).
Saranno in questa esposizione considerati i complessi di Spittal, Vienna, Monaco di Baviera, Karlstadt (Karlovac) e Primano (Prem).

Il castello di Spittal

La costruzione, oggi nota come Castello Porcia, fu edificata tra il 1533 e il 1539 per volontà di Gabriele di Salamanca, ministro delle finanze del re Ferdinando I, che dal 1524 era anche signore di Ortenburg e intendeva offrire alla sua seconda moglie Elisabetta, diciassettenne figlia del margravio del Baden, una degna residenza realizzata secondo la nuova concezione rinascimentale.
Dopo qualche tempo dall’ acquisizione della contea da parte dei Porcia, e precisamente negli anni 1667-68, il terzo principe Giovanni Francesco Antonio dispose notevoli restauri e vi fece aggiungere lo stemma con le parole: PORTIA AUT PORCIA EX SANGUINE REGUM TROIANORUM ET SICAMBRORUM PROGENITUS.- A tale scritta si sarebbe ispirato Adamo Matteo de Sukovitz nel 1716 per la redazione della genealogia dedicata al quinto principe Annibale Alfonso, che appunto inizia con le medesime parole. Anche il nome Ascanio, aggiunto a quello del quarto principe Gerolamo, doveva avere la medesima funzione.
Il 29.4.1797 il castello subì un incendio e riportò un danno di ben 70.000 fiorini. Il tredicesimo principe Ferdinando fece eseguire gli affreschi esterni, attualmente poco riconoscibili. Sempre a lui si deve il trasferimento nella sala del primo piano di un soffitto a cassettoni proveniente dal convento di Millstatt. Il fregio rinascimentale e il camino in ceramica furono invece fatti venire dall’ Italia. Nel giardino c’ è una fontana del XVII secolo, che prima si trovava al centro del cortile. Quest’ ultimo richiama elementi toscaneggianti per i suoi ordini di arcate semicircolari ed anche esempi lombardi.
La costruzione è un palazzo e non un castello vero e proprio. Già Gabriele di Salamanca lo considerava tale, se nel suo testamento ricorre un termine che traduce il significato veneziano di “Cà”. Ne sono conferma le quattro trifore con balconate del primo e secondo piano, caratterizzate con piccoli leoni. La suddivisione della facciata mediante pilastri accenna nuovamente all’ architettura veneta, eventualmente influenzata da quella lombarda.
Degno di nota sono le decorazioni in pietra e in stucco. Tra le più significative è doveroso ricordare le Meduse, Plutone con due cani infernali, Ercole e il leone, Cronos con la falce, Marte, la Virtù, Giuditta, e altri soggetti mitologici.
Determinante per la dimensione genealogico - storica della contea di Ortenburg è la sala degli stemmi. La serie di 33 blasoni fu commissionata al pittore Martin Ladinig dal 13° principe Ferdinando alla fine del diciannovesimo secolo.
Il 22.4.1918 l’ edificio fu venduto all’ industriale serico di Prata barone Klinger von Klingerstorff (2), dal quale l’ Amministrazione comunale di Spittal lo acquistò per 160.000 scellini. Ora è adibito a Museo.

Il palazzo di Vienna

La costruzione sorge nella Herrengasse e fu acquistata nel 1666 dal secondo principe Giovanni Carlo di Porcia un anno prima della sua morte.
Il palazzo è quasi soffocato dalle case vicine. La facciata è stata rifatta nel 1750. I due cortili hanno arcate rinascimentali sovrapposte, colonne toscane, decorazioni con motivi riproducenti strumenti musicali, due stemmi nella balaustrata.
Nel 1773 il palazzo fu ceduto al Camerario di corte Bartolomeo von Tinti perché il quinto principe Annibale Alfonso non aveva potuto pagare un debito di 39.000 fiorini. Poi vi si insediò la biblioteca amministrativa del Cancellierato.
La modestia architettonica di questa costruzione dipende dal fatto che essa fu edificata nel 1531, quando lo spavento per l’ assedio turco di Vienna, risalente a un paio d’ anni prima, era tutt’ altro che dimenticato. Fu dopo il 1683, cioè con la completa vittoria sul nemico, che la città si sviluppò. Inoltre la residenza ufficiale dei principi di Porcia era Spittal e non Vienna, anche se il primo principe Giovanni Ferdinando morì in questa città il 17.2.1665.

Il palazzo di Monaco
La costruzione sorge nella Kardinal-Faulhaber-Strasse al n. 12 e fu realizzata nel 1693 da Enrico Zuccalli per i Fugger di Augsburg.
Dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale ci fu una ricostruzione nel 1952. La facciata originale è ancora conservata. La casa ha tre piani. Le finestre del primo piano sono caratterizzate da colonnine laterali e dalla pronunciata copertura semicircolare. Notevole è il portale e lo stesso dicasi per il balcone soprastante con decorazioni in ferro battuto.
La residenza divenne proprietà dei Porcia per una strana coincidenza. Il principe elettore di Baviera Karl Albrecht, che fu imperatore col nome di Carlo VII dal 1740 al 1745, aveva avuto una relazione con Maria Josepha Tipor - Morawitzka, figlia di un generale di origine polacca e della contessa di Cernay. Dalla relazione era nato un figlio. E’ il caso di ricordare che il principe elettore non era nuovo a simili avventure. Già nel 1733 egli aveva infatti avuto una relazione con una damigella di corte.. In entrambi i casi la “liquidazione" per le signore fu concretizzata con un buon matrimonio e con un palazzo come dono di nozze: lo sposo della damigella di corte fu il conte Spreti e quello di Maria Josepha fu il sesto principe Giovanni Antonio di Porcia. La prima coppia ebbe il palazzo Holstein, la seconda il palazzo di Monaco. La costruzione del palazzo Holstein e i restauri del palazzo Porcia, effettuati nel 1736, sono opera del medesimo architetto.

La fortezza di Karlstadt

Fu costruita dall’ arciduca Carlo nel 1378 (3) su 9.000 teschi di turchi quali macabre fondamenta. Nel 1704 il complesso fu venduto per 40.000 fiorini al quinto principe Annibale Alfonso di Porcia.
Due possono essere stati i motivi di questa acquisizione:
1) allontanarsi dalle attenzioni della contessa Giuliana Lodron,
2) sfuggire alle pretese dei creditori, fratelli della suddetta ammiratrice.

Le doti militari di Annibale Alfonso erano scarse. Nel 1709 egli riebbe i suoi 40.000 fiorini e ritornò a Spittal. La fortezza fu attribuita al conte goriziano Giuseppe Ribatta. Sono gli anni in cui la strategia di Eugenio di Savoia, rivelatasi vincente, non ammetteva deroghe.- Sia consentito ricordare che il trionfo di questo condottiero costituisce l’ oggetto di un pregevole affresco del pittore veneto Antonio Lazzaroni (26.6.1672 – 16.4.1732), una delle opere più notevoli del palazzo De Carlo (Fondazione M. Minucci) a Vittorio Veneto.

Il castello di Primano

E’ un maniero possente non lontano dal Timavo, appartenuto già ai Patriarchi di Aquileia, ai Duinati, agli Svevi, agli Asburgo, ai Raunach.
Una baronessina von Raunach sposò nel 1894 Ferdinando, tredicesimo (dodicesimo secondo un altro calcolo, che esclude Geronimo Ascanio) principe di Porcia, il quale divenne così signore di Prem. In una stima(4) la rendita del possedimento riguardava 5.000 fiorini annui.
Nei pressi del castello di Primano, a Bittigne, c’ è un ponte sul Timavo che reca lo stemma dei Porcia e l’ iscrizione “Deus felicitas, homo miseria”, che fu un motto purliliese (5).

Mitterburg – Pazin – Pisino

Donazione alla chiesa episcopale di Parenzo già al tempo degli Ottoni (6), poi al Patriarca di Aquileia, indi a Gorizia, ai duchi d’ Austria, a famiglie feudali.
Il 3.8.1660 l’ imperatore d’ Austria rilasciò un diploma di 13 articoli per l’ attribuzione della contea di Mitterburg al conte Giovanni Ferdinando di Porcia, non ancora nominato principe. Il costo della contea era di 550.000 fiorini, ma furono pagati soltanto 350.000 fiorini per graziosa liberalità sovrana in quanto il compratore era primo maggiordomo di corte, presidente del Consiglio intimo e ministro di stato prima di Ferdinando III e poi di Leopoldo I.
Il 18.4.1662 Leopoldo I manifestò per iscritto il proposito di elevare Mitterburg al rango di contea principesca dell’ impero, come era stato fatto per Gradisca. Più tardi l’ imperatore ritirò la promessa e il principe di Porcia dimostrò scarso interesse per il possedimento istriano. Quest’ultimo interessava però al principe Gian Vicario d’ Auersperg, il quale mediante una specie di negozio fiduciario riuscì ad acquisire Mitterburg per 550.000 fiorini nel 1665, due mesi dopo la morte del precedente proprietario.
La rocca sorge su una rupe inaccessibile ed evidenzia l’ aspetto di una architettura feudale molto austera. Ampie sono le pertinenze: magazzini, stalle, cucine, cisterne. Nel 1548 erano stati ultimati i lavori di ampliamento e consolidamento, rendendo normale la ricettività del maniero (7).

Attività culturale a corte

Due erano i motti dei Porcia. Il primo, risalente al tempo degli antenati da Prata, dice: “Fiat pax in virtute tua et abundantia in turribus tuis”. Sono parole desunte dal Salmo 122 (e non 121, come risulta da una didascalia esistente sotto la raffigurazione di un singolare duplice stemma sormontato dal pellicano). Il secondo motto, risalente al principe Francesco Serafino, rammenta: “Deus felicitas, homo miseria”.
Viene naturale chiedersi quali riflessi nella vita di corte abbiano esercitato i suddetti concetti. In realtà il castello di Spittal era un centro culturale non secondario.
Il principe Gabriele incrementò specialmente la musica tra il 1750 e il 1756. Al posto dell’ antica farmacia del castello fu ricavato un piccolo palcoscenico. Quasi certamente vi furono rappresentate commedie di Goldoni, poiché nel 1765 furono acquistati 19 volumi con le opere del celebre autore. Un inventario del 1776 evidenzia l’ esistenza di costumi teatrali e di altri oggetti da usarsi per la rappresentazione di commedie (8). Anche il teatro delle marionette trovò favore a Spittal: è documentato uno spettacolo in occasione della Pasqua del 1753.
Per una più rispondente dimensione dell’ attività musicale a corte dei Porcia vengono infine citati i seguenti dati inventariali:
1776: 1 violoncello, 4 violini, 1 viola da braccio, 2 corni, 2 trombe, 2 oboe, 4 flauti, 1 cimbalo boemo, 2 clarinetti inglesi, per un complesso di 19 orchestrali di cui sono noti anche i nomi;
1785: un paio di tamburi, 10 trombe, 4 oboe, 2 paia di clarinetti, 1 fagotto, 4 paia di corni, 2 corni inglesi e alcuni strumenti a corda (9).
Si ha però motivo di ritenere che l’ attività musicale a corte fosse già ridotta verso la fine del XVIII secolo, poiché nell’ elenco dei dipendenti del castello di Spittal non risultano più i musici.

Note

1) H. Prasch – 800 Jahre Spittal a. d. D., 1990, pag 356
2) H. Prasch, opera citata, pag. 377
3) H. Prasch, opera citata, pag. 359
4) Günther Probszt-Ohstorff – Die Porcia – Klagenfurt 1971, pag. 179
5) Mario Lannes – Il castello di Primano, Trieste 1936
6) Monumenta Germaniae Historica, Dipl. Reg. et Imper., t. II, pag. 356-357; cod. dipl. Istr. Anno 983, 2 giugno
7) Camillo De Franceschi – Storia documentata della contea di Pisino, Venezia 1964
8) Spittal a.d.D. – Von Markt zur Stadt – 1970 – pag. 139
9) Rauter, Hofmusik, pag. 144

Elenco delle località in Austria, Istria e Germania in cui si trovavano i principali possedimenti die Porcia-Brugnera

Afritz, Flaschberg, Goldstein, Grünburg, Hermagor, Horneckh,
Hornegg, Karlstadt, Klagenfurt, Laibach, Landshut, Lauterbach, Mattighofen, Mauthen, Meillenhofen, Mitterburg, Möderndorf, Möllbrücke, München, Niederlauterbach, Oberdrauburg, Oberlauterbach, Ortenburg, Pittersberg am Gailberg, Prem, Senosetsch, Spittal, Tettensee, Wien, Winkler(n.

Vittorio Veneto. I PORCIA, Atti del convegno 9 aprile 1994. Castello vescovile di Vittorio Veneto a cura del Circolo Vittoriose di Ricerche Storiche)



S I S S I: UNA BELLA DONNA NEL TEMPO E NEL LUOGO SBAGLIATI

Il 10 settembre 1898 fu assassinata Elisabetta, Imperatrice d’Austria e Regina d’Ungheria. Tre mostre a Vienna la presentano più viva che mai.
Ogni epoca ha una sua principessa: la rosa d’Inghilterra è morta, viva la rosa d’Austria e Ungheria. Sissi, o meglio “Sisi”, come ella usava firmare le proprie lettere, sembra essere uscita dalla Cripta dei Cappuccini per far lievitare il commercio dei souvenirs. Bisogna proprio essere defunti da molto tempo per diventare immortali.
L’Imperatrice aveva 61 anni quando fu uccisa, ma essa rimane sempre giovane e bella nella memoria collettiva. Aveva infatti proibito ogni ritratto o fotografia dopo il compimento del 32° anno di età. Nessuno doveva notare nel suo aspetto la devastazione del tempo.
Era una calda giornata quel 10 settembre di un secolo fa, quando l’anarchico Luigi Licheni la pugnalò presso il lago di Ginevra. Egli voleva colpire uno qualsiasi dei regnanti, come ebbe poi a confessare. Avrebbe preferito uccidere il pretendente al trono francese, ma, in mancanza di questi, anche l’Imperatrice d’Austria andava bene. La multietnica monarchia asburgica provò sdegno profondo ma ci furono poche lagrime, come informa il conte Kielmannsegg.
L’Imperatrice si era, per così dire, già congedata dal cuore dei sudditi. Appariva problematica, eccentrica, disinteressata per i suoi obblighi di regnante, moglie e madre. Forse era la donna sbagliata nel tempo e nei luoghi sbagliati.
Tutto era iniziato con il matrimonio. Il fidanzamento con suo cugino Francesco Giuseppe avrebbe dovuto avvenire con la sorella di Elisabetta, Elena! Ma l’Imperatore si innamorò di Sissi nel 1853 a prima vista. Anche lei lo amava. Soltanto il suo mestiere non le piaceva. Sarebbe stato meglio se fosse stato un semplice sarto! La corte viennese era convinta che la sedicenne sposa non fosse adatta per il destino che l’attendeva e lei ricambiava a modo suo. Le nozze furono comunque celebrate il 24 aprile 1854.

I turisti vengono ora informati su ogni dettaglio nelle mostre viennesi. Sissi era alta un metro e settantacinque. Aveva un girovita di soli cinquanta centimetri. Voleva essere bella per l’eternità e la sua parrucchiera Fanny Angerer doveva nascondere accuratamente ogni capello che restasse nella spazzola, altrimenti erano guai. Era amante dei cavalli . Durante i suoi viaggi in Inghilterra e in Irlanda partecipò a molte cavalcate e fu gradita ospite presso una certa famiglia Spencer!
Nonostante i suoi capricci l’Imperatore stava dalla sua parte: la chiamava il suo “angelo Sisi”, faceva costruire residenze dove essa voleva, veniva a sapere dai giornali dove essa soggiornava, faceva installare per lei perfino una vasca da bagno nell’appartamento della Hofburg, mentre egli continuava a preferire il catino per lavarsi.
Sissi rifiutò di vivere da Imperatrice e preferì la propria bellezza alla rigidità della corte. Forse pensava di appartenere solo a se stessa, come lascia pensare il famoso ritratto dipinto nel 1864 da Franz Xaver Winterhalter.
Tra i 145 sarcofaghi allineati nella Cripta die Cappuccini ve n’è uno che ha più fiori degli altri. Su un nastro che lega tre rose sta scritto: “In ricordo dell’Imperatrice e Regina Elisabeth”. A giudicare dalla grafia sembra che l’omaggio venga da una giovanissima.


(Quaderni del Lombardo-Veneto, n. 47, pag. 46-47, Padova 1998.)



GLI STATUTI DI BRUGNERA

Lo studioso friulano che, essendo venuto in possesso di documenti interessanti sulla storia del proprio paese, ne informasse il Sindaco o la direzione della Biblioteca, avrebbe scarse possibilità di ottenere una risposta.
A dispetto del disinteresse diffuso, la storia friulana rimane una scheggia di esperienza umana notevole. In tale dimensione storica assumono sufficiente rilevanza gli Statuti di Brugnera, cioè di un lembo di terra friulana che merita di essere riconosciuta e rivalutata.
Il feudo di Brugnera apparteneva ai signori di Porcia e Brugnera. Nel 1268 la famiglia aveva suddiviso in due parti la propria giurisdizione. Quella di Brugnera comprendeva le ville di Albina, Brugnera, Calderano, San Cassiano, Francenigo, Gaiarine, Maron, Resteiuzza e Roverbasso. Si noti come talune località sono addirittura al di là della Livenza, cioè del confine friulano storico.
Gli statuti di Brugnera, intesi quale legislazione per il territorio, risalgono al 1335, cioè all’anno della contesa tra il Patriarca Bertrando d’Aquileia e Rizzardo VI da Camino per il possesso di Sacile. Dalle genealogie si rilevano i nomi degli appartenenti alla famiglia di Porcia e Brugnera viventi in quel tempo: Bortolussio, Alberto, Nicolò, Tolberto, Biachino, Gabriele, Morando, Odorico, Nanfosio, Artico Federico.
Il terzo ed il sesto personaggio erano presenti, in qualità di plenipotenziari, alla pace tra il Patriarca Pagano e gli Scaligeri nel 1332. Il nono fu Castaldo della Meduna e preposito di S. Stefano d’Aquileia. Artico fu invece avvocato della chiesa di Ceneda ed ebbe ben tre mogli. Tra le donne c’erano Chiara, Beatrice, Gaia, Mabilia, Beatrice. La seconda e l’ultima furono rispettivamente mogli di Guecello da Camino e del signore di Polcenigo.
Dagli Statuti di Brugnera emergono aspetti interessanti della vita friulana del 1300. In quell’epoca il potere di emettere sentenze capitali competeva al Patriarca. L’unica eccezione era costituita dai Porcia-Brugnera e questa non era attribuibile ad un’usurpazione di tale prerogativa, com’era effettivamente accaduto in Friuli nel 1238, quando cioè il Patriarca Bertoldo fece cessare gli abusi.
Gli articoli sull’economia sono rari. Nel settore agricolo era disposto che i campi fossero abbandonati dopo il raccolto. Forse lo sviluppo economico non era molto vasto a quel tempo lungo le rive della Livenza.
Numerose erano, invece, le punizioni. Negli altri statuti friulani la pena per fatti lievi era di 8 soldi, per i reati minori la multa raggiungeva i 20 soldi; per casi più gravi si giungeva ai 25 soldi. Per Brugnera la pena minima era di 25 soldi di denari piccoli. La somma si raddoppiava e si quadruplicava a seconda delle aggravanti. Questo concetto giuridico derivava dal diritto germanico e sembra ricorrere, oltre che a Brugnera, soltanto a Sacile e Polcenigo.
Non sempre le pene erano pecuniarie. I maldicenti, per esempio, venivano immersi per tre volte nella Livenza senza alcun riguardo per le stagioni. I ricordi dei ricordi tramandano che ancora nel nostro secolo una donna, la popolare “Spedocina”, dovette scontare la pena corporale a causa delle frequenti allusioni ai parassiti ospiti delle capigliature dei vicini.
Le maggiori preoccupazioni degli Statuti di Brugnera sembrano derivare da risse, furti, percosse, intrusioni nelle proprietà altrui, irregolare commercio di vino, porto d’ arme abusivo. Gli ultimi articoli, tuttavia, proibivano severamente il consumo delle piccole ciambelle biscottate, confezionate con farina di cereali poveri, ancora noti col mitico nome di “butholài”. Segno evidente che i dolciumi erano considerati dissolutezza.
Lo stesso dicasi per qualche modesta civetteria nell’abbigliamento, che di solito costituiva l’unica esagerazione, si fa per dire, del sabato santo.
I signori di Porcia e Brugnera, cui competeva l’amministrazione della giustizia mediante l’applicazione degli Statuti, accettavano le accuse purché integrate da giuramento. Era un modo come un altro per appellarsi alla certezza del diritto. A giudicare dai risultati, nel 1300 non c’era sulle rive della Livenza la criminalità organizzata.
Queste norme giuridiche rappresentano uno specchio fedele della situazione e della mentalità trecentesca friulana. Esse debbono essere, tuttavia, inquadrate nella più ampia realtà sociostorica dell’epoca. A tal fine risulta indispensabile l’opera del prof. Günther Probstz-Ohstorff intitolata “Die Porcia” ed edita dalla Deputazione di storia patria della Carinzia nel 1971, di cui purtroppo non esiste una traduzione in italiano.

(Il Fogolâr Furlàn di Milano)



IL TOSON D’ORO

Dopo le battaglie della fine del 1400 contro i Turchi, l’utopia di far convergere tutti i Principi d’Europa in un unico Ordine, tramontò definitivamente.
Filippo il Buono, Duca di Borgogna dal 1414 al 1467, progettava una grande Crociata intesa a contrastare la pressione turca. A tale scopo egli, dopo aver rifiutato l’ attribuzione dell’ Ordine della Giarrettiera offertagli da Enrico VI, decise di fondare un nuovo Ordine cavalleresco che sottolineasse la propria indipendenza e lo sostenesse nella realizzazione dei primi piani.
Il 1° gennaio 1430 Filippo il Buono sposò a Bruges Isabella del Portogallo. In tale occasione egli ufficializzò anche la fondazione dell’ Ordine del Toson d’ Oro, il quale aveva per finalità dichiarate la gloria di Dio e la difesa della Religione cristiana. Il Pontefice Eugenio IV espresse la propria approvazione con il Breve del 1443 e i Padri del Concilio di Trento aggiunsero ovviamente la loro benedizione.
Lo Statuto dell’ Ordine, redatto in lingua borgognona, fu promulgato il 22 settembre 1431 a Lilla in occasione del primo Capitolo solenne. In quella data furono investiti i primi 24 Cavalieri.

I 66 articoli statutari prevedevano, tra l’altro, che i Cavalieri del Toson d’Oro fossero 31. Carlo V portò il numero a 51 e poi Filippo IV lo aumentò a 61.
I Cavalieri, nobili per nascita o per meriti particolari, si impegnavano a demandare al Capitolo dell’ Ordine ogni controversia sorta tra loro, preoccupandosi soprattutto che prevalessero la tranquillità e la prosperità del bene comune.
L’ Ordine del Toson d’ Oro fu ammesso al Gran Consiglio Sovrano e invitato a controfirmare la Prammatica Sanzione del 1549.
I Cavalieri avevano il privilegio di stare a capo coperto a cospetto del Re e di possedere una particolare pietra d’ altare per farvi celebrare la Messa.
I massimi dignitari dell’Ordine erano: il Cancelliere, il Tesoriere, il Giudice e il Re dell’Armata. Quest’ultimo era anche denominato Toson d’ Oro e indossava, durante le cerimonie, un prezioso collare d’ oro smaltato, chiamato “forca” oppure “gogna”.
Il monile comprendeva gli stemmi di tutti i Cavalieri viventi nel corrispondente periodo di tempo. Al collare era appesa l’ immagine di un vello di pecora, che doveva essere “penzolante” e “traballante”.
Ogni collare assegnato portava incisa una cifra, che consentiva di conoscere il numero dei Cavalieri insigniti in precedenza. In caso di morte del titolare, tutto doveva essere restituito al Tesoriere entro tre mesi. Il collare recava anche la scritta: “Pretium non vile laborum = Grande ricompensa per l’impegno profuso” e “non aliud”, a significare che un principe insignito del Toson d’ Oro non aveva più motivo di aspirare ad altri riconoscimenti e onori.

L’origine del vello ovino è controversa. La leggenda accenna all’ispirazione esercitata dalla bionda e folta capigliatura di Maria van Crombugghe, una delle donne più belle e ambite dell’epoca in Europa. Un altro modello potrebbe essere stato probabilmente il mito di Giasone e degli Astronauti alla ricerca del vello d’ oro.
In entrambi i casi il simbolo fu oggetto di critiche. Maria van Crombugghe era una delle 24 favorite più note e non sembrava il caso di proporla come modello di virtù. Giasone, invece, era un eroe pagano, noto per comportamenti non edificanti. Egli non aveva, infatti, mantenuto la promessa di matrimonio fatta a Medea, cosa indegna per un modello cavalleresco.
Fu dunque proposto di sostituire Giasone con Gedeone. Questo fu un eroe biblico, il quale non aveva esitato a ringraziare Dio per i miracoli ottenuti, offrendo sacrifici di ovini. Il richiamo al vello di pecora non sarebbe sembrato, pertanto, fuori luogo.

L’ Ordine del Toson d’ Oro non ebbe mai carattere territoriale. La sua sovranità non si trasmise, per esempio, alla Stato di Borgogna, bensì alla Casa di Borgogna. Quando Carlo V rinunciò, nel 1529, a ridiventare Duca di Borgogna e cedette la carica stessa a Francesco I, quest’ ultimo rimase estraneo all’ Ordine. Il Re di Francia consentì a Carlo V di conservare il titolo onorifico di Duca di Borgogna, affinché egli mantenesse la sovranità dell’ Ordine fino al 1555, anno della sua definitiva rinuncia al titolo medesimo.

La festa dell’ Ordine ricorre ogni anno il 30 novembre, giorno di S. Andrea.

Dal 1 dicembre 1963 il Gran Magistero è affidato all’ Arciduca Otto d’ Asburgo, figlio dell’ultimo Imperatore Carlo I.
L’ Ordine del Toson d’ Oro conta attualmente 50 Cavalieri. La lingua ufficiale è il Francese.

Il 30 aprile 1478 la sovranità dell’ Ordine del Toson d’ Oro fu assunta dall’ 80° Cavaliere Massimiliano, Arciduca d’Austria e futuro Imperatore.
La Casa d’ Asburgo nominò tra il 15° e il 18° secolo 538 Cavalieri. Al 445° posto dell’annuario dell’ Ordine figura Giovanni Ferdinando Conte di Porcia, insignito nel 1657 durante il Magistero di Filippo IV, Re di Spagna e sesto sovrano del Toson d’ Oro della Casa d’ Asburgo.

Giovanni Ferdinando di Porcia, nato a Venezia probabilmente nel 1605, Ambasciatore di Ferdinando III presso la Repubblica Veneta, Conte di Mitterburg e Brugnera, Signore di Senosetsch e Prem, Maggiordomo di corte della Contea principesca di Gorizia, Consigliere segreto dell’Imperatore Leopoldo I d’ Asburgo e Primo Ministro, Governatore della Carinzia, fu elevato al rango principesco del Sacro Romano Impero il 30 aprile 1662.

Nel castello Porcia di Spittal (Carinzia) ebbero luogo molti importanti eventi musicali, che rispecchiarono l’interesse del Principe Giovanni Ferdinando per la musica, le lettere e le arti fino alla sua morte, avvenuta nel 1665.

(Per le nozze di Guecello di Porcia e Brugnera con Valeria Pedroni, 21 giugno 2003)



IL TRAMONTO DELL’OCCIDENTE (*)

Le mire islamiche sull’Europa non sono una novità. Si comincia con Poitiers, si prosegue col primo sbarco a Marsala nel 926, ci si arresta a Granada verso la fine del 1400, Solimano il Magnifico punta su Vienna nella prima metà del 1500, si tenta un’offensiva nel 1571 a Lepanto, Maometto IV° assedia Vienna nel 1683…, tutte vicende accuratamente evitate nella recente Costituzione Europea, naturalmente.
Bisogna dire che le prime invasioni islamiche, specialmente in Spagna e in Sicilia, significarono anche trasmissione di sapere, impulso per l’arte, integrazione di cultura. Nelle ultime spedizioni turche verso il cuore d’Europa prevalsero, invece, i succhi gastrici.
La trasmigrazione in atto verso l’U.E. significa che solo il metodo è mutato: da militare a migratoria e demografica. Si prevede che entro questo secolo l’islamizzazione del continente sarà ultimata e non si sa a chi attribuire il fenomeno. La circostanza che presto un cristiano europeo sarà bizzarro come oggi un buddista svedese, per usare le parole del filosofo delle religioni Philip Jenkins, sarebbe ormai rassegnazione.
L’islamizzazione in corso è diretta conseguenza della fine dell’Impero austro-ungarico. Essa si verificò per diritto di conquista, come scrisse Sergio Romano nel Corriere della Sera del 2 gennaio 2005. Se quella antica struttura politica multiculturale avesse potuto resistere nel 1918 (anziché consentire la salvezza d’altri, come risulta negli Atti della Beatificazione di Carlo I° d’Asburgo), non ci sarebbe stata la seconda guerra mondiale con le distruzioni e gli stravolgimenti che ne seguirono e che ci inquietano. Quel crollo è paragonabile al taglio dei boschi. C’è un iniziale vantaggio dalla vendita del legname, ma poi giungono i dissesti idrogeologici. Non si dimentichi che l’ antica Diocesi di Vienna era stata elevata al rango di Arcidiocesi proprio per i suoi trascorsi di resistenza e per la sua funzione di contrasto alle invasioni dall’ Oriente. Sembra ora il caso di ripetere con Shakespeare che quando il vecchio cane muore, le fedeli pulci si avventano sui suoi cuccioli.
Le cause del disfacimento dell’Impero asburgico sono ben note. Altrettanto palese è che non fu un vantaggio. Ma quanto valeva quella perdita di fronte ai nazionalismi baldanzosi e miopi? Le conseguenze si estendono, infatti, anche a popoli che nella Grande Guerra non erano coinvolti e che oggi pure si trovano al bivio. La colpa ufficiale del via libera all’islamizzazione del Continente (ormai diventato “ incontinente ”!) è ravvisabile. Non così i fiancheggiatori occulti nostrani con stipendi d’oro per facce di bronzo, che sono più pericolosi di tutti gli artefici diretti dell’anti occidentalismo. E’ sempre stato così.
Quando Vienna, cuore d’Europa, corse seri rischi durante il primo assedio, a Venezia c’era chi auspicava una vittoria del Sultano per esempio. Ad un certo punto si ritenne che l’ occupazione della capitale fosse imminente e ci si affrettò a far realizzare dagli orafi veneziani nel 1532 una preziosissima tiara a sette strati con perle rare a goccia per incoronare Solimano imperatore e papa dell’occidente. E’ inutile fare gli ingenui perché la corona è esposta a New York presso il Metropolitan Museum of Art. Forse è il caso di ricordare, per rimanere a quei tempi, che la nobile veneziana dodicenne Cecilia Venier fu rapita per farne un dono a Solimano. Il rapitore si chiamava Barbarossa, un nome non propriamente turco ma greco. Il francescano calabrese Ochiali combattè inoltre per i Turchi a Lepanto. A lui si deve la rapida riorganizzazione della flotta dopo la sconfitta ad opera delle navi cristiane.
Anche nel secondo assedio di Vienna non mancarono gli occidentali accorsi in aiuto ai Turchi. I Re francesi furono tra i primi. Era il 1683 e la città, ultimo sogno d’Europa, sarebbe caduta senza il provvidenziale intervento di Marco d’Aviano. Non è noto se in qualche luogo fosse stata ideata una seconda corona! Ebbene, un ingegnere esperto in esplosivi doveva far saltare le mura per consentire l’accesso delle armate osmane. Il suo nome islamizzato era Islam Ahmet Bey, ma era un cappuccino coetaneo di Marco d’Aviano. Non sembri da guastafeste segnalare che egli apparteneva alla stessa Provincia veneta dell’ Ordine e che dunque i due protagonisti forse si conoscevano. Anche il nome dell’ammiraglio turco Cicala dice qualcosa circa l’origine del personaggio. L’ elenco potrebbe continuare e viene da chiedersi se valga la pena di fare qualcosa per ritardare il declino di una simile società.
Non si può, con simili precedenti, pensare che l’attuale penetrazione nei grandi spazi mondiali, temuta specialmente dai settori vitivinicoli, bancari e della salumeria, difetti di valide collaborazioni occidentali che indicano, come pallido risarcimento, corsi di lingua araba per le scuole in crisi. L’integrazione avrà luogo, ma nel senso che gli europei (e non viceversa) si adegueranno, s’intende. Queste realtà non hanno nulla da temere dalle situazioni da loro stesse favorite. E’ noto che i monatti salivano incolumi sui carri dei cari estinti. E’ proprio vero, non si è mai abbastabza cauti nella scelta del propri contemporanei.
Quale sarà l’evoluzione di questo stato di cose? La nostra sommersione sarà accentuata dal noto eccesso o uso improprio della tolleranza, che ha già raggiunto livelli assurdi? Non si dimentichi che in qualche Paese c’è già la possibilità di detrarre dalle tasse le spese per l’acquisto di armi ed esplosivi per compiere reati. In fondo si tratta di spese sostenute per l’attività, senza nemmeno chiarire se questa debba essere lecita o meno. Da noi si è per ora fermi alla chirurgia estetica che realizza l’ombelico a forma di mezzalòuna su pantaloni a vita bassa. Il resto verrà. Non può essere diversamente. Quando un equilibrio si squilibra, scattano dinamiche ingovernabili e imprevedibili.
Dopo alterne vicende non sembri esagerato prevedere la pretesa di costituire stati nazionali islamici indipendenti nei Paesi di immigrazione, come avvenuto in passato nei Balcani. Il futuro non vive di ideologie, ma di memorie. A questo punto, e solo in questo caso, a qualche nazionalista nostrano aumenterà la pressione sanguigna per lo sdegno. Sarà troppo tardi e, in fondo, sarebbe anche una giusta punizione per la cecità storica sempre ostentata, finis Austriae compresa. Il tutto avverrà nell’inerzia generale intervallata da qualche monitus interruptus (mugugno). Si tirerà in ballo l’opportunità e a nessuno verrà in mente che anche la distruzione di Cartagine fu un atto di opportunità. Catone il censore non tollerava, infatti, che a Cartagine si producesse un olio d’oliva migliore di quello dei suoi uliveti. In genere perché l’ignoranza trionfi basta che gli intelligenti tacciano o siano costretti a tacere in un ambiente dove due sono le immensità: l’universo e la stupidità. Per l’universo ci sarebbero tuttavia dei dubbi.
Il poeta latino Lucrezio ha lasciato un suggerimento per casi analoghi: “E’ dolce guardare da riva il naufragio di chi si è inconsciamente avventurato nell’immenso mare”. A proposito, se qualcuno incontrasse per caso il futuro, gli dica per favore di non venire perché anche il futuro non è più quello di una volta.
(*) Dal titolo dell’omonimo libro di Oswald Spengler.
[Il Piave, mensile stampato a Conegliano, feb. 2005]


LA VILLA TARDO ANTICA

Le antiche pavimentazioni a mosaico localizzate nel 1891 nella zona del Foro Boario non dovettero interessare molto, se vi rimasero ancora per vent’anni prima della degna collocazione nel Museo di Oderzo.
Cinque frammenti rappresentano altrettante suggestive scene di caccia. Un sesto reperto descrive in parte la struttura di una villa risalente alla prima metà del IV secolo d.C., che potrebbe essere la stessa costruzione cui i pavimenti appartenevano. Si notano il muro di cinta e il cancello semiaperto, oltre i quali una donna con fazzoletto e grembiule è intenta a nutrire le oche. I palmipedi sono evidenziati da apposito sfondo. Dietro si affrontano due galletti. Oltre il muro un vitello sbircia la scena. Nella parte superiore si vede un portico a pilastrini con base e capitello, la cui ringhiera è integrata da un’intelaiatura con paletti di rinforzo.
L’importanza e la rarità di questo reperto consistono nell’applicazione al mosaico di una rappresentazione prospettica altrimenti presenti nei soli bassorilievi. Più precisamente quanto raffigurato in alto senza rispettare le proporzioni corrisponderebbe all’interno della casa e non a un piano superiore della stessa. Viene spontaneo chiedersi a chi appartenesse la villa con i preziosi pavimenti a mosaico. La risposta è pronta ma infondata: il proprietario era un patrizio romano, cui erano state attribuite terre nell’Opitergino! A costo di suscitare delusione, si fa rispettosamente notare che un patrizio romano, anche se ne fosse rimasto qualcuno nelle legioni a quel tempo, difficilmente avrebbe rinunciato alle comodità dell’Urbe per stabilirsi in un luogo né lieto, né bello (nec laetus, nec pulcher) scelto per scopi puramente militari o per la sola ragione di sottomettere i popoli indigeni (“unam ad priores populos coercendos”). Sarebbe stato destino più appetibile fare il gladiatore nel circo. Le legioni romane, ormai rarefatte, erano state sostituite da contingenti non romani nelle provincie dell’impero (Oderzo faceva parte della X regio Venetia et Histria) già da tempo. La conseguenza fu l’elezione di non romani nella massima carica imperiale: Ottone e Vitellio (69 d.C., imperatori legionari), Traiano (98-117 d.C., spagnolo), Severo (193-211 d.C., africano), Massimino il Trace (235-238 d.C.), Claudio il Gotico (268-270 d.C.), Diocleziano (284-305 d.C., dalmata), e altri. Aumentava contestualmente a Roma l’onomastica indice di consistente demografia non più latina. Nomi come Caesus, Caesonius, Flavius, Caesar, Ravilia, Albinus, Rubius, Longus, Magnus alludono chiaramente a caratteri somatici nordici, cioè capelli biondi o rossicci, occhi azzurri o grigi (come Catone, Silla, Augusto), colorito della carnagione o alta statura (come G. Cesare).
Nell’epoca cui risale la villa opitergina le legioni erano costituite quasi interamente da Germani. A gruppi della stessa estrazione, stanziati vicino a vie di comunicazione terrestri o fluviali, appartenevano sia i coloni militari organizzati da un “praefectus”, sia gli operatori commerciali. La proprietà della villa tardo-antica va dunque collocata nel contesto socio-storico opitergino della prima metà del IV secolo che, per i motivi accennati, non poteva essere romano. Alla “Magistra Barbaritas” e alla sua rude e sana vitalità dobbiamo dunque la dimensione artistica dei mosaici conservati nel Museo di Oderzo.
(Il Dialogo, mensile, Oderzo)




“VIVI O MORTI SIAMO DEL SIGNORE”

“Tutta la storia umana si divide in quattro epoche: il tempo dell’errore, il tempo del rinnovamento, il tempo della riconciliazione, il tempo del pellegrinaggio. Il tempo del pellegrinaggio è la presente età, nella quale siamo sempre come pellegrini in battaglia” [Jacopo da Varagine (benedettino) – Legenda Aurea]

Le mie parole spiegheranno, tra l’altro, il senso del titolo di questa relazione.
Prima di tutto, però, un po’ di storia.
Nel clima avventuroso e cavalleresco delle Crociate, nove personaggi si presentarono nel 1118 a Re Baldovino II a Gerusalemme: “Siamo infermieri e vorremmo curare i Crociati e i Pellegrini feriti”. Il sovrano rispose: “La proposta interessa, ma quale compenso chiedete?”- “Nulla”, risposero quelli, “chiediamo soltanto di alloggiare in un settore della reggia”.
La richiesta sembrò ragionevole e l’accordo fu fatto.
Il palazzo sorgeva sulle rovine del Tempio di Salomone. I nove personaggi divisero le loro attività in turni: alcuni curavano i feriti, altri frugavano nei sotterranei di quello che era stato l’edificio più importante della città.
Trovarono qualcosa? S’imbatterono nei misteri della saggezza orientale antica o nelle regole della geometria sferica?
Non si sa, ma in quel tempo si alzarono in Europa le cattedrali gotiche e l’arco a sesto acuto si rivelò un’ importante innovazione architettonica.
L’Ordine fondato dai primi Templari crebbe in fretta. Le Comanderie e le Precettorie si moltiplicarono a vista d’occhio. Le prime erano istituzioni militari, le seconde centri di attività agricole e imprenditoriali per i rifornimenti dell’attività in Terra Santa.
La fama del valore militare e della buona amministrazione si propagò ovunque.
Il sigillo templare raffigurava due cavalieri su un unico cavallo. Poteva significare la parsimonia, il risparmio nei mezzi di trasporto che erano allora, come attualmente, molto costosi.
In realtà c’era una ragione tattica: il secondo cavaliere scagliava sugli avversari i giavellotti e poi, insieme al compagno, scendeva con la spada in pugno per completare l’opera. Il pubblico può prendere visione di tale sigillo, perché ne è disponibile una copia fedele sul tavolo.
I Templari avevano in principio la regola di Sant’ Agostino. Giova ricordare che questo Padre della Chiesa pregava sì il Signore di dargli il dono della castità, ma non subito.
La regola fu comunque sostituita da un’altra molto più mistica e severa, dettata da San Bernardo da Chiaravalle. San Bernardo scrisse, su richiesta del primo Gran Maestro del Tempio, la Lode della Nuova Cavalleria intorno all’ anno 1130. Lo scritto consiste in un prologo e 13 capitoli. Era proibito ridere e giocare, portare capelli corti, cantare. Due cavalieri mangiavano in un’unica scodella. L’ igiene lasciava molto a desiderare. Immaginiamo cosa significasse indossare l’armatura con il caldo e con la polvere dell’ Oriente!
Alcune tra le più memorabili battaglie ebbero luogo a Gaza (1171), Tiberiade (1187), Damietta (1219), Mausourah (1250), Sephet (1262).
Dopo la caduta di Gerusalemme l’Ordine si trasferì prima a San Giovanni d’Acri e poi a Cipro.
Si calcola in 70.000 il numero dei caduti in battaglia, Templari di ogni lingua europea. Tra i primi 23 Gran Maestri dell’Ordine del Tempio, 13 morirono nell’esercizio delle loro mansioni: 7 in combattimento, 5 in seguito a ferite, 1 in prigionia.
Festività dell’Ordine del Tempio erano il 24 giugno (San Giovanni Battista), 20 agosto (San Bernardo da Chiaravalle), 11 marzo (giornata di lutto per i martiri).
Sapienza templare: “sensu admisso fit idem, quasi natus non esset omnino” (chi non sopporta la verità non è degno di essere nato) – “Fra tris more noveris, non oderis” (puoi vedere il comportamento del fratello, non odiarlo).
Alcune abitudini dei Templari: l’ uomo sposato poteva diventare Templare, purché anticipasse metà del proprio patrimonio; abbigliamento: camice di lana sulla pelle; saluto di riconoscimento: pollice piegato sul palmo della mano. Nessun riscatto pagato per la liberazione di prigionieri templari.
Lingua dell’ Ordine era il latino, sostituito dal francese nell’uso corrente.
I Templari avevano un proprio motto e una propria bandiera. Il primo era: Non nobis, domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam” (Non a noi, o Signore, non a noi, ma al Tuo nome dà gloria).- La seconda si chiamava “Baussant”. Era un vessillo bianco e nero, bipartito. Sono dicerie che il nome significasse “vaut cent” (vale cento) oppure “beau sang” (il bel sangue). Baussant è un aggettivo dell’ antico francese, significa “bicolore” e riguarda il mantello dei cavalli. Oggi si direbbe “baio”. Il vessillo era custodito e scortato da 5 – 10 cavalieri e non poteva mai essere abbassato. Serviva forse a segnalare dove si trovasse il comandante (il Maresciallo del Tempio)? Oppure c’ era una motivazione biblica? Mosè teneva alzata la mano e Israele vinceva; se l’abbassava prevalevano gli Amaleciti, così sta scritto (Esodo 17, 8-16).
Nel “Parzival”, ricorda G. Malvani, c' era un cavaliere bianco e nero, un cavaliere della Tavola Rotonda chiamato Feirefitz, cioè “figlio variopinto”. Bianco e nero erano anche i colori della luna: il primo si riferiva alla fertilità, il secondo alle occulte virtù del pianeta.
Per quale motivo l’ Ordine era così numeroso?
A quei tempi chi non era primogenito, non ereditava. Poteva, però, trovare equipaggiamento e gloria nelle oltre 9.300 comanderie templari.
Bisogna intendersi su quanto costasse allora armare un cavaliere. Un cavallo valeva da 25 a 50 soldi (un bue ne costava 6); per un “giaco” (veste di maglie di ferro o di filo di ottone per coprire il petto e le reni) servivano 100 soldi, come per acquistare una fattoria. Poi bisognava mantenere lo scudiero, provvedere le armi, acquistare i foraggi….- Sarebbe oggi come mantenere un carro armato o un velivolo da combattimento. Una contea poteva al massimo fornire 150 cavalieri (Jacques Le Goff, Il basso medioevo).
Alla fine delle Crociate c’erano tre eserciti armati fino ai denti che preoccupavano papi e sovrani, i quali se ne erano serviti fino a poco tempo prima: l’Ordine di Malta, i Cavalieri Teutonici e i Templari, appunto. I primi furono mandati a combattere i pirati nel Mediterraneo; i secondi dovettero affrontare i Prussiani infedeli; i terzi diventarono i tesorieri di monarchi e di papi. Questi ultimi svilupparono una grande attività bancaria, inventando perfino l’assegno circolare. Le ricchezze templari erano note ovunque, specialmente al Re Filippo il Bello di Francia e al Pontefice Clemente V, che si erano molto indebitati per costituire i loro regni centralistici.
Questi galantuomini si chiesero: “Se dichiariamo i Templari eretici, che succederebbe?” – “Beh, in questo caso non dovremmo restituire più nulla”. Così fu fatto. Il 13 ottobre 1307 furono arrestati i Templari francesi. Su istigazione del Re Filippo il Bello, il 12 agosto 1308 il primo papa di Avignone pubblicò la Bolla che ordinava la procedura contro l’ Ordine del Tempio. Il Re Filippo il Bello, il 13 maggio 1309 fece bruciare vivi 54 cavalieri. I Commissari Pontifici protestarono…
E’ inquietante questo ripetersi del giorno 13, divenuto da allora segno di sventura. Il 22 marzo e il 6 maggio 1312 furono emanate le Bolle pontificie “Vox in excelso” e “Considerantes dudum”, che abolivano l’Ordine del Tempio in via provvisoria e d’ordine apostolico (…non per modum definitivae sententiae, cum eam super noc his habitus non possemus fere de jura, sed per viam provisionis et ordinationis apostolicae…) Si ravvisa affinità con la Bolla “Dominus ac Redemptor meus” del Papa Clemente XIV, con la quale fu abolita nel 1773 l a Società o Compagnia di Gesù, nota per i servizi resi alla fede e alla civiltà. L’11 marzo 1314 fu arso anche il Gran Maestro, il quale insistette fino all’ ultimo ad affermare che l’Ordine era puro e sano e loro “vivi o morti erano del Signore”.
Nei processi le accuse si rivelarono inconsistenti, ma non così la tortura. Si voleva che i Templari avessero vilipeso la Santa Croce nei rituali di accoglienza dei nuovi adepti. Si trattava di una pantomima simbolica in cui il postulante doveva dimostrare di trovarsi in uno stato di bassezza, dal quale lo avrebbero tratto i suoi confratelli per guidarlo sulla via della perfezione.

L’ Ordine è veramente estinto o potrà ancora impegnarsi per il bene dell’Occidente?
L’ultimo Gran Maestro, prima di morire, aveva trasmesso i propri poteri a un dignitario sopravvissuto.
Dal 1324 al 1704 ci furono Gran Maestri francesi. Nel 1705 il potere passò al Duca d’ Orleans. Poi ci fu la clandestinità a causa della Rivoluzione.- Nel 1808 i Templari riemersero. Il 28 marzo 1808 il Coadiutore Generale (guardia spirituale) recitò l’ orazione funebre per i martiri dell’ Ordine del Tempio nella chiesa di San Paolo a Parigi.
Seguirono contese interne: in Gran Bretagna fu eletto Gran Maestro il Principe di Galles, in Germania l’ Imperatore Guglielmo II.- Nel 1960 fu eletto Reggente F. Fernando P. de Sousa Fontes.

E’ lecito chiedersi come mai il pensiero e gli ideali templari siano ancora attuali.
Le schiere di quei monaci combattenti erano spesso reclutate nel Nord Europa, terra di antichi miti e di profonde suggestioni. A loro si deve la nuova impronta conferita alla Cavalleria in declino, impronta che preparò le future elitès europee. I loro modelli, Gesù e il Battista, erano più vicini all’ ideale templare di quanto lo fossero i chierici romani salmodianti. Il pensiero di questi asceti-guerrieri era collegato al concetto provenzale di “avventura”. In antico irlandese si sarebbe detto “echtrai” (G. Malvani). “Ech” significa “cavallo” e “traigh” la spiaggia. L’avventura dei romanzi cavallereschi non era altro se non una galoppata mattutina o serale sul bagnasciuga, guidati da un animale saggio: il cavallo. Anche Parsifal se ne servì. Si legge nel poema: “Or va dunque tu, come a Dio piace!”- gli disse e abbandonò le redini sul collo, dandogli forte di sprone.-

Può essere che per istruire gli eletti fra i Templari fossero chiamati personaggi con estese conoscenze. L’ autore del Parsifal, Wolfram von Eschenbach, dovette essere tra questi e pure Dante Alighieri, se è esatta l’interpretazione di una scritta su una medaglia dell’ epoca, che lo vuole fratello accolto nell’ Ordine.
Chi si sente in grado di farlo, può accogliere nelle proprie cellule i significati e le dimensioni di quella affascinante avventura che fu la sapienza templare. Gli amici della Cascina Linterno potrebbero organizzare un incontro sull’eventuale aspetto esoterico di quest’ ultima.

La Milizia del Tempio giunse a Milano nel 1134, certamente al seguito di San Bernardo, giunto a Milano con lo scopo di sottrarla all’ influenza del papa scismatico Anacleto. C’ erano allora turbolenze in città tra i partiti che sostenevano rispettivamente l’Arcivescovo Anselmo V e il Papa Innocenzo II. San Bernardo vi giunse scortato dai Templari. La prudenza, allora come ora, non è mai troppa: San Bernardo poté parlare liberamente e riuscì ad infiammare gli animi dei convenuti a favore della Chiesa di Roma.
La presenza autorevole dei Templari quasi fossero “angeli de coelis” influenzò la folla convenuta assieme ai prelati per il giudizio nei confronti del vescovo ribelle che dovette lasciare la città. San Bernardo proseguì la sua azione fondando il monastero di Chiaravalle e rendendo stabile l’insediamento della Militia Templi con la fondazione di una Comanderia nella zona del “Brolo grande”, che era un’estensione di 430.000 mq. Fuori dalle mura tra Porta Romana e Porta Tosa, in grado di controllare una delle vie d’accesso alla città. Gli edifici dovevano trovarsi nei pressi della Clinica De Marchi; non è senza motivo che la strada si chiama Via della Commenda. L’Imperatore Barbarossa e il suo quartier generale furono ospiti della Mansione templare nel 1154 e nel 1158. In quell’ occasione l’assedio risparmiò il lato ad ovest della città, più o meno dove si trova la Cascina Linterno. Viene da chiedersi perché. Era un presidio templare deputato al reperimento di foraggio, viveri e armi per i combattenti in Terra Santa, dove l’ Imperatore si sarebbe poi recato incontrandovi la morte?
E ancora, i Templari erano Guelfi” o “Ghibellini”? Obbedivano al Papa, dunque dovevano essere guelfi, ma, nei periodi di pace tra le due fazioni, chissà…-
I Templari: ossia non solamente gli eroici difensori della Terrasanta (quali fino ad oggi sono stati riconosciuti) ma anche e, forse soprattutto, i grandi Saggi che hanno reintrodotto in Europa l’Alchimia, dando così un nuovo e più compiuto significato alla vita umana. Quel significato che costituisce anche la profonda essenza dei romanzi del Santo Graal e che è così ben riassunto nel famoso motto templare (G. Malvani, L’eredità sapienziale dei Templari ovvero: l’ origine dell’ Alchimia medievale in Europa, 1955).
Ecco ora alcuni fatti curiosi legati ai Templari.
Il 15 settembre 1215 fu assassinato, in Germania, il duca Lodovico di Kelheim sul Danubio. L’attentatore fu ucciso dalle guardie del duca e furono offerte 4 once d ‘argento a chi avesse dato informazioni sull’ identità dell’ assassino. I Templari Domenico d’ Aragona e Ferdinando La Fort resero omaggio alla salma del duca Lodovico e poi esaminarono i resti dello sconosciuto sicario. Essi riconobbero il tatuaggio di Bafometto, ben noto all’ Ordine. Il duca era stato ucciso da un Templare. Il delitto potrebbe essere stato commissionato dagli “Assassini” (potente Ordine islamico in Oriente. Tra i due Ordini c’ erano frequenti contatti e forse interessi non solo politico-economici, ma anche sapienziali.
Insegnamento del Vecchio della Montagna (capo dell’ Ordine degli Haschischaschuin o “Assassini”) ai Templari: “l’ Imperatore voleva conoscere il proprio futuro e l’indovino gli disse che avrebbe perduto tutti i suoi cari. Fu congedato senza compenso. Il secondo veggente predisse all’ Imperatore che egli sarebbe sopravvissuto a tutti i suoi cari. Fu ricompensato”.
Se l’Ordine del Tempio esistesse attualmente, sarebbe costituito da Gran Priorati (uno per ogni nazione). Un Gran Priorato potrebbe avere uno o più Baliaggi (uno per provincia). Dal Baliaggio potrebbero dipendere una o più Commanderie (una per ogni città).
Se l’Ordine del Tempio esistesse attualmente, avrebbe quattro gradi di Cavaliere: Cavaliere, Commendatore, Grande Ufficiale, Gran Croce.
Se l’ Ordine del Tempio esistesse attualmente, avrebbe tre classi di affiliati in adeguamento alle Istituzioni similari: Dama, Scudiero, Croce di Merito.
Se l’ Ordine del Tempio esistesse attualmente, le firme dei Cavalieri dovrebbero essere precedute da una croce e dalla lettera “F”; la croce sarebbe tripla per il Reggente e per il Gran Maestro, doppia per i Commendatori e soltanto la lettera “F” per i Cavalieri.
Se l’ Ordine del Tempio esistesse attualmente, avrebbe le seguenti insegne in adeguamento a Istituzioni similari: Croce (in oro, smaltata in rosso, cm. 52 di lunghezza), Placca (in argento, cm. 85, 8 raggi), Collare (in oro, con 82 grani, croce dell’ Ordine a pendaglio).
Se l ‘ Ordine del Tempio esistesse attualmente, gli aderenti avrebbero il mantello a mezza gamba, di panno bianco, caricato sulla spalla sinistra della Croce ricamata e cucita di mm. 260 di lunghezza.

Termino con il seguente messaggio:
Nel passato si trova la sorgente per dissetare i pellegrini del futuro.
Il nostro compito non è di fare il pane, ma di fornire il lievito per la panificazione.
I Templari sono fuori dalla ragione, dalla logica, dal tempo, perché sono soltanto uomini di fede”.

(Atti del Convegno “I pellegrinaggi e i Templari a Milano”, 13 maggio 2000 nell’ambito del Jubileum A.D. 2000).



I MOTI ANTINAPOLEONICI IN VENETO

Un contributo alla ricostruzione storica di avvenimenti poco noti ma assai significativi: la rivolta contro un potere esoso e irrispettoso delle volontà popolari.


E’ opinione diffusa che il Veneto sia terre inerte sotto l’aratro della storia, tomba vuota pronta
Per ogni contenuto.
Una più attenta considerazione di alcuni eventi smentisce però l’indifferenza attribuita ai Veneti nei momenti più critici della loro esistenza.
La storiografia si sofferma compiaciuta sull’opposizione a domini stranieri, purché questi provengano da settentrione. Il più rigoroso silenzio cala invece sulla resistenza contro occupazioni di estrazione neolatina, quasi che ammetterne l’esistenza possa in qualche modo porre in cattiva luce i successivi momenti risorgimentali.
Si dice che esistano luoghi e momenti in cui sia possibile sapere tutto di certi fatti, senza capirne nulla, oppure sapere poco e capire molto. Sui moti antinapoleonici in Veneto si sa poco, eccetto forse le cosiddette “Pasque Veronesi”, ma la loro comprensione nel giusto senso non manca. Queste righe vogliono essere un modesto contributo alla ricostruzione storica di quei giorni e di quegli avvenimenti.
Dopo i preliminari di Leoben, la municipalità di Venezia era riuscita a raccogliere, mediante una votazione a scrutinio segreto, l’aspirazione popolare all’indipendenza. Parigi si sarebbe smentita di fronte al mondo civile se, una volta conosciuto il risultato di quel pronunciamento, non lo avesse rispettato. I messaggeri veneti latori dei risultati elettorali vennero però prontamente fatti arrestare a Novara e nessuno poté accusare la Francia di non avere onorato le ripetute dichiarazioni di rispetto per la volontà dei popoli.

Ad eccezione di una parvenza di congiura, attribuita ad un certo Cercato nella prima metà dell’ottobre 1797, le reazioni alla prepotenza degli occupanti furono soltanto formali: volantini inneggianti all’Austria ed ostentazione di indumenti giallo-neri specialmente da parte degli abitanti di Cannaregio. Il malcontento assume dimensioni di aperta rivolta a Comacchio, nel Ferrarese e nel Padovano a partire dall’aprile 1799. Si ricordano ancora i nomi dei capipopolo che ne furono protagonisti: Filippo Zagoli, Valeriano Chiarati e numerosi religiosi del monastero patavino di S. Antonio. Anche Este, Montagnana, Monselice e Chioggia conobbero estesi fermenti, tanto da scatenare pesanti rappresaglie francesi, che a Chioggia furono in parte attenuate grazie all’intervento del vescovo Sceriman. Tali moti possono essere tuttavia considerati delle semplici prove generali. Nel settembre 1805 Napoleone III aveva ricominciato le ostilità e non poco denaro era affluito a Venezia dalla Russia e dall’Inghilterra in funzione antifrancese. Com’è noto, le armi francesi ebbero la meglio a Austerlitz e, con la pace di Presburgo, stipulata il 26 dicembre 1805, il Veneto venne ceduto alla Francia.
La reazione dei Veneti non si fece attendere. A Crispino, località situata tra Adua e Rovigo, il popolo si sollevò scatenando l’ira di Napoleone che, con decreto dell’11 febbraio 1806, privò i Crispinesi della cittadinanza. L’11 settembre 1806 il Viceré Eugenio di Beauharnais informava Napoleone che gli abitanti di Orgiano, Trissino e Valdagno si erano rifugiati in armi sui monti con intenzioni rivoltose. La causa di questo atteggiamento popolare sarebbe stata la renitenza alla leva, ma un ruolo determinante va attribuito anche alla preferenza sfacciatamente riservata nell’attribuzione dei posti migliori ad elementi ritenuti fedeli all’Imperatore dei Francesi benché professionalmente impreparati.
Il 13 aprile 1809 l’Arciduca Giovanni d’Asburgo aveva vinto a Sacile contro i Francesi anche grazie ai 46 generali veneti accorsi a militare sotto le insegne della Casa d’Austria. Questa vittoria su Eugenio di Beauharnais agì come un catalizzatore, ed anche le notizie provenienti dal Tirolo, liberato dai volontari di Andreas Hofer, dovettero avere un peso determinante. Ad Este, Piacenza d’Adige, Solferino, Grange di Vescovana, Villa di Villa, Ospedaletto, Baldovina, Lozzo, Stranghella e Barbona scoppiarono disordini, che degenerarono anche in vendette personali. Il 9 luglio ci fu una battaglia a Mason fra Francesi e contadini veneti; il giorno seguente fu bruciata Molvena per rappresaglia da parte delle truppe; il 17 luglio i Francesi riconquistarono Asiago procedendo a rappresaglie contro la popolazione civile.
A ragione si può parlare di insurrezione generale in Veneto con la contestuale riapparizione della bandiera di San Marco. La maggiore presenza di truppe nelle province di Treviso e Belluno evitò in parte il divampare di moti. Rimane tuttavia significativo l’episodio di Preganziol (Treviso), dove numerosi insorti si acquartierarono nella villa del conte Albrizzi, pretendendo l’argenteria padronale per la consumazione del rancio, argenteria che venne interamente restituita dopo l’uso.
Com’è prassi comune in occasione di conflitti, l’avversario non ridicolizzabile viene spesso demonizzato o, nella più fortunata delle ipotesi, criminalizzato. Anche i tempi recenti offrono eloquenti e persistenti esempi di sistematica denigrazione non sufficientemente motivata. Nel caso degli insorti veneti (che furono subito denominati “briganti”) non sempre la loro criminalizzazione fu frutto di propaganda. Furono infatti commessi degli eccessi, che andarono dalla vendetta personale all’appropriazione indebita. I fatti di Feltre e Busche, ove si distinsero anche alcune donne, - una certa G. Negrelli si riteneva novella Giovanna D’Arco – lo confermano. Il 7 luglio la città di Rovigo fu letteralmente occupata dagli insorti ed anche qui avvennero alcune ruberie. Grazie all’intercessione di qualche parroco la refurtiva fu però quasi interamente restituita. C’è da chiedersi a quale strana categoria di “briganti” appartenesse questa gente, che restituita il maltolto! Nel diario della contessa Negri leggiamo invece che “i Francesi peggio dei briganti defraudavano e non restituivano mai nulla”.
Il movimento di rivolta dovette essere molto preoccupante, se tutte le principali strade tra Verona e Padova furono presidiate per disposizione del conte Caffarelli, Ministro della Guerra e della Marina. La repressione francese fu sleale e indiscriminata al punto che, come autorevolmente riferisce Cesare Cantù, molti giudici si dimisero per non diventare complici di sanguinosi misfatti. Nonostante la concessione dell’amnistia, la “Cronaca Tornieri di Vicenza” elenca una lunga serie di esecuzioni disposte dalle Corti speciali di giustizia, che non risparmiarono semplici contadini rei di essere stati sorpresi con rastrelli, badili e perfino fruste fra le mani. Se si depurano questi atti dalle immancabili iniziative individuali ed irresponsabili di singoli imbrancati con i numerosi cittadini veneti in buona fede, rimane ammirevole ed inossidabile il tentativo di non accettare un potere esoso e privo di rispetto per l’identità dei popoli.
A differenza della sollevazione del Tirolo, i moti veneti furono privi di capi degni di questo nome. Ciò avvenne perché Napoleone, avendo resi noti anticipamene i giochi delle potenze, aveva precluso il coinvolgimento di ingegni e coscienze.


(Etnie, Milano – anno VI, 1985)



ANDREAS HOFER NELLA LETTERATURA TEDESCA

Il protagonista per eccellenza della insurrezione tirolese dell’ann0o Nove è stato denominato, di volta in volta, “combattente per la libertà”, “utile idiota”, “martire”, “barbone testardo”, “eroe”, “il santo”, “il fedele Hofer”: valutazioni contrastanti, provenienti da matrici culturali contrastanti. Seguendo l' indicazione di Francesco De Sanctis, che sosteneva che la più imparziale storia di un paese fosse quella ricostruibile mediante la storia della corrispondente letteratura, cerchiamo, di contro ai continui tentativi di snaturarne il messaggio, di restituire alla figura del vincitore del Bergisel le sue più autentiche connotazioni.

Il primo interessamento letterario per le vicende del 1809 è rilevabile dalle pagine di Bettina Brentano von Arnim, Diario di Goethe con una bimba. Già nella lettera del 3.3.1809 traspare un sincero entusiasmo per la causa tirolese, espresso con parole accorate e dense di preoccupazione. Che non si trattasse di semplici dichiarazioni è dimostrato dalla lettera del 20 aprile, dove l’autrice ammette con particolari incontestabili di aver fatto da tramite tra gli insorti e il conte Stadion, rivelando inoltre che lo stesso principe ereditario di Baviera aveva brindato al successo dei Tirolesi.
Nel 1810 J.L.S. Nartholdy, zio del compositore Moses Mendelssohn, si servì degli appunti di Bettina Brentano per tracciare un profilo di Andreas Hofer che servisse come incitamento contro Napoleone.
Karl Immermann fu autore di ben due libri sui fatti del 1809: Tragedia in Tirolo e Andreas Hofer, l’oste della Passiria. Il comandante montanaro appare sempre come un uomo che agisce più col cuore che con la ragione. La sua figura è il simbolo della lealtà in lotta contro le deviazioni del potere e per meglio definirne il contorno l’autore è ricorso a modelli classici. Vi troviamo infatti spunti di sapore schilleriano, tratti da I Masnadieri e dalla Pulzella d’Orleans, come pure situazioni kleistiane del tipo di quelle caratterizzanti La battaglia d’Arminio.
Nel 1809 fu pubblicata la trilogia drammatica di Karl Domanig. Essa tratta i momenti più controversi della personalità di Hofer.
Dopo aver dato l’ordine di smobilitazione egli non è forse riuscito a ravvisare indizi di pace duratura nel comportamento dei Francesi, per cui il primo impulso fu quello di continuare la resistenza. Ma fino a quando? Per poco, naturalmente. Questo errore investe la responsabilità del capo, che decide di pagare per tutti.
Contrariamente a quanto si possa pensare, la personalità di Hofer è stata più sovente indagata nel nostro secolo che in quello in cui egli operò. Ciò è spiegabile con l’esigenza, che anche la letteratura rispetta, di osservare i fenomeni da una certa distanza, lontano da rancori o strumentalizzazioni.
Rudolf Bartsch è autore del volume Guerra di popolo in Tirolo nel 1809. L’impegno dell’eroe appare completamente rivolto al bene della sua terra ed egli non è mai implicato in progetti politici o nella ragion di Stato. Questa sua astinenza deriva dalla conformazione dell’anima contadina, pronta allo slancio immediato ma aliena agli orizzonti troppo lontani.
Anche Alois Flir sui occupò delle Immagini dai tempi della guerra tirolese in una serie di racconti dominati dalla personalità di Hofer e intesi alla fedele ricostruzione dell’ambiente popolare nel mondo delle Alpi. In definitiva l’autore non propone niente di nuovo, ma sia il comandante degli insorti, sia il suo popolo appaiono molto verosimili e questo è quanto si richiede spesso a un artista.
In occasione del primo centenario dell’insurrezione apparve il lavoro di Alois Menghin, Andreas Hofer e l’anno 1809. Il protagonista viene presentato con imparzialità insieme ad altri personaggi appartenenti ora all’uno ora all’altro dei campi avversi. Sembra un’anticipazione dei dubbi che più tardi Bertolt Brecht solleverà nelle Domande di un lavoratore che legge, ma in realtà Menghin insiste sullo spirito di lealtà nei confronti delle gerarchie imperiali austriache, benché quelle, nel groviglio diplomatico-militare, apparissero agli occhi dei montanari poco affidabili o per lo meno poco comprensibili.
Karl Schönherr scrisse ben tre drammi sui moti del 1809. La componente naturalistica della sua arte gli consentì di indagare profondamente, servendosi di un facile dialetto, nel destino del popolo cui anche lo scrittore apparteneva. L’inserimento in un suo dramma di motivazioni catalizzate da una estemporanea sacra rappresentazione costituisce un elemento di originalità, ma soprattutto una valida occasione per la più fedele ricostruzione della società alpina agli inizi del secolo scorso. Grande rilievo viene dato ai luoghi ed agli equilibri della comunità contadina, nella quale, come indica l’autore, possono maturare contraddizioni come la delazione che rese possibile l’arresto dell’eroe, che pure di quella realtà era espressione.
Anche le opere di Hugo Greinz e di Hans Kramer presentano la morte spettacolare di Hofer come una protesta contro la mutilazione dei diritti dei popoli, di tutti i popoli.
Erwin Rainalter si occupa della tragedia hoferiana in modo insolito: non propone la realtà agli uomini, ma pone gli uomini di fronte alla realtà. Scorgiamo così un Hofer diffidente nei confronti di quanti a Innsbruck giubilano per la vittoria: soltanto i suoi volontari gli danno affidamento e d’altronde questi si possono fidare ciecamente di lui. I suoi montanari hanno certamente fatto il loro dovere, ma chissà se l’imperatore farà altrettanto! In attesa di un chiarimento storico su questo argomento, non sembri esagerato un accostamento ideale di quella guerra di pochi contro i molti con il Passo delle Termopili.
Prima della seconda guerra mondiale apparve il libro die Friedrich von Minkus, Tirolo 1809. Ne è protagonista l’intero popolo tirolese, di cui Hofer è la personalizzazione. Il montanaro conosce esclusivamente le leggi immutabili della natura e non comprende perché mai dovrebbe vergognarsi di schierarsi dalla loro parte. La difesa della propria terra è un imperativo categorico che di queste leggi fa parte, ma non si indossano uniformi in questa impresa, non si obbedisce a gerarchie estranee alla propria valle o alla propria parlata, altrimenti non avrebbe senso lottare contro i pericoli provenienti da oltre confine.
Frank Kranewitter ritiene nel suo libro su Andreas Hofer che l’eroe non avesse il senso della misura. Tentare un’impresa bellica di enormi dimensioni con pochi uomini male armati non sembra una decisione ragionevole. Inoltre ciò che poteva essere un dovere in primavera diventava un errore in autunno. La perseveranza in questo errore diventa testardaggine e genera un complesso di colpa, un cupio dissolvi che finirà tragicamente. L’opera di Kranewitter, sorta in pieno verismo, è un contributo per una considerazione di Hofer sotto il profilo umano, lungi da strumentalizzazioni che ne possono stravolgere l’autentica identità.
Bisognerebbe continuare nell’elencazione dei libri che furono scritti su Andreas Hofer. Bisognerebbe citare i lavori di Theodor Körner, Anton Bossi-Fedrigotti, Karl Wolf, August Lewald, Karl Paulin e molti altri, ma anche da questa incompleta rassegna si può trarre una prima conclusione. Nella letteratura tedesca il capopopolo Hofer non è il personaggio in evoluzione, caro al Bildungsroman in quanto cresce con la propria esperienza, ma la personificazione dell’attaccamento alla propria terra e della lealtà fino all’autolesionismo.
A ciò è doveroso aggiungere che, come esponente politico-militare pro tempore del proprio Land, Hofer non conobbe mai l’esitazione che, altrove, spinse a discutibile capitolazione altri responsabili di Stati prestigiosi, come il doge Manin e il Gran Maestro de Hompesch, che siglarono rispettivamente la caduta della Serenissima e di Malta.
Come uomo l’eroe fu senz’altro condizionato dalla sua scarsa preparazione di popolano, per cui non ebbe quella chiarezza di idee che come capo di una rivoluzione di controrivoluzionari gli aveva fruttato mezzo anno di ininterrotte vittorie.
L’ultima, più debole, fase dell’esistenza di Hofer fu riscattata dal suo coerente comportamento.
Non si dimentichi che egli poteva rifugiarsi nei Grigioni. Non si trascuri che ad Ala il 2 febbraio 1810 il comandante prigioniero avrebbe potuto fuggire in occasione di un provvidenziale incidente, e invece preferì prodigarsi nei soccorsi ai suoi carcerieri. Se un simile fatto fosse accaduto altrove, sarebbe stato citato come esempio di umana virtù.
Al di là delle contraddizioni, la letteratura presenta Andreas Hofer come un uomo degno dell’appellativo di eroe, poiché in ogni frangente seppe sollevarsi al di sopra dell’ambizione e dell’opportunismo. Eroe, soprattutto, perché mai progettò l’usurpazione, ma unicamente la difesa di valori ambientali e umani inalienabili.

Principali momenti della vita di Andreas Hofer

22.11.1767 – Nasce nel comune di St. Leonhard in Passeier/ San leonardo in Passiria.
22.7.1790- Partecipa, come delegato della Val Passiria, alle sedute della dieta tirolese a Innsbruck.
1796 – Partecipa, col grado di caporale, ai combattimenti austro-francesi al Passo del Tonale. Comanda, col grado di capitano, una compagnia di 129 volontari nei fatti d’arme presso Merano, San Genesio, Bolzano.
1805 – Appoggia con la sua compagnia l’esercito austriaco a Trento.
26.12.1805 – Pace di Pressburgo: dopo oltre quattro secoli il Tirolo viene annesso alla Baviera, stato satellite della politica napoleonica.
16.1.1809 – Convocazione a Vienna da parte dell’arciduca Giovanni d’Asburgo per la preparazione della resistenza armata.
10.4.1809 – Quattrocento volontari comandati da Hofer sconfiggono la guarnigione bavarese di Vipiteno, comandata dal maggiore Speicher.
13.4.1809 – Conquista di Innbruck.
15.4.1809 – Parziale smobilitazione dei volontari e ritorno a San Leonard di Passiria.
23.4.1809 – Partecipa alla conquista di Trento, occupata dai Francesi del generale Baraguay d’Hilliers.
15.5.1809 – Distruzione di Schwaz a opera dei Franco-Bavaresi.
19.5.1809 – Hofer ritorna a Vipiteno mentre l’esercito regolare austriaco è in ritirata. Mobilitazione dei volontari.
25.5.1809 – Vittoria di Hofer a Innsbruck e fuga dei Bavaresi.
6.7.1809 – Sconfitta austriaca a Wagram ed occupazione del Tirolo da parte delle truppe del generale Lefebvre.
4.8.1809 – I volontari attaccano con successo un’avanguardia nemica presso Bressanone.13.8.1809- Nuova vittoria di Hofer presso il Bergisel contro truppe numericamente superiori.
17.8.1809 – Andreas Hofer assume la reggenza del Tirolo. Inizia il governo dei contadini.
14.10.1809 – Pace di Schönbrunn. Alla volta del Tirolo marciano 56.000 uomini comandati da Eugenio di Beauharnais.
2910.1809 – Hofer viene ufficialmente informato della pace e decide di deporre le armi.
11.11.1809 – Influenzato da esponenti della resistenza tirolese, Hofer ordina la ripresa delle ostilità.
16.11.1809 – Lusinghiera vittoria dei volontari tirolesi sulle truppe del generale Rusca presso Merano.
22.11.1809 – Spettacolare resa dei Francesi in Val Passiria.
24.11.1809 – Fine della resistenza armata tirolese per l’arrivo di forti contingenti francesi.
26.11.1809 – Hofer si rifugia in alta montagna e lancia accorato appelli all’’arciduca Giovanni d’Asburgo.
28.1.1810 – Andreas Hofer viene arrestato su indicazioni del delatore Franz Raffl.
5.2.1810 – Hofer è prigioniero a Mantova.
19.2.1810 – Processo per ribellione.
20.2.1810 – Hofer muore fucilato comandando egli stesso il fuoco.

(Etnie, scienza politica e cultura dei popoli minoritari, Milano, anno VI, n. 9)

RICORDATI DI ME CHE SON LA SPIA


Presso la sede romana del Servizio Informazioni delle FF.AA. esiste un piccolo Sacrario, dove si trova anche la
fotografia di Camillo De Carlo, medaglia d’oro vittoriese della Grande Guerra.
L´ informazione proviene da una lettera inviata all´ interessato dal Generale De Lorenzo in data
11 settembre 1957. Lo scritto comunica anche una specie di battimano con i guanti, cioe´ la
concessione della medaglia d´ oro del SIFAR „come ricordo a coloro che ne hanno fatto
parte e che a maggior ragione ritengo doveroso offrire a chi piu´ di ogni altro ha meritato“.

Da quanto risulta dalle memorie scritte, Camillo De Carlo fu capo del SIM in Spagna dal maggio1941al marzo 1942, dopo essere appartenuto al MIS fin dal dicembre 1939. Il ritorno a Roma avvenne il 18 agosto 1943 e gli fu subito consegnata la convocazione di Pietro Badoglio, divenuto capo del Governo dopo il 25 luglio del 1943 appunto. A De Carlo fu comunicato che „conveniva“ trattare con l´ Inghilterra e con l´ America, ma egli avanzò non poche „obbiezioni“, come si legge testualmente, le quali sarebbero state comunque superate sia dalla sua destinazione temporanea alle dipendenze della Presidenza del Consiglio in via di liquefazione, sia dalle insistenze del Generale Carboni, conosciuto poco tempo prima. L´ attivita´ informativa o persuasiva, chiamiamola così, continuo´ certamente in favore di entrambi gli schieramenti, anche se limitata dalle circostanze. Forse sarebbe pero´ improprio chiamarla spionaggio nel senso del termine.

Quali potevano essere le “obbiezioni” di De Carlo? Mentre la Principessa Mafalda di Savoia, reduce dal
funerale di Re Boris di Bulgaria, fu una sorpresa trovare Villa Savoia deserta il 9
settembre 1943, non doveva essere difficile presumere, per un uomo navigato come lui,
che il Re e il Generale Badoglio si sarebbero „allontanati“ da Roma con la Fiat 2800
in direzione di Ortona, e da qui in Puglia. Un telegramma in lingua inglese pieno di errori
ortografici e sgrammaticature, fu inviato proprio dallo Stato Maggiore il 9 settembre 1943 alla
stazione radio alleata di Algeri per informare che i fuggiaschi erano diretti a Taranto, dove
avrebbero brigato per apparire cobelligeranti degli Alleati dichiarando guerra alla Germania.
Questo dovette essere motivo di particolare imbarazzo per De Carlo. Vengono di seguito
elencate le ragioni:

1- L´ armistizio militare firmato il 2 settembre a Cassibile fu in realta´ una richiesta per schierarsi
dalla parte dei vincitori e implicava per l´ Italia, in situazione di resa incondizionata, la privazione
di qualsiasi iniziativa in politica estera. Una dichiarazione di guerra sarebbe stata, dunque, priva
di valore giuridico e con future ripercussioni sull´ immagine storica del Paese. Bisogna saper
distinguere tra gloria e vanagloria.

2- La dichiarazione di guerra in tali condizioni non poteva essere accettata, non rientrando tra
i poteri del governo del Re. Si imponeva una scelta, magari cercando il male minore. Certo, dal
cambiamento di fronte derivavano non poche aspettative italiane di vantaggi a nord-est una volta
che la guerra fosse cessata, come accennato in una notevole opera sulle concentrazioni di ex
jugoslavi anche dopo la caduta del regime nel luglio ´43, ma pianificata in data 12 agosto 1942.
Un ritorno di De Carlo a Vittorio Veneto era da escludersi a causa di sue precedenti contiguita´
col regime. Non si dimentichi, inoltre e per assurdo, che egli avrebbe potuto essere perseguitato
dalle leggi razziali del 1938. In fin dei conti ci sono sempre state due Sicilie e un solo Veneto, avra´
pensato, ed egli scelse le truppe del Generale Montgomery diventando da Maggiore, qual
era, Tenente Colonnello. Per il resto la storia non dice altro. E´ lo storico che parla per lei.
(Il Piave, mensile, Conegliano Veneto, novembre 2005)


L E P A N T O, L A B A T T A G L I A C H E C A M B I O´ L A S T O R I A

La leggenda narra che tre bellissime ninfe si erano mostrate gentili con gli Dei. Verso Archeloo esse sarebbero state, invece, scortesi insultandolo con parole villane. La divinita´ sdegnata le sommerse allora nel mare Jonio e furono così convertite nelle isole Curzolari. La storia tramanda che presso queste isole ebbe luogo una grande battaglia navale tra le flotte cristiana e turca. Una improvvisata designazione ottocentesca denomino´ tale scontro, che ebbe luogo precisamente nel golfo di Patrasso la domenica del 7 ottobre 1571, come la battaglia di Lepanto.

L´alleanza contro i Turchi, nota come la Lega Santa (da confondersi con la Santa Lega, sti=
pulata nel secolo successivo), era stata proclamata a Roma il 25 maggio 1571. A Venezia
l´ annuncio fu dato il 2 luglio 1571. Per quanto riguarda la pertecipazione veneziana fu no=
minato Capitano Generale Sebastiano Veniero. Suo vice e Provveditore Generale dell´ ar=
mata era Agostino Barbarigo. Lo storico bellunese Giorgio Piloni informa che Agostino
Barbarigo volle avere al suo fianco il Conte Silvio di Porcia e Brugnera, nato circa nel
1526 e noto anche quale capitano della guardia durante il Concilio di Trento. Il Senato inc=
co´ il Podesta´ di Treviso di recapitare tramite corriere a cavallo la nomina ducale al Porcia. Durante la battaglia Agostino Batbarigo fu colpito da una freccia nell´ occhio sinistro. Il fe=
rito, portato sotto coperta, non mori´ subito, ma ebbe una dolorosa agonia in stato di inco=
scienza. Gli successe Federico Nani, il quale volle sempre con se´ Silvio di Porcia. En=
trambi concorsero non poco all´ esito dello scontro, avendo catturato anche una galea ne=
mica sulla quale c´ era nientemeno che l´ Ammiraglio turco Caratali, il quale fu fatto pri=
gioniero. La notizia della vittoria fu recata a Venezia il 17 ottobre da Onfre´ Giustiniano. A
Treviso, tuttavia, non si sapeva ancora nulla. Uno sconosciuto si vantava di conoscere il ri=
sultato. Il Podesta´ Giovanni Gritti lo convoco´ e il personaggio fece una specie di gioco di
prestigio, dal quale risulto´ che tutto era andato bene a Lepanto. Seguirono quattro giorni di
processioni, giubilo e ringraziamenti. La flotta vincitrice si diresse verso Messina, Napoli
e Roma. Alcune galee veneziane si diressero invece verso Corfu´ trascinando le navi turche
catturate, rimorchiate per la poppa e con gli stendardi in mare. Gia´ che c´ erano, attaccaro=
no anche la fortezza di Margarithi, la quale capitolo´ in breve tempo. In una lettera di Sebastiano Veniero al Doge si legge che „il magnifico Conte Silvio di Porcia ha combattuto con Onoreh contro gli avversari, per grazia di Dio sconfitti“. Egli ha riportato anche due feri=
te di freccia rispettivamente nel fianco destro e nella coscia sinistra. Per la precisione la
sua partecipazione all´ impresa di Margarithi sarebbe stata un´ iniziativa volontaria e non
un obbligo, per cui non gli sarebbe spettato alcun particolare riconoscimento.
Una certa ostilita´ per le celebrazioni della battaglia di Lepanto si percepisce negli ultimi
tempi (non era così nel 1911, quando l´ argomento poteva servire per finalita´ nazionali=
stiche italiane in Nord Africa). In data 31 luglio 2005 una lettera pubblicata su un settima=
nale diocesano esprimeva perplessita´ per una programmata processione in onore della Ma=
donna del Rosario poiche´ integrata dalla rievocazione della battaglia di Lepanto. La conti=
guita´ con altre commemorazioni (come per esempio la liberazione di Vienna del 1683)
avrebbe potuto inoltre prestarsi ad altre considerazioni. E´ probabile che si tratti di pura
coincidenza ma alcune iniziative locali sarebbero intese alla rivalutazione della vita e dell´
opera dello storico bellunese Giorgio Piloni, che in seguito sposo´ Degnamerita di Porcia e
Brugnera. Altre assonanze combaciano ancora meglio. La consorte del Piloni era infatti ni=
pote di Silvio di Lepanto ed e´ difficile evitare degli accostamenti. Comprendiamo.
(Il Piave, mensile. Conegliano Veneto, ottobre 2005)

FEDELI D' AMORE: GLI ESPONENTI, I NUMERI, LE DONNE.

La fedeltà d' Amore deriva dal Sufismo e dalla Mistica Iraniana nota come "'Oshshaq".-
Gli aderenti costituivano una religione segreta per iniziati basata sul principio che la donna
fosse un essere dell' altro mondo e che quest' ultimo fosse un mondo migliore. Tuttavia, poi=
ché la donna non era sufficientemente valutata e amata, era necessario che il numero dei
suoi ammiratori aumentasse il più possibile.
Durante le Crociate il messaggio dei Fedeli d' Amore si estese alle dimensioni occidentali
presenti in Terra Santa. I Templari e l' Ordine Teutonico dovettero essere i principali ricettori.
I Trovatori si sarebbero poi incaricati della divulgazione in Europa.
L' epoca in cui questa osmosi si radicò corrisponde ai secoli XIII e CIV.- Ne erano stati pro=
tagonisti tre papi e un principe: Nicolò III, Bonifacio VIII, Clemente V e Rodolfo d' Asburgo. Il
primo era stato Inquisitore Generale per l' Italia e l' ultimo aveva confermato giuridicamente lo
Stato della Chiesa.
Nello stesso periodo si sviluppò il risveglio artistico, letterario, culturale in Occidente. Per quanto
riguarda l' Italia i nomi di Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia e Guido Guinizzelli dovrebbero si
gnificare qualcosa. Di più contano Dante, Petrarca, Boccaccio, Dino Compagni e Brunetto Latini.
Se poi si aggiungono Francesco da Barberino, Gioacchino da Fiore, Cielo d' Alcamo,
Lapo Gianni, Raffaello..., la questione assume ulteriore spessore.
I Fedeli d' Amore erano una setta. La definizione non deve essere intesa secondo l' uso cor=
rente. Natalino Sapegno ha spiegato che si deve comprendere come una "Scuola filosofica".
Dante scrive nel Paradiso (III,105) che l' Ordine dei Francescani era una setta.
L' Amore doveva dunque integrare quest' ordine segreto per definizione. Ma non si trattava propria=
mente dell' Amore riferito al consueto senso del vocabolo.
La donna impersonava la Filosofia, la Sapienza, l' Intelligenza attiva, l' Anima d' ingegno. Que=
sti concetti erano propedeutici a un rinnovamento morale e spirituale, in seguito al quale sarebbe poi
giunta la Riforma.Gioacchino da Fiore aveva denominato questo tempo la seconda era della storia del
mondo.
Le caratteristiche della "donna" dei Fedeli d'Amore erano antitetiche allo strapotere dei
Vescovi di Roma. La circostanza era pertanto molto pericolosa. Perfino i Domenicani e i
Francescani erano Inquisitori! La dantesca "Vita Nova" era stata data alle fiamme!
Urgeva usare un linguaggio segreto, diretto a chi doveva capire, da decifrarsi mediante un' ap=
posita chiave di lettura. Nel Canto IX dell' Inferno si legge:

"O Voi che avete gli intelletti sani,
mirate la dottrina che s' asconde
sotto il velame degli versi strani".

I destinatari erano gli oppositori del potere temporale dei Papi, i Ghibellini in esilio o in sonno
che auspicavano l' intervento del Re Federico III d' Aragona e dell' Imperatore Ludovico il Bava=
ro. La "Vita Nova" doveva indicare il pensiero politico della Confraternita dei Fedeli d' Amore.
Le donne dei Fedeli d' Amore erano figure retoriche. Nel capitolo 14 del secondo Trattato del
"Convito" si legge: "La donna di cui io m' innamorai...fu la bellissima e onestissima figlia del’ Imperatore dell'universo alla quale Pitagora pose nome Filosofia".

Nella canzone "Al cor gentil" è chiaro che l' Intelligenza sia la donna di Guido Guinizzelli.-
Guido Cavalcanti s' innamorò di Manetta a Tolosa in quanto somigliante a una Giovanna di Fi=
renze, pure allusiva per l' omonimia com il Battista. Tolosa era allora una delle capitali
dell' opposizione ghibellina. Allusivi sono naturalmente anche gli altri nomi di donna: Laura
(che significa la verità mistica), Costanza, Fiammetta, Lagia, Selvaggia e Beatrice soprattutto.
Molti incontri avvenivano in chiesa. Anche questa occasione poteva essere simbolica e non
si trattava certo delle analoghe circostanze della mia gioventù, quando la chiesa era un luogo
complice di sguardi.

La simbologia di Beatrice è confermata da parecchi motivi. Sarebbe stata la figlia di Folco
Portinari andata sposa a Simone dei Bardi. Insoliti sono il colpo di fulmine a soli 9 anni, la
mancanza di tentativi di avvicinare la fanciulla, il matrimonio del poeta con un' altra donna,
l' assoluta mancanza di gelosia nei confronti del marito di lei, eventualità che si registra
anche per la moglie di Dante, il quale dichiarò che il numero "9" si conveniva a Beatrice.
Tutti i numeri sono interessanti, ma alcuni sono più interessanti di altri.
- 9 sono i mesi tra la nascita di Dante e il concepimento di Beatrice,
- 9 sono i cieli che si congiungono quale auspicio per la nascita di lei,
- dopo 9 anni e 9 giorni i due si rivedono,
- la malattia del poeta dura 9 giorni,
- Beatrice muore il 9° giorno del 9° mese secondo il calendario iraniano,
- il numero 9 era sempre presente nell' antichità,
- 9 erano i libri sibillini,
- 9 erano le Muse,
- 9 erano i giri dello Stige,
- 9 sono i cerchi dell' Inferno, 9 gli scaglioni del Purgatorio, il Paradiso sta
sopra il 9° cielo,
- 9 erano i misteri eleusini.
Il 9° Comandamento proibisce di desiderare la g o n n a d'altri, o qualcosa di simile,
ma non si deve badare troppo alle assonanze. Forse si è trattato solo di una raccoman=
dazione fatta a Mosè dalla moglie gelosa.

Vi sono anche altri tratti comuni tra le donne dei Fedeli d' Amore. Beatrice muore prima
di Dante e lo stesso dicasi per Laura e Fiammetta rispetto a Petrarca e Boccaccio.
Non si trattava allora di donne vere e proprie. Infatti nessun Fedele d' Amore sarebbe mai
stato preso a cornate da mariti gelosi.- A proposito di corna! Quelle dei cervidi si rigenerano.
Vivremmo certamente più a lungo studiando questo fenomeno di rigenerazione., ma vivrem=
peggio se si ritenesse che la nostra testa ne sia provvista.- I Fedeli d' Amore non avevano
questa preoccupazione.

Il pensiero dei Fedeli d' Amore non si sarebbe estinto nel Medio Evo. Esso si sarebbe piuttosto
trasferito in seguito all' interruzione degli scambi esoterici tra Oriente ed Occidente. L' acces=
so a taluni scritti, ovviamente rimasti a lungo decaffeinati in Occidente, ha prodotto qualche im=
pulso altrettanto ovviamente censurato nella nostra scuola.- Friedrich Leopold von Hardenberg,
noto come Novalis e autore degli "Inni alla notte", scrive: "L' amore fondato sulla fede è re=
ligione".- Che strano! Anche nel '300 si usavano proprio le parole "fede" e "amore"!- Novalis è a
suo agio nella linea spirituale dei Fedeli d' Amore. Anche il suo linguaggio cifrato è in linea:

"Due non lo sono più, ma Enrico e Matilde.
Sono uno unito all'altra
in una stessa immagine".

La medesima collocazione compete, oltre che al perseguitato Torquato Tasso, al pittore Raf=
faello Sanzio, il quale scrisse al Conte di Castiglione: "Siccome si vedono così pochebelleformefemminili, io tengo nella mente una certa immagine che nasce dalla mia anima".
Detto da un genio come lui, con le modelle di cui disponeva, emerge un sospetto. Anche Raf=
faello usava un linguaggio cifrato? Egli non poteva essere un uomo senza qualità, per il quale la
verdura in scatola avesse il vero senso della verdura fresca, per usare le parole di Robert Musil.-

La verità è che certa bellezza si descrive meglio con un pennello anziché con una penna. Gli
stessi Leonardo e Botticelli sarebbero stati contigui a Raffaello per questo orientamento.
Anche Piero della Francesca potrebbe essere stato contiguo ai Fedeli d' Amore. Ancora di più
Taddeo Gaddi. La sua "Madonna" tiene in mano un libro, il quale rappresenterebbe la sapienza
ancora non spiegata dei Templari. Anche i colri bianco e rosso delle vesti erano un segno di distin=
zione dei Fedeli d' Amore. L' Austria evidenzia ancora tali colori e questa potrebbe essere una de=
rivazione dalla dottrina emanata dall' Ordine Teutonico e pertanto sottovalutata. Questo non sarebbe comunque l' unico segmento trasportato in Europa dall' Ordine Teutonico. Nella mistica ghi=
bellina c'è un nome ieratico riferito agli Hohenstaufen, che non poteva essere svelato agli Infe=
deli d' Amore.- L' opera dell' Imperatore Federico II di Svevia sulla caccia con il falcone nasconde
certamente una conoscenza occulta. Ma anche gli Hohenstaufen furono demonizzati e infine oscurati da certa storia. Qualcosa è andato perduto.

(22 aprile 2006.- Conferenza presso l' antico Oratorio della Cascina Linterno di Milano, gradita dimora di Francesco Petrarca durante il suo soggiorno milanese).



IL SOVRANO MILITARE ORDINE DI MALTA

L'Ordine Sovrano e Militare e Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme, detto di Rodi, detto di Malta, ebbe la sua origine verso l'anno 1048. Le finalità erano rappresentate dall'ospitalità, cura e difesa dei pellegrini in Terra Santa.

Numerose furono le battaglie combattute sul mare e per terra dall'Ordine. Le più significative furono quelle per il possesso di Rodi dal 1310 al 1523.- Dopo la perdita dell'isola l'Imperatore Carlo V° assegnò all'Ordine le isole di Malta, Gozo e Comino il 26 ottobre 1530.

Il 18 giugno 1565 una potente flotta turca si dispose a conquistare Malta. Le forze erano impari e il 23 giugno l'isola fu invasa. Soltanto il forte di S. Elmo continuò la resistenza. Mancavano l'acqua, i viveri, le armi.- Una flotta spagnola giunse provvidenzialmente in soccorso. Seguì una sconfitta per i Turchi, che significò la fine del loro predominio sul mare. La battaglia di Lepanto avrebbe poi confermato tale successo il 7 ottobre 1571.

Durante la battaglia di Malta si verificò una crudele circostanza. La guarnigione cristiana volle celebrare i propri caduti con un canto funebre. Il comandante avversario pensò di offrire loro delle reliquie. Egli fece dunque crocifiggere su delle assi i corpi dei cavalieri morti e dei prigionieri ancora in vita, gettandoli poi in mare.- Una leggera corrente trasportò quei corpi verso il luogo in cui i difensori resistevano ancora.- Questi ultimi posero allora per rappresaglia sulle bocche dei cannoni gli avversari catturati e la risposta fu terribile.- Anche la storia dell'Ordine suggerisce che i tempi non furono mai migliori e che non si è mai cauti abbastanza nella scelta dei propri contemporanei.

La storia dell'Ordine non è tuttavia disseminata soltanto di battaglie.- Nel grande ospedale di La Valletta si praticava una medicina d'avanguardia per quei tempi. L'anatomia e la chirurgia rappresentavano gli studi più progrediti. Frequenti furono perfino gli interventi per calcoli renali e cataratta.
Nell'attività ospedaliera dell'Ordine non sono mai mancate la sintonia con il resto del mondo e la imparzialità verso i sofferenti.

Anche in questa attività accadde qualcosa di significativo.- Un Principe musulmano era stato ricoverato in un ospedale dell'Ordine. Le cure non avevano alcun effetto ed egli sembrava vicino alla morte. Il malato rifiutava il cibo.- Un giorno gli infermieri lo portarono in giardino con la speranza di stimolargli l'appetito.

In giardino c'era un magnifico cavallo accudito da un paggio.- "Vorrei mangiare la carne di quel purosangue", disse il malato.
Poichè si trattava nientemeno che della cavalcatura del Gran Maestro dell'Ordine, giunto per ispezionare l'ospedale, gli infermieri gli proposero altra carne equina.- "No. O quella o niente!", fu la decisa risposta.- Bisognò informare il Gran Maestro. Questi ripetè la regola fondatrice dell'ospitalità.: "Quando un ammalato si presenta, che sia portato in letto, e lì, come fosse Nostro Signore in persona, dategli quanto di meglio avete in casa". Poi il Gran Maestro continuò: "Quando si tratta del proseguimento di una vita, non sono ammesse esitazioni".- Queste parole confermarono che la vita è tutto ciò che succede quando si pensa al futuro. Il cavallo doveva essere dunque sacrificato!- Tale disponibilità fece recedere il principe dalla sua richiesta. Subito dopo egli cominciò a mangiare e morì.

Nel 1798 Napoleone Buonaparte occupò l'isola di Malta, ritenendola un punto strategico nel Mediterraneo. I mezzi per una valida difesa non mancavano, ma si decise di non combattere. Mai come in questo caso il dubbio sembra avere affilato i suoi coltelli con la verità. Malta era geologicamente, ma soprattutto idealmente, un'isola. E' dunque comprensibile che siano sorti problemi nei rapporti con delle penisole!- Si ritiene tuttavia che la mancata resistenza fosse motivata dalla regola dell'Ordine, la quale vieta di battersi contro alri cristiani.


Il Sovrano Militare Ordine di Malta è dotato di un Codice e di una Costituzione, che ne sanciscono la secolare indipendenza, la sovranità internazionale e l'unità.- Il Gran Maestro regna su oltre 12.000 Cavalieri e riveste il titolo di Altezza Eminentissima. L'Imperatore d'Austria gli conferì la dignità di Principe del Sacro Romano Impero di Nazione Germanica e il Pontefice quella cardinalizia. Le sedi dell'Ordine Sovrano godono del diritto di extraterritorialità. La corona e lo scettro costituiscono le insegne della sovranità.

I componenti dell'Ordine Sovrano sono divisi in tre classi:

1) Cavalieri di giustizia e Cappellani conventuali,
2) Cavalieri di obbedienza e "donats" di giustizia,
3) Cavalieri e Dame d'onore e di devozione,
- Cappellani conventuali ad honorem,
- Cavalieri di grazia e di devozione,
- Cappellani magistrali,
- Donats di devozione.

Sono parecchi gli esponenti della casata di Porcia e Brugnera che appartennero al Sovrano Militare Ordine di Malta.
Negli Annali del Granpriorato di Lombardia e Venezia figurano quali Cavalieri e Commendatori, Francesco Saverio (15.09.1765 - 15.03.1832), Alfonso (2.02.1790), Antonio (11.03.1793 - 4.08.1860), Leopoldo (31.07.1801 - 3.02.1878), Ferdinando (10.11.1834 - marzo 1896), Alfonso Gabriele (21.09.1868 - 24.04.1932), Guecello Pirro (14.02.1911 - 26.09.1994).

I bisnonni di Lucrezia di Porcia e Brugnera, nata il 18 maggio 2006, furono:

Il Principe Guecello Pirro di Porcia e Brugnera, nominato Cavaliere d'onore e devozione dal Sovrano Ordine di Malta in data 20 novembre 1980,

Il Conte Uguccione Scroffa, che fu Gran Priore del Sovrano Militare Ordine di Malta a Roma.

Per il riconoscimento del titolo di Cavaliere è necessario esibire, oltre a importanti credenziali, anche i certificati di battesimo e di matrimonio religioso.


RAGGIRO IMPERIALE
Era il 1867. L'8 giugno Francesco Giuseppe ed Elisabetta, la mitica Sissi, furono incoronati a Budapest Re e Regina d'Ungheria. Sulla monarchia austro-ungarica pesavano tuttavia ancora la sconfitta di Koenigsgraetz e la perdita del Veneto, cioè di una parte dell'Impero che comportava 122 milioni di ducati di ricchezza annua. Le difficoltà economiche del governo di Vienna erano dunque una comprensibile realtà.
Il 19 settembre tre personaggi furono ricevuti dall'Imperatore, sebbene l'udienza ne prevedesse soltanto due. Si trattava del Padre Romualdo Roccatani, del Conte Don Josè Maroto dè Fresno y Landres e del Colonnello Don Antonio Jmenez de la Rosa: un italiano e due spagnoli.
La forzatura per la terza persona, cioè per il religioso, sarebbe stata effetto dell'interessamento dell'Arciduchessa Sofia, madre di Francesco Giuseppe, o del Provinciale dei Gesuiti che avrebbe assicurato che la condotta dell'interessato fosse conforme ai Comandamenti tranne, forse, ad eccezione del nono. Con un pò di fantasia si potrebbe ricostruire l'aspetto fisico dei tre "petenti". L'ecclesiastico provvisto della regolamentare "circumferentia corporis". Il Conte con baffi e pizzo alla D'Artagnan nei film di cappa e spada. Il Colonnello dignitoso, convinto che le orecchie non hanno le palpebre e probabile marito con qualche lacuna. Il motivo del colloquio era singolare. Padre Roccatani aveva un segreto che avrebbe svelato solo all'Imperatore. Egli era in grado di trasformare l'argento in oro puro! i tre erano alla ricerca di un principe che finanziasse l'impiego dell'invenzione. La somma sarebbe spettata per 4/6 allo scopritore e 1/6 a ciascuno dei due nobiluomini. Napoleone III fu scartato a priori: troppo scaltro. Il Barone Rotschild fu lasciato da parte: col suo telegrafo era in grado di trasformare la carta, non l'argento, in oro presso le Borse del continente. L'Imperatore Francesco Giuseppe appariva il più accessibile poiché il Colonnello de la Rosa aveva combattuto tre mesi per la difesa di Gaeta voluta dalla sorella di Sissi. La petizione dichiarava che non era richiesto nessun anticipo e che la priorità riservata a Francesco Giuseppe era fondata sulla difesa della Cristianità sempre attuata dagli Asburgo. L'imperatore considerò la comparsa dei tre soci come un segno della Provvidenza, una gratitudine divina per la protezione riservata alla Chiesa. La disponibilità dell'oro non avrebbe inoltre significato un risarcimento per le amputazioni territoriali del 1866? Come rifiutare un dono del cielo?
La petizione degli alchimisti prevedeva naturalmente anche l'eventuale rifiuto della scoperta. Si provvide pertanto a insinuare che, in tal caso, si sarebbe verificato un danno paragonabile a quello sofferto dal Bonaparte dopo la sua ricusazione delle navi a vapore che avrebbero potuto assicurargli la supremazia marittima.
Il 17 ottobre 1867 ebbe luogo il primo esperimento in un laboratorio del Politecnico. Due storte di vetro contenevano complessivamente 500 grammi d'argento. Il crogiolo di ferro ne racchiudeva la metà. Il 9 marzo 1868 fu notato che dall'amalgama si era staccato lo 0,48% di polvere nera poi riconosciuta come oro. La relazione di un esperto lasciava intendere che il procedimento avrebbe riguardato nel tempo il resto della miscel. Fu ordinata la ripetizione degli esperimenti presso la Zecca di Vienna. L'illusione era evidentemente ancora presente nella speranza di Francesco Giuseppe. Il risultato fu negativo. La situazione peggiorò quando Padre Roccatani avavnzò la richiesta di un anticipo pari a cinque milioni di fiorini. Gli esperimenti continuarono tuttavia e stavolta fu constatata la presenza dell 0,776% di oro! Non si trattava propriamente di un successo, ma della non avvertita caduta di un anello nel crogiolo, fu riferito con riverente disagio. Per non dare adito a rimostranze la Cancelleria imperiale liquidò al religioso 10.000 fiorini. La stessa somma fu riconosciuta complessivamente ai due complici
Francesco Giusppe dovette ammettere di essere stato ingannato. La sua ingenuità era stata la conseguenza della nota predilezione asburgica per i progetti suggeriti da stranieri. Basti ricordare che ben tre dei suoi cinque Ministri degli esteri non provenivano dalla politica austriaca, ma erano più che altro ideologi esperti nel fornire le briglie per i cavalli di Troia. La truffa dell'oro era costata 20.000 fiorini. A Francesco Giuseppe era andata meglio che al fratello Massimiliano, la cui avventura messicana, sempre suggerita da stranieri, si era conclusa con la morte. Come si sa, poiché nessun potere sopporta la verità, gli Imperatori hanno il privilegio di congedare con sollecitudine le circostanze spiacevoli dalla rubrica delle loro udienze.

(Mensile "Il Piave", Conegliano Venento, settembre 2006)

IL MITO DEL BUCINTORO

La parola per definire la famosa e sfarzosa imbarcazione veneziana a remi è singolare e arcana. Il Bucintoro ospitava il Doge nel giorno della "Sensa", il quale fungeva da ufficiale dello stato civile nella celebrazione del matrimonio di Venezia con l'Adriatico.

Il "burcio in oro" fece la sua comparsa nel 1252.La data potrebbe però essere spostata al 1311. Questa è tuttavia un'ipotesi debole perchè Francesco Sansovino nel 1273 citava già un "navilium Duecentorum Hominum". Come la maggior parte delle simbologie, anche il Bucintoro potrebbe aver avuto la radice nel mito. Virgilio tramanda che Enea organizzò dei giochi funebri per celebrare la morte del padre Anchise. Una delle imbarcazioni che parteciparono alle onoranze si chiamava Centaurus e trasportava cento uomini. Venezia avrebbe voluto raddoppiare quello sfarzo, ed ecco un "Bicentaurus" con i 200 uomini citati dal Sansovino. Il nome potrebbe essere derivato anche dalle trombe e "buccine" che si suonavano festosamente a bordo dell'imbarcazione.- Il Bucintoro fu ricostruito più volte. A quello del 1526 ne successe un altro nel 1606, costato ben 70.000 ducati. Ma allora Venezia non dipendeva ancora dai trasferimenti da Roma!- L'ultimo varo fu voluto dal Doge Alvise Mocenigo nel 1729. Le dimensioni erano: 35 mt. di lunghezza, 7,5 mt. di larghezza e 8 mt. di altezza. L'equipaggio: 3 ammiragli, 40 marinai e 168 vogatori disposti 4 per ognuno dei 42 remi.- E' quasi certo che si trattasse del Bucintoro dipinto dal Guardi. Altri artisti, come il Canaletto, vollero tramandarlo ai posteri con tutta la loro bravura. L'ultima uscita del Bucintoro avvenne nella "Sensa" del 1796. Poi i Francesi, dopo averne asportato i materiali di pregio, , gli cambiarono il nome in Prama Hydra, lo armarono con 4 cannoni e lo usarono come difesa galleggiante del Lido.

Nel 1824 fu provveduto alla definitiva demolizione presso l'Arsenale veneziano, essendo ormai ridotto a un rottame.- Si aggira ora per Venezia il desiderio di ricostruire il Bucintoro. tale e quale era. Sarebbe una bella immagine per Venezia e per la sua storia di Repubblica indipendente. Altrove lo avrebbero già fatto, se avesse fatto parte del patrimonio storico. E' un'iniziativa lodevole, ma ardua e costosa. Bisognerebbe prima di tutto risalire ai disegni e progetti originali.

Poichè la demolizione ebbe luogo sotto il Governo austriaco, non è escluso che quella buona amministrazione abbia conservato una parte della documentazione residua e che questa sia a Vienna.- In tal caso qualcosa si potrebbe fare. Basta che i volonterosi si rivolgano al Comitato Imprenditori Veneti "Piave 2000". La nota Associazione ha infatti conoscenze e possibilità in ambiente viennese. Più gravi saranno le difficoltà economiche. Escluso il contributo pubblico (non si tratta di restaurare reperti romani o supposti tali!), la sponsorizzazione privata dovrebbe essere imponente.

Per ultimo, qualora si realizzasse il progetto, bisognerebbe provvedere alla manutenzione e al rimessaggio. In altre parole, magari aggiungendo difficoltà di navigazione, il Bucintoro non si ha da fare.

La speme è finita, andate in pace.

(Il Piave, mensile, gennaio 2007)

I B A R B A R I

“,,,è già notte e i Barbari non vengono. E’ arrivato qualcuno dai confini a dire che di Barbari non ce n’è più.- Come faremo ora senza i Barbari? Dopotutto quella gente era una buona soluzione”.

(Costantino Kavafis, Aspettando i Barbari)

Senza contare i Germani, che integravano le Legioni dell’Impero Romano, già da tempo e ai quali venivano assegnati appezzamenti di terreno da coltivare dopo il congedo, furono almeno una dozzina le popolazioni giunte d’oltralpe nell’Agro Opitergino dal ‘400 d.C. fino al secolo X.-
Incominciarono i Visigoti nel 401, seguiti da Vandali e Ostrogoti. Gli Unni di non grata memoria arrivarono nel 452. Gli Eruli spuntarono nel 476. Poi vennero i Bizantini. Durò un bel po’ il dominio dei Franchi. Lo stesso si può dire dei Longobardi che spuntarono nel 568. Poi comparvero gli Avari all’inizio del VII secolo e subito dopo gli Slavi del Ducato di Carantania. Nel X secolo fu la volta degli Ungari, pure di non grata memoria.
Nella toponomastica questi passaggi, ma anche le relative permanenze o insediamenti, rimasero registrati. La topografia incontra infatti maggiori difficoltà a diventare politicamente scorretta. Le vie “Schiavonesche” e “Ongaresche” si riferiscono rispettivamente agli Slavi e agli Ungari. A Pordenone c’è un bivio: via Romans e via Sclavons.- Le numerose località chiamate “Pieve” furono ripopolamenti disposti dai Patriarchi-Principi di Aquileia. Gli altrettanti Comuni denominati “Fara”, o “Farra”, furono centri abitati costruiti dai coloni trasferiti dall’Imperatore del sacro Romano Impero e non solo una prerogativa del solo Nord-Est. Si trattava quindi di popolazioni slave e germaniche fatte arrivare per colmare i vuoti demografici causati dalle pestilenze e dalle guerre.
Ebbene, tutte queste etnie e i loro ordinamenti politici furono rispettosi della cultura sedimentata nei territori loro assegnati, la quale li aveva accolti. Le miriadi di lapidi ed iscrizioni conservate nei musei o rimaste indisturbate nelle sedi in cui furono poste, lo dimostrano. Eventuali danneggiamenti intervenuti nei secoli sono attribuibili agli agenti atmosferici, non ad animosità delle nuove politiche medievali.

Non fu così nella seconda metà del secolo XIX. Le iscrizioni che costituivano altrettante pagine di storia per ciascuna comunità, furono sistematicamente scalpellate per renderne impossibile la lettura. Costituiscono un esempio le realtà di Venezia, Asolo, Feltre e così via. Molte lapidi furono invece infrante, affinché nessuno potesse chiedersi che cosa mai vi fosse scritto e quale evento riguardante la città esse ricordassero. Per forza! I civili responsabili non erano stavolta Barbari!

Oderzo non fu risparmiata.
La città non aveva registrato eventi straordinari nell’800, tranne che una volta.
Era il dicembre del 1824. L’Arciduca Ranieri d’Asburgo, Viceré del Regno Lombardo-Veneto, volle visitare alcune località tra Treviso e Portogruaro. Egli era al corrente che le biblioteche dei Tomitano e degli Amaltei erano tra le più celebri e antiche della zona quanto a manoscritti, incunaboli e trattati di agricoltura. Il Principe decise dunque di fare tappa a Oderzo per visitarle.
L’interesse e la soddisfazione del Viceré furono tali che Francesco Amalteo fece murare un’importante lapide nell’omonimo palazzo.
Nel 1866 quella traccia di storia opitergina fu frantumata dal furore risorgimentale e dall’orientamento che intendeva privare la città di ogni impronta del passato, che pure era esistito. Non fu un’espressione di rispetto per la cultura locale.
Sensibilità culturale, civile diligenza e interessamento per le dimensioni storiche opitergine vorrebbero che ora quella lapide venisse ripristinata.- Non è mancata una proposta in tal senso, supportata da opinioni favorevoli e auspici. Anche la stampa ne ha parlato.- Non è tuttavia pervenuta alcuna risposta dalle istituzioni competenti. Anche un riscontro negativo, per il quale sarebbe comunque difficile trovare una credibile motivazione, sarebbe andato bene perché le decisioni, qualsiasi esse siano, competono ai vertici preposti. Non sembri quindi esagerata l’aspettativa di una norma che stabilisca la decadenza dalla carica rivestita per gli amministratori eletti, in caso di mancata risposta alle istanze ricevute.
Per la necessaria informativa a quanti desiderassero ugualmente conoscere la circostanza del caso di specie, viene riportato il testo della famosa lapide che, non si comprende per quale motivo, ha dato tanto fastidio:

“Il 13 dicembre 1824
Ranieri Arciduca d’Austria,
Viceré del Regno Lombardo-veneto,
onorò della sua presenza
con un’ora di umanissimo colloquio
la Biblioteca degli Amaltei
che è vanto della Provincia di Treviso.
Francesco Amalteo affidò ai posteri
un tale onore per la sua casa”.

Ogni commento sarebbe superfluo ma, a proposito del titolo del presente acritto, sembra pertinente il giudizio di Marcel Proust: La vera terra dei Barbari non è quella che non ha mai conosciuto l’arte, ma quella che, disseminata di capolavori, non sa né apprezzarli né conservarli”.

(Il Dialogo, mensile, Oderzo marzo 2007)


L E M I L L E M I N O R A N Z E
“E io, in un paese straniero, avrò nome di schiava. In cambio dell’Asia che abbandono avrò la stanza nuziale della morte: l’Europa”. (Euripide, Ecuba)
La carta geografica d’Europa sembra un mosaico, nel quale molte tessere siano state spostate determinando chiazze variopinte circondate da colori dominanti: sono le identità popolari che per motivi etnici, religiosi, politici, linguistici ed altro sono conglobate in altri differenti. Si pensi, per esempio, alla composizione del Regno Unito, della penisola iberica, del Belgio, della Russia, della complessa situazione balcanica e, perché no?, dell’Italia. Si pensi quindi alle ex Repubbliche marinare e alle Città Anseatiche. In questo intreccio i contrasti sono inevitabili. Le contese possono sorgere tra legalità generale e mentalità delle singole minoranze.
E’ sempre stato cos’. Per una visione non priva di spunti didattici basta ricorrere al Mito.- Nella semplice, immaginosa e libera da pregiudizi con cui si tentano di spiegare le cose, gli usi, i costumi, le visioni del mondo e le istituzioni dell’antichità, l’Antigone di Sofocle fa testo. Tutte le tragedie greche hanno un evidente risvolto civile e politico. Da un lato le Leggi garantiscono la convivenza dei cittadini. Dall’altro la sfera di diritti intimi e privati afferma la propria diversità dal potere e pretende una propria difesa. Ne consegue che, in certi frangenti, Le Leggi non si vogliano o non si possano rispettare senza andare contro i propri principi e il conflitto può risultare dunque una chiazza di colore decisiva per gli equilibri della polis diversamente effigiata.
Sofocle scrisse l’Antigone nel 441 a.C.- La scena si svolge a Tebe. Creonte è il Re della città. I suoi nipoti sono Antigone, Ismene e Polinice. La prima è una donna attraente e orgogliosa. E’ la figlia di Laomedonte e sorella di Priamo. Giunse al punto di sostenere che la propria chioma fosse più bella di quella di Era. Com’era da aspettarsi, la divinità si sdegnò e la punì. I capelli di Antigone furono trasformati in viscide serpi che la tormentavano con i loro morsi. Alcuni dèi provarono tuttavia pietà. La malcapitata sorella di Priamo fu dunque trasformata in una cicogna, che uccise le bisce ad una ad una. Plinio il Vecchio e Plutarco hanno sostenuto che per l’uccisione di una cicogna si applicasse in Tessaglia la stessa pena prevista per gli omicidi. Il significato mitico del volatile risultò bene consolidato fin dall’antichità. Viene tuttavia automatico accostargli un altro animale allegorico: la volpe.- Ma la volpe e la cicogna si sopportano soltanto nella favolistica. Nella realtà sarebbe diverso, cioè come nel caso delle componenti maggioritarie e minoritarie nello stesso Stato.
Un giorno Polinice partecipò ad un complotto contro Tebe e vi perse la vita. Creonte rifiutò che fosse celebrato il funerale del nipote infedele. Le due sorelle ebbero orientamenti diversi. La più giovane accettò l’ordine del re. L’altra si oppose e fece ugualmente seppellire la salma del fratello.- Antigone disse in quel frangente a Ismene: “Tu hai fatto la scelta di vivere morta tra questi vivi. Io preferisco morire da viva”.
E poi rivolta a Creonte: “Non mi interessano le Leggi, perché sono nata per amare e non per governare”.
Nella necessità di amare non può essere escluso l’amore per la propria piccola patria. L’individualità emerge nella tragedia con tutta la sua umanità e naturalità Si sviluppa un duello di idee tra le inviolabili Leggi divine e le utili Leggi civili. L’umanità si contrappone all’impersonalità rigida ed irrispettosa dei sentimenti.- Ebbene, nel caso delle Comunità incastonate in cornici statali estranee e spesso ostili, specialmente se queste ultime sono irritate per la privazione delle Colonie, può verificarsi l’antitesi che preferisce la sopravvivenza al futuro. I Governi temono tali squilibri e propongono obtorto collo una parvenza di provvisorio rispetto per le realtà che, a causa di magiche o nefaste combinazioni alchemiche storico-internazionali, si sono venute a trovare nell’ambito del loro potere. Sia gli uni che le altre convivono spesso con riserve mentali.
I Governi sottoscrivono accordi con l’intenzione, o la speranza, di non mantenerli. Intanto essi facilitano una specie di sommersione etnica intesa alla dichiarazione finale che le realtà di cui trattasi sono nel frattempo estinte.
Per ottenere tale scopo la politica induce la cecità su di sé nelle Comunità minoritarie, affinché queste non notino o non facciano notare la propria visione del mondo. Vengono quindi decaffeinati sia talenti creativi, sia gli interessi centripeti locali.. Subentrano poi il divieto di presenza nella Pubblica Amministrazione e soprattutto nella scuola mediante rimedi accuratamente paracadutati, e il declassamento della parlata autoctona. Il programma prevede insomma l’eclissi del presupposto che magister sia più di minister, per non apparire cittadini di serie B. le Comunità minoritarie sopportano la situazione di fatto con scarsa educazione coloniale nella speranza, o nella prospettiva, che un auspicato catalizzatore intervenga prima o poi a modificare la scena politico-territoriale. Nel frattempo continuano naturalmente gli sguardi in cagnesco.
L’illusione delle maggioranze di avere sempre partita vinta può avere risvolti inaspettati. E’ nuovamente interessante conoscere lo svolgimento e la conclusione del Mito.- Antigone, cioè la componente minoritaria, viene punita e imprigionata. L’eroina sfugge al proprio destino suicidandosi. A questo punto la parte maggioritaria potrebbe cantare vittoria. Invece no. Il suicidio di Antigone ha delle devastanti conseguenze: sia Emone, figlio di Creonte e innamorato di Antigone, sia Euridice, moglie del re stesso, si suicidano.- Nella tragedia i morti riscattano i morti.
Se dal Mito può essere tratto un insegnamento, non è detto che le componenti maggioritarie possano conseguire una vera vittoria sulla parte inizialmente soccombente. Il tempo, non la cronaca, avrà l’ultima parola.
(Il Piave, Conegliano, mensile, marzo 2007)

LA DIOCESI DI OPITERGIUM

Giulio Cesare avrebbe integrato il territorio di Oderzo con 300 centurie (corrispondenti agli attuali circondari di Conegliano e Vittorio Veneto) per gratitudine in seguito all’appoggio di Volteio alle sue lotte contro Pompeo.
Il racconto dello storico Lucano non cita però nessuna ricompensa territoriale e anche l’episodio di Volteio sarebbe storicamente dubbio.
L’Agro Opitergino fu comunque molto esteso e costituì la competenza territoriale della Diocesi di Ceneda, ora Vittorio Veneto, cui appartengono pertanto anche Trichiana, Mel e Lentiai.


La Diocesi di Opitergium ebbe un’esistenza travagliata. Alcune turbolenze ne consigliarono il temporaneo spostamento ad Eraclea già nel V secolo.
Dalla seconda metà del VI secolo e per un centinaio d’anni, con i vescovi Marciano (549 – 593), Floriano (+ 620), Tiziano (+ 632), Magno (+ 632) e Bennato (?) ci fu una relativa tranquillità.

I guai peggiori cominciarono nel 665. d.C.

Oderzo era controllata dai Bizantini fin dall’anno 616. L’Esarca di Ravenna Gregorio aveva invitato per un convegno conviviale i figli di Gisulfo, Duca longobardo del Friuli. I loro nomi erano Tasone e Caco. Il pretesto era quello di tagliare loro la barba. Intendiamoci: la cerimonia corrispondeva allora a una promessa di adozione in seguito alla morte del padre e non un esercizio di barbieria.

I due giovani giunsero a Oderzo, ma l’accoglienza prospettata non ci fu. Essi furono anzi uccisi. Il fatto sarebbe avvenuto nell’anno 625. Sembra lecito sospettare un complotto ordito da Bizantini e Longobardi per eliminare gli eredi al trono ducale del Friuli. Il Re Adoloaldo, figlio dei regnanti longobardi Agilulfo e Teodolinda, più tardi anch’egli morto assassinato, sarebbe stato infatti presente a Oderzo in quel tempo. A pensar male si commette peccato ma s’indovina, è stato autorevolmente sostenuto.- In ogni caso non sia mai che un Esarca non mantenga una promessa!- Gregorio tagliò veramente la barba ai due disgraziati giovani defunti.

Secondo una male intesa opinione che tollera ogni delitto ma sanziona le reazioni, non doveva succedere nulla. Invece no. I Longobardi si erano seccati per quell’imboscata e usarono la mano pesante con Oderzo. E’ il caso di ricordare che la popolazione fu certamente estranea ai fatti ma, come sempre, ne subì le conseguenze.

Nel 665, dopo la distruzione della città voluta da Grimoaldo, la Diocesi di Oderzo ebbe come centro Ceneda, allora sede del Ducato Longobardo. Il Papa Vitaliano si adeguò. Egli era infatti preoccupato in quel tempo per il possibile trasferimento in Italia della capitale bizantina sostenuto dall’Imperatore Costante, ma avversato dai Longobardi. Il Pontefice si sentiva dunque come uno che si trova tra un cane e un tronco d’albero. A quel periodo risale d’altronde anche la divisione del regno Longobardo in “Austria” (l’attuale Nord-Est) e “Neustria” (il Nord-Ovest).- Per il fatto compiuto la Diocesi di Oderzo diventò in definitiva di Ceneda e così si chiamò per ben dodici secoli.
Si pensi quanti spunti storici avrebbe avuto Oderzo per le proprie iniziative estive, anziché limitarsi alla recente autopsia psicologica di vestirsi da improbabili antichi romani!

Nell’autunno del 1866 il Veneto venne annesso all’Italia. Alcuni volonterosi nazionalisti - noiosi zii bisognosi di aggiornamento - si accorsero della scarsa italianità del toponimo “Ceneda”, il
Quale richiamava piuttosto la non peninsulare tribù gallica dei Cenomani. Non sia mai! Dall’unificazione di ceneda con Serravalle conseguì Vittorio Veneto. Con l’Impero asburgico ciò non sarebbe avvenuto. Si ricordi che anche la precedente proposta fusione di Ceneda con Treviso non fu consentita per motivi storico-culturali. Parliamoci chiaro: tale innovazione toponomastica fu il risultato della subalternità per il nuovo Re Vittorio Emanuele II. A questo punto sia concessa una malignità derivante da scarsa educazione coloniale. Se si volevano veramente rispettare la storia e le “quote rosa”, qualche località limitrofa avrebbe dovuto chiamarsi “Virginia”. Questo era infatti il nome della bellissima Contessa di Castiglione, vera protagonista dell’annessione del Veneto al neonato Regno d’Italia. Siffatta noncuranza smentisce invece il proverbio: “El tìra de pì un cavèl de fèmena che un pèr de bò”.

Come poteva andare a finire con la Diocesi di Ceneda?- Semplice. Si sarebbe chiamata Diocesi di Vittorio Veneto dal 13 maggio 1939. Il Pontefice Pio XII si adeguò. Il “quartese” non avrebbe comunque subito variazioni. E la gente? Che conta mai la gente nei regimi monarchici o in quelli repubblicani? Se qualcuno vuole proprio uscire da certe situazioni è sufficiente il passaporto. In caso contrario si dovrà perfino credere che sarà ridotto il numero delle auto ministeriali.

Si è parlato sopra di subalternità. Non si tratta di una condizione del passato. Tutt’altro.- Lo dimostra la biografia del famoso Vescovo Eugenio Beccegato presente in Internet. Il cognome del prelato figura italianizzato in “Beccegatto”. Nulla rileva l’assonanza con i felini. Egli era figlio di Giovanni Beccegato ma, essendo nato a Fossalta nel 1862, era suddito austriaco. Un restauro onomastico post mortem si imponeva perbacco. Per abituale subalternità appunto. Comprendiamo.

(IL PIAVE, Conegliano Veneto, Giugno 2007)

NEL NOME DEL PADRE, DEL FISCO E DELLO SPIRITO SANTO

“Rendete a Cesare le cose di Cesare, ma a Dio le cose di Dio (Marco, 12 – 17)

Il Vangelo è chiaro. Da tale evidenza deriva che l’uomo non debba allo stato e alla divinità più di quanto loro spetti. Ma quanto è veramente dovuto ai due ricevitori? Nel 1944 fu pubblicato sull’argomento un libro di Martin Crowe. L’autore, sebbene fosse un teologo, espresse la sua visione in modo imparziale. Quando la pressione fiscale esercitata dallo Stato supera il 33% del prodotto interno lordo, diventa arduo per i credenti destinare a Dio il dovuto. Destinare significa rivestire di destino. L’aliquota crowiana è sostenuta da numerose motivazioni socioeconomiche.

Meno giustificata appare la disinvoltura con cui lo Stato riduce, con gabelle palesi e occulte, la residua disponibilità di risorse in favore della divinità determinando in tal modo un effetto “piano inclinato”. Non si tratta soltanto di obblighi economici. Spesso l’insaziabilità della tassazione statale induce nel contribuente preoccupazioni, che lo distraggono dagli orientamenti di ordine religioso. Il cittadino diventa in tal modo l’unica vittima. Le religioni riescono infatti ad ottenere prima o poi dal potere politico qualche altra compensazione., poiché le fedi di un certo peso sono grandi potenze, mentre le altre sono piccoli stati-satellite. Rimane solo il cittadino ad indossare il pesante saio fiscale. Se la sola I.V.A. è già al 20%, con le altre imposte e maggiorazioni si arriva chissà dove. La soglia fisiologica del 33% rimane un paradosso. Spesso oltre al danno ci sono anche le beffe, cioè le mille ipocrisie per spendere male i denari incassati dallo Stato con le imposte. Se, per esempio, viene istituita una folta e costosa commissione per studiare la proposta di dare una dentiera a ciascun anziano che ne abbia bisogno, l’eventualità potrebbe anche sembrare accettabile. Ma se dopo un certo numero di anni non si è concluso nulla, il Governo proponente è nel frattempo cambiato e i programmi non prevedono più la dentiera, allora i costi per la commissione non sarebbero più giustificati. Se, naturalmente sempre per esempio, si spendesse denaro pubblico per l’equilibrio idrico di un lago, la motivazione sembrerebbe valida. Ma se poi, per caso e dopo lungo tempo, si scopre che non c’era alcun lago cui provvedere (Corriere della Sera del 29 aprile 2007), il contribuente potrebbe anche esprimere un invito con complemento di moto a luogo o sperare in un improbabile intervento della patrona dei sudditi: Santa Pazienza! I più sinceri potrebbero auspicare inoltre una tanto incostituzionale quanto salutare punizione corporale per i responsabili (anche l’inferno è incostituzionale: non prevede la rieducazione del reo!). Il finanziamento degli eccessi fiscali in favore di Cesare, e conseguentemente a danno di Dio, non è tuttavia uniforme. Sembra piuttosto affidato a una mappa scritta nelle stelle. Come è noto, la costellazione del Grande Carro è composta da sette stelle, che gli antichi paragonarono ad altrettanti buoi al lavoro e che i Latini denominarono “Septem triones”, cioè “Settentrione”. Poiché si parla di lavoro, il denaro povverebbe dall’antipodo del luogo in cui sorgeva l’antica Sibari, i cui abitanti ai tempi della Magna Grecia non solo non produssero mai nulla, ma, come la storia tramanda, si infastidivano perfino a sentir parlare di lavoro. Se la sottrazione di cose da rendersi a Dio è contraria all’insegnamento evangelico, i credenti dovrebbero per coerenza almeno rivedere il proprio orientamento nei confronti del potere che ha operato tale squilibrio..- Nell’Atene di Socrate “Parrhesia” significava il diritto-dovere di esprimere la propria opinione. Questo valore diventa abbastanza raro in pubblico, ma nella cabina elettorale funziona ancora.

Il Piave, Conegliano Veneto, agosto 2007)

NAZIONALITA’ TRA POLITICA E IDEOLOGIA

Un esame del DNA fornirebbe informazioni che l’interessato non si sognerebbe nemmeno. Diventerebbero note caratteristiche insospettate. Precedenti convinzioni o supposizioni troverebbero autorevoli smentite. Ciò che certamente non comparirebbe sarebbe la nazionalità. Si tratta forse di un carattere accessorio di nessuna rilevanza per un’indagine che si ritiene tra le più progredite e affidabili? Può essere una variante sfuggevole al momento della prova e quindi per nulla determinante o significante nelle dimensioni umane? La nazionalità è forse suscitata da circostanze socio-storiche, vale a dire da un senso di appartenenza artificialmente indotto, corrispondente ad uno stato d’animo provvisorio allargatosi per osmosi, oppure imposto a un determinato tessuto popolare con tendenza alla suggestionabilità e alla subalternità?
Guardandosi un po’ intorno si potrebbe argomentare parecchio sulla infondatezza e ingiustificabilità di certe asserite nazionalità, tanto ostentate quanto inconsistenti. Si nota anche il fenomeno opposto. In regioni che avrebbero motivo di professare la loro vera nazionalità per ragioni storico-culturali, l’orgoglio nazionale risulta alquanto sopito per lasciare spazio alla componente locale. Quei cittadini sono quindi consci della vacuità nazionale, ma lieti che altrove la presunzione altrui arrechi loro dei vantaggi. In tutto è sorretto da un’equivoca e indefinita idea di patria confezionata per le intelligenze più suggestionabili. Suvvia, non facciamo i finti tonti! Nel Libro sta scritto che Dio creò l’uomo dalla terra (Genesi, 2-7). Esatto. Ma solo da quella terra dove l’uomo nacque e non da un’altra, non è vero? Il quadro mondiale offre numerosi esempi di infondatezza circa le basi della nazionalità.
Nei territori già egemonizzati dall’Impero Britannico non pochi popoli, naturalmente agli antipodi della cultura europea, giuravano in tutta coscienza sul loro sentimento nazionale inglese.
Contemporaneamente, spesso per motivi religiosi e di mentalità universalistica, si constatano neutralità e svincoli nell’appartenenza al principio di nazionalità. In Africa orientale subentrò nelle popolazioni di colore la convinzione di appartenere alle nazioni francese e italiana dopo la conquista coloniale. Lo stesso si può dire per regioni occupate dall’Olanda, dal Belgio, dal Portogallo, che erano completamente estranee all’ambiente europeo, ma dominati da Paesi più o meno assistiti da Dio nelle loro vittoriose imprese, come è stato ripetutamente dichiarato. I dubbi sono legittimi in ogni senso. Non esiste soltanto il colonialismo politico. C’è anche il colonialismo ideologico e i suoi condizionamenti nel caso di specie non sono diversi. Gli aderenti a partiti, sostenuti e controllati da taluni regimi, si sentono visceralmente parte di quelle realtà statali nonostante le evidenti differenze e distanze. Nel XX secolo ciò accadde ripetute volte.
I cittadini divisi da programmi politico-militari assunsero con relativa facilità la nazionalità dei due artificiali tronconi statali venutisi a formare. Cessata poi l’influenza del programma divisorio, il territorio si riunificò e le popolazioni riassunsero la nazionalità in precedenza dimessa per aderire alle imposte influenze. Un esempio è fornito dalla recente storia tedesca.
Dopo la seconda guerra mondiale la Germania venne divisa in Repubblica Federale e in repubblica Democratica. Furono scritte innumerevoli pagine per motivare l’esistenza delle due contrapposte nazionalità. Cambiata la scena politica,, tutto è tornato come prima. L’unica evidenza rimasta è quella dell’elasticità del concetto di nazionalità. Sembra quindi razionale che l’esame del DNA non evidenzi alcuna nazionalità.

(Il Piave, Conegliano Veneto, settembre 2007)

L’ O B L I O D I UN’ E P O C A

Nell’ultimo decennio del secolo scorso terminò la cosiddetta guerra fredda. Quasi tutte le strutture tenute precedentemente in vita di qua del Muro di Berlino in funzione di supporto psicologico nella contrapposizione tra i due blocchi, furono gradualmente smantellate. Toccò per prima alla letteratura tedesca, che fino allora era stata tenuta nella massima considerazione.

Nessuno si è accorto che le opere di Karl Marx, per tutto il XX secolo proposte, studiate, prese a quasi unico modello di cultura e soprattutto vendute, sono assenti dalle librerie?- Nessuno ha fatto caso che i drammi di Bertholt Brecht, per mezzo secolo celebratissimi e onnipresenti nei teatri, non vengono più rappresentati?- La lista potrebbe continuare senza che si adottino contromisure e nella totale assenza di coscienza.
È arrivato un contrordine. La cultura tedesca deve essere decaffeinata. La letteratura soprattutto!- Si sa che per letteratura non s’intende l’arte dello scrivere, bensì un modo di essere. Altrettanto chiaro è che fare letteratura è ben diverso da produrre spilli per infilzare le mosche, come sostenne Louis Ferdinand Céline.
Le altre culture finora indenni non si facciano illusioni: l’unico effetto della loro indifferenza sarà quello di essere eliminate più tardi.

Uno degli autori rimossi dalla pulizia letteraria per fare spazio ad altre correnti di pensiero, è Joseph Roth. Si, proprio il poeta della Cripta dei Cappuccini, della Leggenda del Santo Bevitore e della Marcia di Radetzky, che ebbero anche importanti riscontri cinematografici.

Era noto che Roth , lo scrittore del mito asburgico convinto che fosse preferibile sentirsi suddito di una realtà in cui l’Imperatore si credeva lo Stato, piuttosto che cittadino di uno Stato che si crede il Re, era spesso ubriaco.- Otto d’Asburgo, figlio dell’ultimo Imperatore della Casa d’Austria ora dichiarato Beato, lo convocò per raccomandargli di smettere di bere. Quel vizio avrebbe potuto spegnere la sua arte e privare l’umanità di un grande ingegno letterario.

La villa nella quale risiede dal 1954 Otto d’Asburgo era stata fatta costruire a Pöcking da un cantante d’opera australiano nel 1870. Per questo motivo l’edificio si chiamò in un primo tempo Villa Australia. Ora il nome è dimezzato e si chiama “Villa Austria”.
L’incontro del monarca senza corona e senza Impero con il grande scrittore non avvenne tuttavia a Villa Austria, bensì a Parigi

Il medico curante di Roth aveva fatto sapere a Otto d’Asburgo che soltanto un suo ordine avrebbe potuto salvare l’alcolizzato dall’ormai avanzata devastazione dell’etilismo.- Joseph Roth si presentò all’udienza. Il colloquio fu cordiale, ma perentorio. Lo scrittore fu fedele a se stesso e rispose:”Si, Maestà”.

L’organismo del poeta non resse alla crisi da astinenza e sopraggiunse la morte.- “Era troppo tardi”, esclamò l’erede dell’Impero asburgico. Quasi sempre è troppo tardi nella vita, poiché il tempo trascorso dai viventi sulla terra è certamente poca cosa nei confronti dell’eternità.


(Il Piave, ottobre 2007)

IL GAZZETTINO Domenica 6 gennaio 2008 Cultura e spettacoli pag. 14


DA CAPORETTO ALL’ARMISTIZIO: COME GLI AUSTRIACI CI AIUTARONO A VINCERE LA GUERRA

Da Caporetto all’Armistizio, novant’anni dopo. Fra le iniziative in programma quest’anno, è in arrivo il volume dello storico e germanista trevigiano Nerio De Carlo, “Dialettica dell’Armistizio 1918” (edizioni Comitato Imprenditori Veneti Piave 2000), dedicato ad uno dei momenti della storia del nostro Paese in cui esso fu più vicino al baratro e a compromettere il proprio futuro. Nell’autunno del 1917 non aleggiava infatti solo lo spettro della sconfitta militare, ma anche quello di una rivoluzione in tutto simile a quella russa, genesi del regime comunista durato 70 anni. Paradossalmente chi salvò l’Italia fu il suo nemico, ovvero l’Imperatore Carlo I d’Asburgo, che prima bloccò l’arrivo dei rivoluzionari e poi, inaspettatamente e segretamente, ordinò di sospendere i combattimenti sul fronte del Grappa. Mentre i tedeschi sostennero con decisione la Rivoluzione d’Ottobre in Russia.
“Lo Stato Maggiore tedesco – spiega lo studioso trevigiano – aveva escogitato un piano geniale: rimpatriare nei Paesi avversari numerosi sobillatori e rivoluzionari in esilio, che avrebbero agito da scintilla per estese rivolte alle spalle degli eserciti combattenti. Ne sarebbe conseguita la caduta dei fronti sia per mancanza di rifornimenti, sia per le idee rivoluzionarie che avrebbero determinato diserzioni e ammutinamenti. Il primo convoglio giunse in Russia nell’autunno del 1917, il 7 novembre scoppiò la rivoluzione (detta d’ottobre a causa del diverso calendario), e come previsto, il fronte russo cedette subito e appena due mesi dopo ci fu l’armistizio di Brest-Litovsk”.

E per quanto riguarda la situazione italiana?

“I treni in partenza da Zurigo con il loro carico di agitatori, erano due. Il primo, come detto, raggiunse la Russia, il secondo invece era diretto in Italia. Le conseguenze possono essere facilmente immaginabili, considerato che c’erano già state violente agitazioni specialmente in Romagna, Marche e Piemonte , con 60 morti e 200 feriti. Ma per raggiungere l’Italia il treno doveva attraversare il territorio controllato dalle truppe austro-ungariche, poiché dalla Francia e dalla neutrale Svizzera logicamente non si passava. L’Imperatore Carlo I però impedì il transito, e così la rivoluzione non ebbe luogo. A differenza di quanto accaduto in Russia, il fronte del Piave tenne seppur a fatica, e nonostante gli errori dei comandanti, come si evince dall’ultimo libro di Lorenzo del Boca”.

Perché lo fece? Visti gli eventi in Russia e la disfatta di Caporetto, quel treno avrebbe dato il colpo di grazia all’Italia…

C’era Papa Benedetto XV che aveva un grande ascendente sull’Imperatore, e la Santa Sede aveva l’impellente necessità di raggiungere un Concordato con il Regno d’Italia. Era chiaro che una rivoluzione nella penisola avrebbe comportato sia la fine della monarchia, sia la costituzione di una repubblica marxista. In tale prospettiva risultava naturalmente impensabile qualsiasi Concordato La rivoluzione avrebbe danneggiato la Chiesa, da sempre sostenuta dagli Asburgo. Così si spiega l’orientamento di Carlo I”.

Veniamo a dicembre 1917. I combattimenti sul fronte del Grappa e del Tomba vedono, come ha detto Lei, una sostanziale tenuta degli alleati agli attacchi degli austro-ungarici. Poi ad un certo punto questi vengono sospesi.

“A dire il vero gli austro-ungarici non solo attaccavano, ma avevano successo. Il 22 novembre 1917 avevano infatti conquistato il Monte Tomba e c’erano grandi combattimenti sul Grappa. Poi l’Imperatore Carlo ordinò la sospensione dell’offensiva, come informa Martin Gilbert nella sua “Storia della Grande Guerra”. Si parlò di epidemie, che nella zona di Asiago avrebbero causato la perdita di 7000 combattenti e momentanee difficoltà per altre avanzate. In realtà per un esercito di quella portata, che aveva conquistato ben 12.000 chilometri quadrati di territorio, non sarebbe stato un problema rimpiazzare le lacune provocate. L’orientamento dell’Imperatore sarebbe piuttosto da interpretare quale rinuncia a conquiste territoriali. Egli aveva in pratica deciso di disarmare la guerra”.

Così per la seconda volta il “nemico” Carlo aiuta di fatto l’Italia…

“L’Imperatore voleva far finire quanto prima la guerra. Ad ogni costo. Egli non aveva voluto, ma solo ereditato quella guerra. Purtroppo non si parla mai dei suoi tentativi di far finire il conflitto. Eppure basta leggere gli atti del processo di beatificazione – perché Carlo I è stato proclamato Beato – per capire come egli la pensasse sulle ostilità e sulle loro conseguenze”.

Davide Nordio




MILANO AI TEMPI DEL PETRARCA
La storia della Chiesa informa che tra il 217 d.C. e il 1449 ci furono ben 41 casi, in cui l’autorità pontificia fu esercitata contemporaneamente da più persone.
Durante il soggiorno milanese di Francesco Petrarca (1353 – 1368) ciò non si verificò. Ci furono invece a Milano due Arcivescovi nello stesso periodo: Guglielmo II Posterla e Giovanni Visconti.
Il primo discendeva da una casata d’origine longobarda ostile ai Visconti. Ne parla Cesare Cantù nel romanzo “Margherita Pusterla”. Il secondo era il signore di Milano L’Arcivescovo Guglielmo esercitava l’autorità religiosa. L’Arcivescovo Giovanni il potere politico. Quest’ultimo voleva ampliare i territori milanesi, integrandoli con Bologna. La città apparteneva però al Regno della Chiesa. Sorsero contese con la S. Sede e si giunse alla scomunica. Furono necessari 100.000 fiorini, pagabili a rate, per annullare l’interdetto.
Giovanni Visconti celebrò una sola Messa. Essendogli caduta l’ostia consacrata, egli la sostituì con un’altra, sostenendo che l’una valesse l’altra.
Nel 1363 il Petrarca scrisse che Milano era una “torbida città”. L’espressione si trova nei “Seniles”, Ep. Libro III, n. 1.- Il sudiciume era certamente attribuibile al fatto che circolassero in città migliaia di equini per i trasporti di ogni genere, con tutte le conseguenze del caso. In realtà il poeta si riferiva al turbamento indotto dalle milizie mercenarie. Fu necessario l’intervento del Papa Urbano V per ottenerne il ritiro nel 1466. Chi non lasciava la città, veniva scomunicato.
La vita economica milanese era mossa da tre monete: il grosso d’argento, il fiorino d’oro e il sesimo d’argento.- L’attività produttiva era rappresentata principalmente dagli “Armorari”, o armaioli, e dagli “Orefici”. Le loro produzioni erano ambite e procuravano “valuta pregiata”.
Non mancavano le turbolenze a Milano. Gian Galeazzo Visconti aveva, per esempio, catturato lo zio Bernabò, rinchiudendolo nel Castello di Trezzo d’Adda. Anche a Milano non si era mai cauti abbastanza nella scelta dei propri contemporanei.
Per il popolo le cose erano più sbrigative. I sospettati di eresia finivano sul rogo. Per quanta poca esperienza ognuno di noi abbia in fatto di roghi pubblici, si riuscirà a comprendere che si trattava di spettacoli orribili che sarebbe antistorico dimenticare. Quelle vampate volevano essere un anticipo delle ben più ustionanti fiamme, che i condannati avrebbero sperimentato all’Inferno fino al 28 luglio 1999, quando papa Giovanni Paolo II dichiarò che l’Inferno esiste, ma senza fiamme eterne, come si è appreso dal TG delle ore 20.
Per la precisione il supplizio dei popolani aveva luogo vicino a Piazza Vetra. I nobili e i borghesi venivano bruciati invece in Piazza Mercanti, ma non è noto quanta consolazione questa differenza abbia recato.
Esistevano a Milano quelli che ora si chiamerebbero interventi di “valorizzazione urbanistica”. Nel 1349 l’Arcivescovo Giovanni fece erigere la Certosa di Garegnano Marcido, consacrata nel 1367. Il Petrarca vi soggiornò presumibilmente nei mesi invernali. Durante l’estate egli si sarebbe trasferito alla Cascina Linterno, che allora costituiva una località di campagna. Qui il pota avrebbe composto l’opera “De remedis utriasquae fortunae”. Il toponimo “Marcido” derivava dalle circostanti marcite che appartenevano alla Certosa. Il monastero fu definito dal Petrarca “opera nova sed nobilis”, cioè “nobile per quanto nuova”. La nuova istituzione corrispose allora ad una qualificazione della zona, non meno di quanto significherebbe oggi in un quartiere l’apertura di un nuovo centro commerciale.
A titolo di esempio si può citare anche l’intenzione innovativa, rappresentata dalla collocazione sul campanile sopra la chiesa di S. Gottardo al Palazzo reale, di un orologio in grado di battere le ore. L’opera fu realizzata da Azzone Visconti poco prima che Petrarca arrivasse a Milano. La toponomastica ne fa ancora oggi menzione.
Le cascine erano centri di produzione e di socialità. Per certi versi la loro quiete e laboriosità richiamavano quelle del virgiliano “Titiro” nella prima Ecloga:”Deus nobis haec otia fecit, nacque erit ille mihi sempre deus”, cioè “Un dio mi ha concesso questa quiete, per questo egli sarà sempre una divinità per me”. Tale gratitudine deriva forse dalla sensibilità di Menandro, che afferma:”Deus est homini iuvare hominum”, vale a dire “il divino significa per l’uomo soccorrere l’uomo”.
Sia infine concessa una proiezione dovuta alla mia scarsa educazione coloniale.
L’interesse per la Cascina Linterno emerse parecchi anni fa, quando Milano aveva maggiori disponibilità economiche. Anche il decaffeinamento del Petrarca da parte di Francesco De Sanctis per non essere stato utile al Risorgimento, non sembrava aver avuto effetti. Si propose allora il recupero della costruzione tanto rilevante per la città,seppur tra qualche resistenza.
È stato però subito constatato che talune dimensioni burocratiche erano prive di interesse per la storia e la cultura milanesi. Absit iniuria verbis, ma qualche categoria sarebbe sembrata piuttosto più incline a salire sul cavallo, o sul cammello, del vincitore. Per estrazione ed istruzione, qualche ambiente sarebbe stato forse più sensibile, se si fosse trattato di un recupero che richiamasse la romanità, non il Medio Evo. L’iniziativa di recupero sarebbe allora risultata almeno più facile. Sarebbe bastato partire astutamente dal presupposto che le migrazioni dei popoli, solitamente note come “invasioni barbariche2, hanno costruito ex novo molto poco. Si avrebbe piuttosto preferito riassettare l’esistente, adattandolo alle nuove esigenze. Un accenno del genere sarebbe stato fatto dal Vicesindaco di Milano qualche mese fa. Bastava dunque definire Cascina Linterno quale vestigia inizialmente romana e non medievale! Ne sarebbe conseguita una più favorevole atmosfera e non l’attuale attesa che qualcosa crolli, per decretarne la demolizione per ordine pubblico.
Termino con una citazione da Marcel Proust:
“La vera terra dei Barbari non è quella che non ha mai conosciuto l’arte, ma quella che, disseminata di capolavori, non sa né apprezzarli, né conservarli”.

(Petrarca a Milano, La vita, I luoghi, Le opere.- - Fondazione “Carlo Perini” – Associazione “Amici Cascina Linterno” – Cooperativa “G. Donati” – Certosa di Garegnano, con il patrocinio di: Provincia di Milano, Comune di Milano Settore Cultura, Fondazione Cariplo. - Dicembre 2007.-)

B A R A B B A

Un destino, un enigma, un equivoco

Se la Chiesa recuperasse la figura di Barabba, recupererebbe gran parte di noi. E’ infatti consuetudine trovarsi nel dubbio, nell’equivoco, nel malinteso. Spesso una parte di noi si ribella a certa attualità mentre un’altra parte, quella razionale, prende atto sia dei nostri limiti, sia di quelli imposto dalle circostanze. Anche a ciascuno di noi tocca infine di trovarsi tra un cane e un tronco d’albero, per così dire.

Barabba compare soltanto nei Vangeli. Matteo (27,16) informa che “a quel tempo era in prigione un certo Barabba, un carcerato famoso”.- Giovanni (18,19) dice che “questo Barabba era un bandito”.

Il nome “Barabba” dovette essere molto diffuso e significava “Figlio del Padre” e, per estensione “Figlio di Dio”. Anche Gesù Cristo usò questo appellativo.-

Certi patronimici possono tuttavia generare assurdità. Si pensi, per esempio, a qualcuno che si chiami Strada. Sarebbe poco gentile denominare sua moglie “Donna di Strada”. Si consideri, sempre per esempio, un giovane di famiglia agiata per il quale il lavoro non sia una priorità. Ai tempi in cui la parlata milanese non era ancora decaffeinata, lo si sarebbe indicato come un “Barabba”, un figlio di papà appunto.- Si pensi infine ai nomi di politici attuali. C’è un longevo e arguto senatore Andreotti e c’era un ministro Andreatta. C’erano un presidente americano Reagan e un ministro Regan. Fra duemila anni qualche problema onomastico potrebbe presentarsi quando si parla del nostro tempo. Allora non sarà necessario contraddire: basterà approfondire.

Nel nostro caso è probabile che entrambi gli arrestati si chiamassero Gesù Barabba, come antichi manoscritti siriaci alludono. Gesù significa “Egli viene a salvarvi”, come aveva profetizzato Isaia (35,4). Non vi sono 4 Marie, 2 Giuda, 2 Simone…nei Vangeli? I nomi aramaici sono pochi e ripetitivi.

Lo stesso vale per la connotazione criminale del prigioniero famoso. Per quanto poco ognuno di voi sia esperto di processi politici, sa bene che gli oppositori di molti regimi furono considerati “briganti”. Il termine fu derivati da “Bregenz” (Brigantium in latino), città sul lago di Costanza restia a sottomettersi a Roma e pertanto distrutta in nome della libertà e del diritto.-

Si vuole che Barabba avesse partecipato a una rivolta durante la quale, in concorso con altri, sarebbe stato ucciso un uomo, un soldato romano forse.

L’episodio è accennato da Luca (23,19). Il testo greco di Giovanni descrive il prigioniero “lϊstϊs”, che non significa assassino, ma ladro. Di certo egli non si distingueva per buona educazione coloniale.

Barabba diventa un simbolo quando viene preferito al Cristo. Giovanni (18, 39-40) fa dire a Ponzio Pilato:”Voi però avete l’abitudine che a Pasqua si metta in libertà un condannato. Volete che io vi liberi il Re dei Giudei? Ma quelli si misero di nuovo a gridare: No, non lui, vogliamo Barabba!”-

La trattativa si era svolta in greco e i presenti sarebbero stati meno di 300, calcolando sia gli spazi disponibili, sia i presenti con la misura di scarpe 45.- Pochissimi comprendevano il greco.

La consuetudine accennata da Pilato non era romana, ma giudea. Appare insolito che un Prefetto come Pilato, noto per la violenta colonizzazione della regione, onorasse una ricorrenza non capitolina.- Marco informa però che era stata esercitata pressione per la liberazione di Barabba (15,11) e che la scelta fosse stata già decisa “per non scontentare la folla” (15,15). Non sarebbe stata l’unica volta che il potere subisce il peso delle masse, ma un Prefetto romano difficilmente si sarebbe piegato al volere della gente nelle province. Si noti che la parziale amnistia pasquale non ricorre nel Vangelo di Luca.

Barabba è libero, ma scompare dalla narrazione. Durante la sua vita residua egli si sarà certamente chiesto perché mai Pilato si sia risolto in favore di un ribelle piuttosto che per un mite profeta.- Si può pensare che il Prefetto avesse intuito che l’insegnamento di Cristo fosse più rivoluzionario della lotta armata?-

Proprio così. Le legioni romane avrebbero certamente vinto contro le sommosse locali. La predicazione evangelica si sarebbe dimostrata invece un pericolo per il potere imperiale.

Pilato dovrebbe essere studiato più profondamente. Egli fu Prefetto della Giudea dal 26 al 36 della nostra era e dovette essere stato uomo di scarse virtù e di nessuno scrupolo secondo la tradizione e Flavio Giuseppe. Se non esagerata, la menzione del suo nome nel Credo è almeno immeritata.-

Le date darebbero adito ad alcune congetture. Se Gesù Cristo fosse nato 9 anni prima di quella cruna senz’ago creata dal monaco Dionigi il Piccolo nel 523 per fissare la data del Natale nell’anno 753 dopo la fondazione di Roma, il Messia avrebbe avuto “circa trent’anni” verso l’anno 22 prima della cosiddetta era cristiana.

Come è noto, quella convenzione non ha fondamento. I dati del famoso censimento universale erano stati infatti resi noti nel 745 e non nel 753 (spiegando che la popolazione dell’Impero risultava di 4.233.000 individui). Come se ciò non bastasse, era stato inoltre omesso l’anno “zero”, svista che fu poi corretta nel secolo XIII.- Se la vita pubblica di Gesù durò tre anni, come citato nei Vangeli, si giungerebbe al 25 e non al 26. Pilato non era stato ancora nominato!

Il primo compito del Prefetto era l’imposizione dell’autorità imperiale romana. Circolava una voce che ci fosse un Re dei Giudei e che questi fosse anche figlio di Dio. In entrambi i casi erano necessarie rispettivamente l’approvazione imperiale e la pronuncia del Senato. A quest’ultimo competevano le attribuzioni della divinità. In caso contrario ricorrevano gli estremi di gravi reati. Il fatto non deve stupire. Ancora nell’anno 325, ai tempi del Concilio di Nicea voluto da Costantino, era necessaria l’iniziativa imperiale per il riconoscimento della divinità dello stesso Cristo. La relativa dichiarazione fu ottenuta 218 voti favorevoli e 2 contrari!

Pilato si informa:”Sei tu il Re dei Giudei? (Giovanni, 18,33)”. La risposta, già passibile della pena di morte secondo la Lex Giuliana, è integrata dalla precisazione che, in ogni caso, il regno non fa parte di questo mondo (Giovanni, 18,36).

Meno male. La preoccupazione del Prefetto si attenua, ma è normale accusare un certo scompiglio. Urge “lavarsi le mani” sia in senso metaforico che in senso reale, se si ipotizza che l’alto funzionario avesse una malattia cutanea. È infatti noto che i Romani, quando non si recavano alle terme, non si lavavano ma si limitavano ad ungersi il corpo con olio.

In questi giorni primaverili fervono i preparativi per le sacre rappresentazioni pasquali in una delle poche località, ove questa tradizione sopravvive ancora.

Tra gli attori c’è anche colui che regge senza parlare il catino affinché Pilato si lavi le mani. Un ruolo marginale all’apparenza, ma non è detto che sia proprio così. L’altro giorno il personaggio mi disse:

“Sono parecchi anni che recito sempre questa parte e, si creda, non è una cosa facile”.

In questo contesto di omonimie, di scontri con le autorità romana, sinedriale ed erodiana, di agguati alle forze di occupazione e di incipiente apostolato cristiano, c’è spazio per una ulteriore ipotesi.

I Vangeli non presentano praticamente alla folla i due Gesù Barabba, tra i quali deve cadere la scelta della liberazione dal carcere e la condanna alla croce.- E se si fosse trattao di un unico personaggio fisico? In altre parole Pilato avrebbe cercato di sapere se il “Messia armato” fosse più gradito alla gente che il “Messia non violento”?- Da una risposta poteva giungere una interessante indicazione per il futuro comportamento politico del Prefetto per meglio sapersi regolare.

La carriera di Pilato non dovette comunque essere stata particolarmente brillante. Sei anni dopo la cessazione del suo mandato in Galilea il personaggio avrebbe seguito le legioni di Druso prima in Gallia e poi in Germania, dove sarebbe morto suicida.

La chiesa etiope lo avrebbe dichiarato Santo per il suo desiderio di conoscere la verità, sorvolando sul fatto che la verità è solo probabile e mai sicura. Ben poco è certo e il resto è solamente più o meno improbabile.

Una serie di congetture numerologiche ruota intorno al significato del termine “Barabba”



אבא בד

“bar = figlio” ”abbà = padre”

ב ד א ב א

1 2 1 200 2 = 206

Le lettere che compongono il nome in aramaico sono:
BET = 2
RESH = 200
ALEF = 1
BET = 2
ALEF = 1
------
206 = il numero delle ossa dello scheletro umano.

Il nome “Barabba” ha anche un significato astrologico. L’inizio del ciclo processioanle del segno dell’Ariete coincide con l’Avvento del Figlio di Dio, del “Bar abba”, dell’agnello di Dio.- I Re Magi lo sapevano e portarono doni invece che pretendere compensi e risarcimenti come è costume di altre dinastie.

In greco, lingua usata per redigere i Vangeli, Ariete significa κριος .

K R I O S

20 100 10 70 6

In greco, come in aramaico, le lettere dell’alfabeto hanno valori numerici e nel nostro caso la somma fa sempre 206.

La verità nell’etimo greco significa “la cosa che non può stare nascosta”. Inoltre essa ha, per definizione, le gambe lunghe e la lingua pure. Con tutta modestia si è cercato in questo incontro di dare un contributo per la ricerca della verità, che non è un medicinale da assumere per via esclusiva.

(Conferenza dell'11 marzo 2008.- Milano, Foro Bonaparte n. 26).


90° ANNIVERSARIO DELLA FINE DELLA GRANDE GUERRA

Il Comune di Vittorio Veneto ha recentemente pubblicato in lingua italiana il libro di Camillo De Carlo “The fling spy” (La spia volante). L’edizione intende onorare la memoria dell’autore, che tanto ha dato alla città.

Nella pur esauriente presentazione del personaggio, c’è tuttavia una imprecisione certamente involontaria. La croce al merito di II° grado dell’Ordine dell’Aquila Tedesca è indicata con l’integrazione “con fronde di quercia”. L’attribuzione esatta è invece “con spade”.
La suddetta decorazione fu assegnata a 148 combattenti italiani distintisi in combattimento in sostituzione della “croce di ferro”, che non risultava disponibile. Un’informativa ministeriale germanica (prot. B.2678 IX 310) tratta in copia il 27 giugno 1941, chiarisce la questione. La particolarità delle “fronde di quercia” era riservata esclusivamente alla croce di ferro e non anche all’Ordine dell’Aquila Tedesca, come conferma il relativo regolamento. La precisazione “Mit Schwertern” si traduce quindi “Con spade”.- Lo scostamento è stato segnalato a chi di dovere.

Quanto sopra per la precisione dei fatti.


IL CONTRIBUTO DELLA CASATA PORCIA E BRUGNERA AGLI ALTI RANGHI DELLA CHIESA

La meteora del Cardinale Pileo II da Prata si era spenta maggio del 1400. Il prelato era noto come “il Cardinale dei tre cappelli”, poiché era riuscito a giurare rocambolescamente fedeltà ai Papi Urbano VI, Clemente VII e Benedetto XIII (da non confondersi con l’Antipapa quattrocentesco). Ciò dimostra che la nobiltà dello spirito, rispetto a quella tradizionale, ha il vantaggio che uno se la può attribuire da solo, come sostenne Robert Musil.- I residui componenti della casata Da Prata sarebbero presto andati in esilio. La famiglia non si sarebbe tuttavia estinta, ma continuerebbe in Ungheria con il nome di Pallfy.

La famiglia Porcia-Brugnera si accingeva intanto a scalare la gerarchia ecclesiastica. L’ambizione non sembri eccessiva. Le origini della “Gens Porcia” risalirebbero nientemeno che al 260 a.C., secondo una prezzolata e inattendibile genealogia redatta nel 1716 da Adam Matteo de Sukovitz. In realtà è più probabile una collocazione nel 223 d.C., quando si cominciarono ad edificare i castelli di Porcia, Prata e Brugnera.

Il secondogenito di Fulvio di Porcia, Leandro, era nato nel 1673. Egli era diventato monaco benedettino, ma l’abbazia di Montecassino dovette sembrargli troppo stretta. Divenne in seguito consultore del S. Ufficio, esaminatore dei Vescovi, teologo di Benedetto XIII e del predecessore Innocenzo XIII. Nel 1714 gli venne concessa l’investitura dell’abbazia di Rosazzo e dal 1728 al 1730 fu anche Vescovo di Bergamo.
Nel 1740 si tenne a Roma il Conclave nel quale il 17 agosto fu eletto Papa Benedetto XIV. Il Cardinale Leandro vi partecipò, ma non poté vederne la conclusione. Egli infatti morì il 20 giugno, appena 40 giorni prima della fine del Conclave dal quale sarebbe potuto uscire Pontefice e Re.
La suddetta possibilità non è una congettura o una semplice supposizione. Anche se così fosse, la circostanza sarebbe fondata. L’opinione è infatti una matematica alternativa, ma pur sempre matematica. Nel libro “Viaggio in Italia” di Charles de Brosses (ed. Parenti) si legge infatti a pagina 523 che durante il Conclave era apparso un libello denigratorio anonimo “pieno di ingiurie” contro Leandro. Un invidioso modo come un altro per rovinare la reputazione degli avversari, di cui non sarebbero stati immuni nemmeno gli ambienti frequentati dallo Spirito Santo. I tempi non furono mai migliori, se si pensa a Giobbe. Anche il clima non dovette essere gran che, se si pensa a Noè.- Da sempre l’umanità si è chiesta a che serva la malignità, se non la si pubblica.- Dopo tre giorni il Cardinale, che non aveva più sogni da perdere, morì di crepacuore pur nella convinzione di non essere nel torto!- Si può aggiungere, come scrisse Ezra Pound, che se un uomo non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee, o queste non valgono nulla, oppure non vale niente lui stesso.
A pagina 511 dell’opera citata si legge:”I Cardinali benedettini, cioè quelli nominati da Benedetto XIII, sono molto numerosi: possono essere considerati come neutrali. Non hanno un capo: fra di loro vi sono buoni elementi, per esempio Porzia”.- A pagina 522 sta scritto:”Finalmente entra in ballo Porzia, ed è su questo nome, credo, che la partita si ingaggia sul serio. Porzia è l’elemento adatto: la sua età è nella quale si diventa papi: fa parte degli indifferenti, perché è di quelli nominati da Benedetto XIII. Ha nobiltà, valore, grande reputazione di capacità. È severo ed ha tutte le caratteristiche necessarie per ristabilire il buon ordine in uno Stato che ne ha tanto bisogno; saprà regnare e sarà, in piccolo, un Sisto V; perciò il popolino lo paventa assai, ma si confida che, nonostante i desideri della plebe, , l’intrigo tessuto in suo favore giungerà ad effetto. In verità egli non è né romano, né suddito dello Stato della Chiesa, ma dei veneziani. È stato monaco dell’Ordine di San Benedetto; siccome dei monaci non si fa gran conto, ciò potrebbe recargli pregiudizio, ma non tanto quanto se provenisse da un ordine mendicante o se fosse stato gesuita. Fra questi ultimi non vedrete mai uscire un papa, per il timore che poi essi non si precipitino a riempire il Sacro Collegio di gente della loro razza. Per esempio ho sentito sempre parlar bene di Tolomei, ma non l’ho mai udito nominare tra gli elementi papabili…- Mi fanno sapere che Porzia è sostenuto dagli zekanti (sic) e dalla fazione Corsini, ed accanitamente osteggiato da Annibale Albani, che lo teme in modo particolare”.

(Il Piave, mensile, Conegliano Veneto, settembre 2008)

L O Z E C C H I N O D I P O R C I A

Il denaro è una forza,
ma vale meno dell’intelligenza”
- Qoèlet (Ecclesiaste, 7,12) -


Annibale Alfonso Emanuele fu il V° Principe di Porcia e Brugnera. Era nato nel 1679 e in gioventù si era distinto per l’ impegno negli studi. Nel 1704 diventò ambasciatore di Vienna presso Pietro il Grande a Mosca. L’anno seguente acquistò per 40.000 fiorini il Generalato di Karlstadt (Karlovac), la cui fortezza era stata eretta dal Granduca Carlo utilizzando 9000 teschi di Turchi caduti in battaglia.
Si può pensare che il trasferimento in una zona tanto remota fosse stato un espediente per liberarsi da tre difficoltà: la Contessa Juliana Konstantia Lodron (cui aveva promesso il matrimonio senza onorare l’impegno); la Contessa Dorothee Daun (che aveva invece sposato per aderire al desiderio dell’Imperatore Giuseppe); i debiti che ammontavano a 130.000 fiorini.- Presto il Principe riconobbe però di non essere adatto a comandare una guarnigione di confine come quella di Karlstadt, cioè a vivere nella luce dell’ombra. Gli subentrò nel 1709 il Conte di Gorizia Giuseppe Rabatta, il quale gli pagò un prezzo uguale a quello di acquisto.
Annibale Alfonso fu un buon governatore della Carinzia, nonostante la sua labile personalità, sempre oscillante tra gli eccessi di ogni genere e la fedeltà al suo Imperatore. A lui si deve, unitamente al Principe Eugenio di Savoia, una politica marittima in funzione mitteleuropea nell’Adriatico, che era stato a lungo esclusivo monopolio di Venezia. Le miniere e le manifatture carinziane, dove la terra gradualmente s’inslavia, conobbero un notevole sviluppo. I ragguardevoli introiti non riuscirono, tuttavia, a ridurre i debiti. Questi erano dovuti alle enormi spese di rappresentanza, ai viaggi a Bruxelles, Vienna e Monaco e al mantenimento della propria corte. La concessione della Signoria e la Dignità principesca costavano rispettivamente 30.000 e 15.000 fiorini. Il Principe pensava evidentemente che non si potesse rimanere un mondo chiuso in un altro mondo.- La lunga controversia con la Contessa Juliana Lodron, giunta perfino all’esame della Congregazione del Santo Ufficio, aveva inoltre comportato un esborso di 60.000 fiorini, tanto è vero che il Conte e successivo Principe Johann Joseph Khevenhüller-Metsch traformò nel suo diario il nome della donna da Lodron in “Ladron”. A ciò si aggiunga che il Palazzo Porcia di Vienna era stato nel frattempo svuotato di ogni arredo e il suo ripristino esigeva non meno di 10.000 fiorini. Altrimenti ne sarebbe derivato un grave danno d’immagine.- Un’ispezione governativa accertò, infine, un ammanco di 328.272 fiorini e 51 centesimi nell’Amministrazione carinziana di Annibale Alfonso. La situazione era aggravata dal fatto che, com’è usuale, i creditori avevano una memoria più lunga di quella dei debitori. Si giunse al sequestro di quasi tutti i beni. L’unica risorsa rimasta era il bosco di Senosetsch, il cui legname era ambito per le costruzioni navali. La Serenissima voleva comperare 20.000 tronchi di abete rosso al prezzo di 10 fiorini ciascuno. Sarebbe stata una bella boccata di ossigeno, ma le trattative non andarono a buon fine per cause politiche.

Lo storico Günther Probszt-Ohstorf dedica ad Annibale Alfonso, morto a 67 anni nel 1742, ben 17 pagine nella sua opera “I Porcia”. Una interessante e poco nota dimensione riguarda lo “Zecchino di Porcia”.
Nel 1704, quindi agli esordi del suo Principato, Annibale Alfonso Emanuele di Porcia si era ricordato di un dettaglio storico. Il diploma imperiale, con il quale il suo antenato Giovanni Ferdinando di Porcia, primo Principe della casata, era stato investito della dignità principesca, attribuiva anche il diritto di battere moneta. La formula è chiara e indiscutibile:

“…Per dimostrare la Nostra grande benevolenza e il benigno affetto verso il Principe di Porcia, abbiamo concesso questo particolare privilegio e facoltà a lui e ai suoi eredi e discendenti col consenso e l’approvazione Nostra e dei Principi del Sacro Regno. Potrà essere realizzata una zecca per il conio di monete sia d’oro che d’argento, avvalendosi di valenti incisori. Potranno essere monete grandi o piccole similmente alle Nostre o a quelle dei Nostri predecessori secondo l’editto del Sacro Regno. Potranno esservi impresse scritte, immagini, stemmi su entrambe le facce. La preparazione dovrà rispettare i precedenti modelli per quanto riguarda titolo, metallo, grano, contenuto, valore e peso…Qualora da parte Nostra o dei Nostri successori dovessero intervenire variazioni dell’ordinamento monetario, il Principe di Porcia e i suoi eredi e successori dovranno adeguarsi a quest’ultime.”

Il privilegio di battere moneta era stato concesso nel tempo anche ad altri Principi, come quello di Liechtenstein, (che continua tuttora ad esercitarlo), di Eggenberg e di Wallenstein, nonché ai Conti di Dietrichstein e soprattutto al Conte di Montfort. In non pochi casi tale prerogativa si è trasformata in lucrosa e sfacciata speculazione.- Ciò non si può tuttavia dire dei Porcia – Brugnera.

Lo zecchino di Porcia era una moneta da ostentazione. Essa aveva cioè funzione di rappresentanza e di conferma dell’ alta nobiltà e dignità della famiglia. Bisogna infatti tenere presente che l’appartenenza ad un rango principesco non significava affatto l’automatica autorizzazione a battere moneta. Questa doveva essere concessa in rari casi particolari mediante espressa indicazione nel diploma imperiale, come fu appunto il caso di Giovanni Ferdinando. Ma costui, il figlio Giovanni Carlo, suo nipote Francesco Antonio e Gerolamo non ne fecero uso.
La moneta fu coniata nel 1704 presso la zecca imperiale di St. Veit an der Glan (Carinzia). L’incisore fu Michael Miller, che operava in Stiria e Carinzia, ma aveva l’officina a Graz. Il numismatico italiano Solone Ambrosoli la classifica “quasi a far pompa dell’arme sormontata dal berretto principesco, e dal titolo di Principe del Sacro Romano Impero”. Il dritto dello zecchino evidenzia il ritratto di Annibale Alfonso con corazza e una vistosa parrucca; il rovescio mette in rilievo uno scudo con gli stemmi di Porcia, Ortenburg e Mitterburg.
Non è noto quanti pezzi di questa rara moneta siano stati prodotti. Lo zecchino non era infatti destinato alla circolazione monetaria, ma a doni di particolare rilievo. Non doveva diventare un mezzo per comprare e vendere, bensì costituire un simbolo che non si compra e non si vende. Ne esisterebbero soltanto tre esemplari, uno dei quali sarebbe nella grande collezione del Re Vittorio Emanuele III di Savoia.

R I P A S S O D I S T O R I A


La storiografia romana è certamente prodiga di notizie sulla vita dell’epoca. Si tratta comunque di uno storicismo invertebrato. Se si desidera piuttosto conoscere in dettaglio quanto avveniva nella capitale o nelle province, bisogna invece ricorrere a qualche oratore o cronista guastafeste.
Tra questi bene informati figura Plinio il Vecchio. Si viene così a sapere che Giulio Cesare aveva provocato con la sua ambizione un milione di morti, compreso il genocidio dei Veneti residenti nella Gallia Transalpina. La cifra assume particolare rilievo se si pensa che a quel tempo, considerando anche la concessione della cittadinanza ai provinciali dopo le guerre civili, la popolazione dell’Impero era di soli 4.023.000 cives.- Secondo Euripide il personaggio aveva inoltre sostenuto l’inaccettabile principio:”Se occorre violare il diritto per regnare, lo si faccia; in tutti gli altri casi si rispetti la giustizia”. Non sembra proprio il caso di prendere in considerazione Giulio Cesare per eventuali celebrazioni.
Un’altra fonte è Marco Tullio Cicerone. Egli scrive la Seconda Filippica subito dopo le Idi di Marzo, quando Giulio Cesare venne assassinato in Senato. Veniamo in tal modo a sapere che Marco Antonio era il braccio destro di Cesare. Egli era attorniato da una miriade di gente poco per bene. “Comites nequissimi” li qualifica Cicerone, cioè “cattive compagnie” da non confrontarsi con quelle delle nostre gioventù, la cui frequentazione costituiva peccato da confessare.
La Sesta Filippica è ancora più chiara. Marco Antonio aveva un grande seguito quando viaggiava. C’erano allora i littori, che oggi si chiamerebbero la scorta. E fino a qui nulla di straordinario, data la carica che il personaggio rivestiva. Poi seguivano parecchi grandi carri coperti ed equipaggiati per rendere più agevoli le lunghe trasferte. I passeggeri erano prostitute, lenoni e parassiti. Le popolazioni dei Municipi, invece che includere nell’accoglienza una risata torrenziale, dovevano rendere omaggio a quegli ospiti, si fa per dire, e sostenere le rilevanti spese per il mantenimento, il soggiorno e le regalie. Non importava se ciò corrispondeva ad un impoverimento della comunità.
Cicerone non precisa nulla che riguardi Oderzo. Ma a noi sembra lecito chiedere se, per caso, Oderzo non fosse Municipio Romano tra il 49 e il 42 a.C. e precisamente amministrato da quattro magistrati, di cui si conosce solo il nome di M. Laetorius Paterchianus , tanto per dare un riferimento temporale e onomastico ragguagliabile con la storia.- In caso affermativo Oderzo sarebbe stata certamente coinvolto nei costosi festeggiamenti cui Cicerone faceva riferimento. Qualora ciò costituisse motivo di vanto, regime condiviso e orgoglio, piuttosto che di fastidio, sdegno o disonore, sarebbe giustificata la celebrazione estiva del mito impolverato con tanto di travestimenti.- L’evento dovrebbe invece essere rimosso dalla memoria, qualora la partecipazione fosse stata forzata o mal sopportata dalla gente, come si suppone.
La storia ricorda, inoltre, che l’Imperatore Commodo, figlio di Marco Aurelio, spese verso la fine del II secolo d.C. somme molto elevate di denaro pubblico. Il motivo?- Combattimenti tra gladiatori. Egli stesso vi partecipava coraggiosamente, dopo essersi accertato che gli avversari fossero armati di semplici spade di legno. Non si sa mai.- Ecco, anche rievocazioni del genere sarebbero da evitare, specialmente se finanziate da risorse pubbliche in tempo di crisi finanziaria.
Per comprendere qualcosa di più non rimane altro che attendere la prossima estate. Nel frattempo si deve, comunque, prendere atto che Marco Antonio non era rilevante nemmeno esteticamente. In una moneta d’argento risalente al 32 a.C. egli è infatti raffigurato con gli occhi sporgenti, il naso aquilino e il collo taurino. Proprio tutto il contrario di come appare nel famoso film di L. Mankiewics del 1963. Se ne tenga conto per un’eventuale immedesimazione.

“C E T E R I = G L I A L T R I”

Non sembri esagerato accorgersi che il monumento alla cosiddetta vittoria di Bolzano, fatte le debite proporzioni, assomiglia a un moderno trancio di torta nuziale. Estraneo ai tempi appare invece la scritta che si legge: HIC PATRIAE FINES SISTE SIGNA/ HINC CETEROS EXCOLVIMUS LINGUA LEGIBUS ARTIBUS.

Se le reminiscenze scolastiche resistono, dopo la prima parola dovrebbe essere sottinteso un “sunt”. Il significato sarebbe quindi: QUI SONO I CONFINI DELLA PATRIA.. PIANTA LE INSEGNE. DA QUI ISTRUIMMO GLI ALTRI CON LA LINGUA, LE LEGGI, LE ARTI.

Sembra in primo luogo impossibile che i disegnatori di tali “confini” ignorassero l’indicazione di Eubulide, creatore del paradosso, il quale già nella Grecia del IV secolo a.C. sostenne l’inconsistenza di veri confini in natura. In effetti è impossibile stabilire perfino dove termina il monte e incomincia la valle.- Risalta poi subito che il concetto di “patria” nel messaggio, non coincide affatto con l’omologo sentimento dei destinatari. Esso esula infatti dai significati classici e linguistici consolidati.
IL Vocabolario della Lingua Italiana, edito dall’Istituto dell’Encilcopedia Italiana, definisce la patria come “Territorio abitato da un popolo, al quale ciascuno dei suoi componenti sente di appartenere per nascita, lingua, cultura”.- Tale eventualità non ricorreva in Sudtirolo ai tempi dell’erezione di quel monumento, e non ricorre ancora, a meno che per patria non si intenda un’entità dilatabile, o restringibile, a seconda delle circostanze: un territorio su ruote che le guerre possono spostare. Il termine scolpito in lettere latine, che non ricorre nella Costituzione, alluderebbe piuttosto a sovranità statale, oppure a una patria elettorale dove si pagano le tasse. Esso deriva da una convinzione di Pacuvio, citato da Cicerone (Tusc. 5,37. 108) e ripetuto da Seneca:”Patria est ubicumque est bene = La patria è dove si sta bene”. Anche Aristofane non esitò a sostenere:”La patria è dove ci si arricchisce”. Ai fini di potere l’Impero Romano integrò l’idea nell’anno 2 a.C., inventando l’attributo “Padre della Patria”, trasmesso poi a tutti gli Imperatori, tranne Tiberio.- Bisognerà attendere il Rinascimento per l’eccezionale ripristino del titolo, che fu concesso a Cosimo dei Medici. L’ultimo evento risale al XIX secolo con Vittorio Emanuele II.
Le altre idee di patria sono opposte. Il mistico medievale Ugo da San Vitale sostenne che chi trovava dolce un simile concetto era solo “un povero dilettante”.- Virgilio definì le origini dei suoi genitori “mantovani per patria entrambi”.-“Fatemi il piacere di dirmi il vostro nome, cognome e patria”, chiese il manzoniano oste della “Luna piena” a Renzo Tramaglino.- “Patria del Friûl” era infine chiamata la regione friulana governata da un Luogotenente Generale nominato dalla Serenissima dopo il 1420.

Si ha ragione di ritenere che l’iscrizione sul monumento di cui trattasi, risalente al 1928, intendesse rivolgersi alla popolazione di lingua tedesca, poiché non ve n’erano ancora praticamente altre nella regione. Qui emerge la differenza. La “Heimat” come terra e non come entità politica, non coincide con la patria generalizzata e paracadutata, spiegata dalla scuola e collocata in lontane latitudini, dove non poteva esistere una Heimat alpina.
Jakob Grimm intendeva per Heimat il suo paese, la terra della quale egli conosceva i sentieri per averli percorsi da bambino. Gregor von Rezzori sosteneva a sua volta che questa parola trovasse i suoi veri confini nel cuore e nell’anima delle sue creature. Non per nulla Rainer Maria Rilke scrisse che l’unica patria di un uomo libero è l’infanzia, il proprio ricordo (montanaro nel caso di specie) e non quello di altri (peninsulare o insulare).- Korolenk, amico di Cechov, si spinse a dire:”La mia patria è la letteratura”.- È impossibile argomentare che per i Tirolesi si trattasse della letteratura italiana. Piacerebbe aggiungere che la vera patria è quella in cui si incontra il maggior numero di persone che ci assomigliano, come assicurava Stendhal. É certo che un sudtirolese autentico troverebbe maggior numero di persone che gli assomigliano tra i monti e nei contigui territori dove si parla ancora la sua lingua e dove le parole sono più aderenti a quello che egli vuol dire.-“L’italiano è la lingua altra, nel senso che sono altri che l’hanno creata, organizzata e la parlano. Per usarla devo impararla e adeguarmi ad altre regole, e l’attenzione è applicata a non sbagliare, non a creare…mancano anche i muscoli facciali per parlare l’italiano”, sostenne l’attore veneziano Lino Toffolo (Il Gazzettino, 1 luglio 2008, pag. 11).

Veniamo all’ultima parte del messaggio. Gli “altri”avrebbero appreso la cultura da una fonte estranea, investita di tale missione civilizzatrice. A parte il fatto che le statistiche evidenziavano dopo la Grande Guerra un diffuso analfabetismo in Italia, mentre nel Tirolo l’istruzione obbligatoria era supportata da ben otto anni di scuola, il termine “cultus” significa “terreno dissodato, radura”. Non si direbbe che i portatori di cultura si siano distinti nella faticosa agricoltura di montagna!- Più in generale si scorgono poche dimensioni di cultura in giro: solo tagli alla spesa. Tuttavia, volendo considerare la cultura quale identità e qualità che unisce e innalza tramite la lingua, le leggi, le arti, non possono essere tralasciate alcune riflessioni.- Finché importanti esponenti della vita pubblica e della scuola continuano a sbagliare i congiuntivi, è meglio lasciar perdere la lingua. Quando in certa scuola dove si dovrebbe apprendere la lingua, non in tutti gli istituti per fortuna, si scalano le graduatorie per l’insegnamento pagando tangenti da 100 a 300 Euro (Il Giornale, 21 ottobre 2008, pat. 3), è meglio lasciar perdere. Un Ministro ha detto che “questa cultura è attualmente un pannolone un pò indecente con il quale si coprono rendite personali...(Corriere della Sera, 12 ottobre 2008, pag. 37). Finché le procedure colpiscono duramente azioni minori e si riscontra praticamente l’immunità per gravi reati, sarebbe meglio non nominare le leggi. Per quanto riguarda le arti, poiché il termine vuol dire anche “astuzia e artifizio”, l’insegnamento sarà stato anche esplicato con metodo, ma gli “altri” non l’hanno assimilato, a differenza dei furbi che altrove abusano di ogni circostanza (Corriere della Sera, 12 ottobre 2008, pag.21). Se per “arte” si intendono invece scienza, lavoro e qualità, come è giusto che sia, allora il giudizio sembrerebbe finalmente meritevole di aggiornameto.

Il monumento di Bolzano, sebbene non in sintonia stilistica con il circondario, non dovrebbe essere tuttavia abbattuto. Uno dei massimi architetti moderni ha detto che ogni monumento ha un’anima. Dovrebbero dunque averla anche le opere che sono considerate come falsificazione della storia. Il problema è che, secondo la Chiesa, le anime cattive non meritano il paradiso.


LA GRANDE GUERRA TRA STORIA E MEMORIA

“Storia e memoria non sono sinonimi.- La memoria è la vita portata da gruppi viventi e quindi in permanente evoluzione, aperta alla dialettica del ricordo e dell’amnesia. La storia è invece la ricostruzione problematica e incompleta di quello che non è più. La storia esige analisi e discorso critico. Ci sono tante memorie quanti gruppi e fazioni. Per principio la storia appartiene a tutti e a nessuno. La storia sospetta sempre della memoria. La memoria è una tappa obbligata che deve essere superata come un valico alpino, se si vuole andare da una valle all’altra. E’ faticoso lasciarsela alle spalle. Il passaggio dalla memoria alla storia richiede tempo e intelligenza”
(Bernardo Valli, La Repubblica 16 gennaio 2007)


Certe guerre non finiscono mai. Continuano nelle domande dei giovani e nei silenzi dei “grandi”.
Questo è un incontro diverso dalle 43 iniziative programmate per celebrare la fine della Grande Guerra e finanziate con denaro pubblico, ma che in realtà riguardano altro. L’evento n. 13 è per esempio intitolato “Giornate nazionali del mandolino e della musica a plettro”!

La “battaglia del solstizio” aveva registrato un iniziale successo austro-ungarico, ma poi nel luglio 1918 le situazione militare si era nuovamente stabilizzata sulle rive della Piave. Entrambe le retrovie erano, invece, esposte a decisive variabili. La coscrizione della classe 1899 significava che la riserva italiana di uomini era esaurita. Gli orientamenti dell’Imperatore Carlo I evidenziavano la rinunzia a ulteriori offensive.
Nel settore italiano lievitavano rancori, sospetti, abusi, delusioni, repressioni. Una breve rassegna di notizie ne riassume le dimensioni. Si legge nel libro “Memorie di un maresciallo dei carabinieri” curato da Mario Borsoi:”Il Generale (Andrea Graziani) si portò a Treviso con pieni poteri…Nei giorni che seguirono, al mattino, venivano recapitati in caserma, perché fossero esposti e darne così notizia alla popolazione, gli elenchi nominativi dei fucilati del giorno prima: in media dai 20 ai 25 al giorno.- I primi giorni le esecuzioni venivano eseguite nel parco di Villa Margherita a S. Artemio, ed in seguito in un campo a Santa Bona. Le esecuzioni venivano eseguite da un plotone di soldati con fucile; alle loro spalle altrettanti carabinieri a colpi di pistola finivano, poi, coloro che davano segni di vita”.- Lorenzo Del Boca scrive in “Grande Guerra, piccoli generali”: Luigi Cadorna, un pignolo aggrappato a regole e regolette che si comportava come un dittatore e faceva fucilare chi appariva titubante nel correre a farsi ammazzare”.- Curzio Malaparte testimonia che “Chi avesse osato lamentarsi finiva davanti al Tribunale Militare, dove trionfavano disumana insensibilità, servilismo, stupida bestiale ferocia”. E inoltre:”I colpevoli di disfattismo venivano, di notte, prelevati in trincea, ammanettati, trascinati davanti ai Tribunali Militari, che puntualmente ne decretavano la fucilazione”. Non meno significativo è il racconto della Medaglia d’oro Camillo De Carlo nelle sue “Memorie”, che conclude retoricamente:”Mio Dio, perdona, perdona ai nostri eroi, come essi ci perdonano”. Da queste parole si comprende come la storia della Grande Guerra sia un grande obitorio, dove ciascuno viene a cercare i propri morti.
Non dovrebbe destare meraviglia che in un tale clima saturo di perplessità, stanchezza e ostilità contro la guerra, la Rivoluzione d’Ottobre sovietica sembrasse un rimedio e un esempio da imitare per cambiare finalmente l’insopportabile stato di cose. La popolazione civile non era estranea a siffatta prospettiva.- Non si dimentichi che la rivoluzione, indotta dallo Stato Maggiore germanico, aveva fatto crollare il fronte russo e concludere l’armistizio di Brest-Litowsk!- Vi sono ben due importanti interviste giornalistiche al riguardo: IL GIORNALE del 14.08.2004 e IL GAZZETTINO del 6 gennaio 2008.

Nel settore austro-ungarico la crisi non era militare, ma politica. Non si dimentichi che l’esercito occupava ancora oltre 12.000 km² di territorio avversario!- L’Imperatore Carlo I aveva tuttavia deciso di porre termine ad ogni costo alla guerra che egli non aveva voluto, bensì ereditato. Nelle sue “Memorie” pubblicate da Erich Feigl si legge:”Se gli Imperatori non fanno subito la pace, saranno i popoli a farla, scavalcandoli”. Quale fosse la sua saggia visuale si deduce dalla affermazione:”Se pur in presenza di una nostra grande vittoria, noi non concludessimo subito la pace senza annessioni e danni di guerra, anzi perfino con piccoli sacrifici da parte nostra, finiremmo in una situazione militare non favorevole per cercare la pace, e ciò sarebbe una catastrofe”.- La “grande vittoria”, di cui parlava l’Imperatore, avrebbe potuto essere raggiunta mediante la “battaglia del solstizio”. La prospettiva sarebbe stata tutt’altro che impossibile, qualora avessero avuto luogo fermenti rivoluzionari nelle retrovie italiane, come era accaduto in Russia alcuni mesi prima, appunto.
Le premesse non mancavano. Il proletariato internazionale era stato invitato a trasformare la guerra imperialista in guerra civile. A Torino e nelle Marche c’erano stati tumulti con numerosi morti e feriti. Un Generale del Regio Esercito aveva dovuto consegnare la sciabola agli insorti. Non pochi intellettuali aumentavano lo sdegno popolare denominando i cadaveri dei caduti come “buon concime plebeo”, come aveva fatto Giovanni Papini. Il Consiglio Comunale di Milano, presieduto da Filippo Turati, aveva inviato il suo plauso al governo ormai sovietico di Pietrogrado.

“Vi sono argomenti che non ammettono la minima confutazione, ma che non suscitano la minima convinzione”, aveva sostenuto David Hume.- Un’indagine della situazione in Italia è pertanto doveroso a questo punto.
In tale satura miscela esplosiva mancava in Italia solo l’arrivo di un treno carico di rivoluzionari.- In realtà un convoglio del genere esisteva veramente!- Faceva parte del piano del Colonnello tedesco Wilhelm Nicolai, programmatore della riuscita impresa del viaggio a Pietrogrado, e la destinazione era proprio l’Italia, dove era atteso.- Circolava infatti già dal 1915 una canzone dal ritmo “allegro ma non troppo” comune a un altro inno, che diceva:”Neutrali d’Italia/ l’Italia s’arresta,/ e l’elmo di Scipio/ si leva di testa”.- E poi:”Apriamo le porte/ all’Austria più forte:/avvenga che può” Rileggere i giornali dell’epoca, compreso il Corriere della Sera, per credere.-
È il caso di riflettere sulle conseguenza di una rivoluzione in Italia nel 1918.- Il fronte della Piave sarebbe caduto e sarebbe giunta la fine della guerra. Secondo lo stile degli Vienna non si sarebbe tuttavia nemmeno pensato a una vittoria e allo sfruttamento della situazione!-Forse sarebbe giunto piuttosto un aiuto per fronteggiare la sollevazione. Anche l’assetto istituzionale italiano sarebbe infatti profondamente mutato. La monarchia non avrebbe resistito con una politica marxista. La Chiesa avrebbe avuto necessariamente gravi difficoltà in un regime ateo.
Un Imperatore e Re apostolico come Carlo I non avrebbe potuto tollerare un simile fatto. La sua esitazione fu fatale al suo Impero. Non fu l’unica volta nella storia. Tito Livio scrive che “l’esitazione di un giorno”, da parte di Annibale dopo la vittoria di Canne, fu la salvezza per Roma. Gli Asburgo erano da sempre convinti sostenitori della Chiesa. Lo stesso Gorge Clemenceau aveva dichiarato che l’Imperatore d’Asburgo era come un papa nella Mitteleuropa. Si tenga inoltre presente che il giovane e inesperto sovrano provava una specie di subordinazione nei confronti del Papa, il quale era a sua volta in difficoltà con lo Stato italiano da oltre 50 anni.- Sarebbe stato pensabile un Concordato della S. Sede con una Repubblica sovietica?

L’Imperatore impedì la partenza del secondo treno già pronto alla stazione di Zurigo! Il passaggio attraverso i territori controllati dall’Austria era infatti obbligato per giungere in Italia: le frontiere franco-svizzera e italo-elvetica non sarebbero state infatti superabili.- La circostanza non è stata mai accennata in precedenza, ma essa è degna di attenzione. Si tratta, infatti, di una questione documentata negli Atti del processo di Beatificazione di Carlo I (Summarium del processo canonico pp. 221-222 e Positio super virtutibus et fama sanctitatis, vol. I, pag.255).
Dall’orientamento di Carlo I sarebbero derivati non pochi vantaggi. Prima di tutto l’Italia avrebbe evitato una rivoluzione in tempo di guerra. Ne dà atto “Il Giornale” del 14 agosto 2004 con il saggio di Andrea Tornelli “Il Re nemico che salvò l’Italia dal Comunismo”. Poi i Savoia sarebbero rimasti sul trono. L’Intesa avrebbe inoltre potuto spostare dal fronte italiano importanti contingenti militari verso il fronte occidentale, dove c’era ancora una situazione molto critica. Più di tutti ne avrebbe guadagnato la Santa Sede. Poiché “la rivoluzione fu impedita ufficialmente per non danneggiare la Chiesa”, come si legge negli Atti della Beatificazione, si trattava di una carta buona da giocare per giungere al Concordato con l’Italia, a sua volta agevolata dalla positiva fine della guerra.- L’unico svantaggio fu riservato all’Austria già scossa da fermenti rivoluzionari, e ciò fu motivo di biasimo per Carlo I.- Come si sa, quando le cose vanno bene, molti si attribuiscono il merito. Quando le cose vanno male, la colpa è di uno solo.
La richiesta di armistizio fu avanzata da un’Austria abbandonata da tutti, ma non sconfitta. Non un metro quadrato di territorio austriaco era stato finora invaso dalle truppe avversarie. La capacità operativa dell’esercito austriaco era intatta. Ne è prova l’annotazione nelle “Memorie” dell’Imperatore Carlo I:”Ho spiegato all’Imperatore Guglielmo (di Germania) che, qualora il nemico ponesse condizioni intese a usare il nostro territorio per assalire i Tedeschi alle spalle, le rifiuterei e mi opporrei a un’avanzata italiana alla guida della sola Austria, poiché non si può più contare sulle altre nazioni”.- Si sa bene: “Quando il vecchio cane muore, le fedeli pulci si avventano sui suoi cuccioli”, aveva sostenuto Willam Shakespeare.- “Non bisogna attribuire ai sismografi la colpa dei terremoti”, si potrebbe aggiungere da parte nostra.

La disposizione ufficiale di cessare le residue ostilità fu divulgata dal Comando Austriaco alle ore 7,30 del 3 novembre 1918, ma il ritiro unilaterale delle truppe dalla riva sinistra della Piave e la effettiva cessazione dei combattimenti da parte austriaca erano già cominciati nella notte tra il 28 e il 29 ottobre 1918.- Tale tregua unilaterale era stata anticipata dalla liberazione di prigionieri di guerra italiani, come risulta dalle informazioni di mons. Giuseppe Lozer, parroco di Torre, e dall’Archivio di Stato udinese. Si converrà che fu una prassi insolita durante un conflitto. Questa era apparsa l’unica modalità per disarmare effettivamente la guerra.- L’Imperatore non brillava per prudenza. Non aveva nemmeno pensato per la sua famiglia. Non aveva imparato nulla da Hans Christian Andersen. Il grande favolista danese era infatti solito portare con sé un gomitolo di robusto filo di canapa per calarsi dalla finestra in caso d’incendio.
Non è possibile intuire se, nel convulso mutare degli avvenimenti, fosse allora emersa nei responsabili la prospettiva che la fine dell’Impero Asburgico avrebbe potuto anche significare il via libera all’islamizzazione dell’Europa. L’attualità consiglia tuttavia che, quando si scorgono all’orizzonte quattro cavalieri al galoppo, è bene controllare se per caso non si tratti dell’Apocalisse.
Il testo dell’armistizio era stato trasmesso al generale Diaz già in data 31 ottobre 1918. Era chiaro che i Servizi austriaci ne avevano avuto notizia, essendo parte in causa. Poiché erano quindi in corso trattative per l’armistizio (le cui condizioni peraltro erano state rese note parzialmente a Vienna soltanto il 2 novembre, in quanto il differimento dell’entrata in vigore al 4 novembre fu unilaterale e pretestuosamente successivo), era veramente inutile e assurdo continuare a far morire soldati di entrambi gli schieramenti.-“In questa situazione tutto era meglio piuttosto che combattere. Ritengo che i parenti di quei soldati, che furono fatti prigionieri invece che essere uccisi inutilmente, approvino oggi la decisione del Comando Supremo dell’Armata, che tramite l’armistizio ha mantenuto in vita i loro cari”, si legge infine nelle “Memorie” di Carlo I.- Altro che ninne nanne suonate con un trombone, “Canzone del Piave” inclusa, la quale è meno originale di quanto si ritenga!-Il giovane ufficiale ungherese Antal Lehar aveva infatti composto nel febbraio 1918 una “Marcia del Piave” per il suo 106° Reggimento operativo nella zona di Oderzo. Non sentendosi in grado di scrivere le note, egli ricorse al proprio fratello: Franz lehar, il compositore della “Vedova allegra”!- La “Canzone del Piave” italiana risale al giugno 1918. Se si vuole parlare di sconfitta, allora si sappia che l’Austria si è sconfitta da sola e per la pace, mentre Gabriele D’Annunzio scopriva il “fetore della pace”!- Se si vuole parlare di vittoria italiana a Vittorio Veneto, allora si tenga conto che chi vince senza pericolo, trionfa senza gloria, come aveva sostenuto Pierre Corneille.- La città fu raggiunta dalle truppe italiane il 30 ottobre 1918, quando i contingenti austro-ungarici si erano già ritirati. Sul portone di Palazzo De Carlo era ancora affisso il cartello che tutti gli oggetti d’arte e di valore erano stati inventariati e posti sotto la vigilanza del Comando Tappa. L’inventario di cui trattasi era stato lasciato in vista sul tavolo del salone, in modo che chiunque potesse constatare che nulla mancasse. Successivamente l’inventario sparì…- Dove sta quindi la “vittoria”?- Lo spiegò Giuseppe Prezzolini a pagina 34-35 della sua opera “Vittorio Veneto”:”Vittorio Veneto è stata una ritirata che abbiamo disordinato: una battaglia che non abbiamo vinto. Questa è la verità che si deve dire agli italiani: la verità che gli italiani devono lasciarsi dire”.- Giuseppe Prezzolini fu il fondatore della famosa “Congregazione degli Apoti”, cioè di quelli che non la devono facilmente.- Era loro convinzione che l’intelligenza non potesse essere confusa con la furberia. Qualora ciò non bastasse, ci sarebbe la constatazione che il 4 novembre non viene festeggiato nelle altre nazioni, che pure hanno avuto numerose perdite sul fronte italiano, ma che per coerenza festeggiano l’11 novembre, data della vera fine della Grande Guerra..- Tutto ciò vale naturalmente se la storia è considerata un tempo provvisto di senso, come è giusto che sia.- Non vale invece in un’ottica perversa, secondo la quale “in guerra c’è chi marcia e chi ci marcia”. – Bisogna essere prudenti quando si parla di vittorie. Nel luglio del 1945, mentre due bombe atomiche destinate a Hiroshima e Nagasaki venivano caricate sugli aerei alleati, il Governo italiano presieduto da Ferruccio Parri dichiarò eroicamente guerra al Giappone. Anche in questo caso sarebbe stata riportata una vittoria. Esistono individui che ne sono orgogliosi.
Il Pontefice Benedetto XV era coinvolto al pari dell’Imperatore nella volontà di pace. Egli potrebbe quindi aver privilegiato la sorte personale del monarca austriaco certamente in considerazione della sua profonda situazione di fede, ma anche per avere in definitiva reso possibile sia la pace, sia gli auspicati orientamenti italiani in caso di un successo militare in tal modo conseguito.- In altre parole, e mi si perdoni il peccato di memoria, il Papa potrebbe avergli promesso in cambio la beatificazione. Sarebbe stato un impegno tale da non lasciare indifferente un uomo come Carlo I, specialmente se integrato dalla prospettiva, con comodo, di un uguale trattamento per l’amata consorte.
Sono congetture, naturalmente, ma se esse avessero un minimo di fondamento e coincidenza, la prima parte della promessa sarebbe stata mantenuta il 3 ottobre 2004. Per la seconda parte c’è ancora tempo.

A questo punto si potrebbe obiettare che il nesso tra causa ed effetto nel paradigma “fine agevolata della Grande Guerra e Concordato con la S. Sede”, non regge. Tra l’inizio di novembre 1918 e l’11 febbraio 1929 ci sono infatti quasi dieci anni e mezzo. Un tempo decisamente troppo lungo. È vero. Ma un primo incontro tra il Cardinale Pietro Gasparri, Segretario di Stato di Pio XI, e Benito Mussolini, allora deputato, ebbe luogo nel gennaio 1923. Lo rende noto un articolo di Benny Lai su “Repubblica” del 25.2.2007. Il tempo trascorso sarebbe allora di quattro anni e tre mesi. Se si trattasse di un accordo definitivo, come fu poi la Conciliazione, il periodo potrebbe anche essere accettato nel rapporto causa-effetto in prospettiva di interrogazione del possibile, ma esso appare decisamente troppo lungo per un semplice preliminare. In realtà il regime liberale italiano aveva tentato un accordo col Vaticano già nel 1919. Vittorio Emanuele III non concordò, sebbene avesse avuto validi motivi per farlo. Lo afferma Francesco Margiotta Broglio, storico e presidente della Commissione di attuazione del Concordato. Un’informativa più ampia sull’argomento è reperibile in “La conciliazione con la Chiesa Cattolica” (V° DVD di “La storia del Fascismo”, in vendita con il Corriere della Sera dal 12.5.2008 a Euro 9,90).- La relazione tra causa ed effetto nel caso di specie quindi sussiste, e come!- Essa dovrebbe essere anzi pubblicizzata, se si vuole togliere qualcosa alla storia grassa, per dare alla storia sacrificata.
Il filosofo Massimo Cacciari, Sindaco di quella Venezia ridotta da capitale a prefettura, mette in guardia dalla storia politicizzata:”Il fine che l’azione politica persegue può non essere in alcun modo misurabile in termini di utilità; può esprimersi in rituali (e sacrifici) perfettamente inutili”.

Dire la verità è un dovere, ma solo nei confronti di quanti sono degni della verità. All’intelligenza di quest’ultimi non sembri esagerato il concetto di vittoria proposto da Ernest Hemingway, che pure aveva partecipato alla Grande Guerra. Lo scrittore racconta nella sua opera “Il vecchio e il mare”, che un vecchio pescatore non catturava più pesci da 84 giorni. All’improvviso un pesce spada enorme abboccò alla sua esca. Seguirono tre giorni di lotta per tirarlo nella barca. Alla fine una sconfitta apparve nella vittoria: fu recuperato soltanto un grande scheletro, poiché la preda era stata divorata dagli squali.

In conclusione assume autorevole significato l’avallo delle sopra citate tesi l’articolo pubblicato a pag. 34 del ”Sole – 24 Ore” in data 7 settembre 2008 con il titolo emblematico:”4 novembre: fu vera vittoria?”.
È forse giunto il tempo per le persone ragionevoli, di inserire nel pensiero un nuovo principio: “Non sempre i vinti hanno torto”.
Termino con le forti parole di Claudio Magris, pubblicate nel Corriere della Sera del 25 settembre u.s.: “Chi crede di aver vinto non spera, perché si illude di avere già ottenuto ciò che voleva. Ma chi crede di aver vinto definitivamente, di avere stretto con la vittoria un matrimonio indissolubile, diventa facilmente – scrive Manès Sperber – un ridicolo “cornuto della vittoria”.


L E Z I O N E D I S T O R I A


La nostra città lacustre aveva alcuni tra i più rinomati istituti scolastici della regione, ma la cittadinanza non dimostrava particolare propensione per la cultura in generale e per la storia in particolare. I giovani poi non erano coscienti delle fatiche sostenute dagli insegnanti per la loro istruzione. Eppure sarebbe stato sufficiente pensare alla pazienza di quest’ultimi di fronte a tanta ignoranza per provare riconoscenza!
Un professore, rigorosamente scapolo, attirava tuttavia la simpatia degli studenti. Essi potevano frequentare di pomeriggio la sua casa dove le sorelle del docente, rigorosamente nubili, tenevano in serbo biscotti, castagne secche e carrube perfino. C’era inoltre la possibilità di imparare qualche nozione eventualmente sfuggita durante le ore di lezione.
Un giorno il professore disse:”Poiché questo è l’anno santo, se qualcuno va a Roma, cerchi di procurare alcune fotografie dei fori e dei templi antichi. Da un pò di tempo si insite tanto sul fatto che noi siamo romani e, nonostante le prove in contrario le quali ammettono soltanto una lontanissima, sparuta presenza fiscale e militare di emanazione romana, non è ammessa alcuna contraddizione. Strano è che tutti qui ci abbiano creduto. Non mi voglio mettere contro il potere e quindi vorrei realizzare alcuni grandi cartoni con immagini di come poteva essere la nostra città un paio di millenni fa, se non fosse stata com’era in realtà. Per questo mi serve un’ ispirazione”.- Nel frattempo, per far risaltare supposte dimensioni capitoline, la scuola e la stampa avevano accuratamente decaffeinato ogni riferimento alla storia locale. Eppure in un paio di millenni doveva essere pure accaduto qualcosa anche da noi. Nulla da fare. Neppure l’idea poteva affiorare, che un popolo d’acqua dolce non potesse appartenere a una penisola bagnata in tre lati dall’acqua salata del mare.

Di fronte allo scetticismo dei ragazzi, il professore disse che la gente di solito crede a tutto. Poi raccontò:”Il Pontefice Adriano I° era in contrasto con Desiderio, Re dei Longobardi, e chiese aiuto a Re Carlo. Questi aveva sposato la figlia di Desiderio, la mitica Ermengarda, e non aveva giustificati motivi per intervenire. Il Papa Adriano per convincerlo gli inviò allora alcuni doni, il più gradito dei quali fu un uovo dello Spirito Santo…- Proprio così. Poiché lo Spirito Santo era apparso in un certo giorno di Pentecoste come una colomba, al Re era stato donato un uovo di piccione come segno della più alta devozione. Il futuro Imperatore e tutto il suo seguito ne furono lusingati e il 2 aprile dell’anno 774 entrarono a Roma come protettori della Chiesa. Non sembri così difficile far credere cose improponibili, come un uovo dello Spirito Santo”.
Le cartoline furono acquistate a Roma presso un tabaccaio e servirono veramente per alcune gigantografie riproducenti vestigia, contrabbandate come antichità locali. Per uniformarsi al nuovo clima autoreferenziante, il Comune fece allestire nei giardini pubblici due abitacoli ben visibili: uno per la lupa capitolina e uno per l’aquila imperiale. Il recinto per le Oche del Campidoglio era invece in riva al lago, non lontano dall’ufficio dei Vigili, opportunamente denominati Pretoriani. Alcune signore incominciavano a chiedere agli istituti di bellezza uno speciale trucco denominato “pelle d’oca”. Qualche esponente municipale si affrettò perfino ad adeguare il proprio operato alle abitudini abbastanza consuete nelle Amministrazioni romane d’altri tempi, s’intende. Queste, così si diceva, non ascoltavano infatti mai le suppliche dei sudditi, come allora erano denominate.- A tale proposito, per la verità, un bel po’ di colpa era attribuibile alla stampa. I giornali presentavano infatti le Amministrazioni dei Paesi nordici come molto attente alle richieste dei cittadini. Per differenziarsi da tali abitudini consolidate tra i “barbari” bisognava quindi e per logica fare il contrario.
Alcuni studenti, poco preparati in fatto di storia romana, non vedevano una similitudine tra le consuetudini dell’antichità e certi comportamenti moderni. Fu quindi necessario un chiarimento dell’insegnante, il quale spiegò:”Dopo la morte del saggio Imperatore Carlo Aurelio, gli successe sul trono di Roma il figlio Comodo, nato nell’anno 161 d.C.- La storia lo descrive come l’opposto del padre, visto che già a dodici anni fece arrostire nel forno uno schiavo che gli aveva preparato un bagno troppo caldo. Egli si teneva inoltre cari i peggiori soggetti e quando gli furono allontanati, si ammalò. Durante il suo governo mandava inoltre i suoi complici a comandare nelle Province. Ciò non gli impedì di farsi divinizzare nelle monete nel 188 – 189 a spese dei sudditi ignari. Tra le peggiori dimensioni della sua pessima amministrazione vengono ricordati molti casi di peculato e malversazione. Commodo sperperava infatti il denaro pubblico per allestire combattimenti di gladiatori sia nell’arena che nei parchi pubblici”.

I giovani si chiesero se, qualora fossero state imitate le inclinazioni di Commodo in fatto di spettacoli gladiatori, ne sarebbe conseguita una bella immagine amministrativa per le Istituzioni.

(Il Piave, Conegliano Veneto, febbraio 2009)

S T R A D E

“Jakob Grimm intendeva per ‘patria’ la terra
della quale egli conosceva tutte le strade e tutti i sentieri
per averli percorsi da bambino”.

Un proverbio dice:”Tutte le strade conducono a Roma”. In realtà esistono anche percorsi che portano lontano da Roma.Nel Veneto ricorrono denominazioni viarie come “Ongaresca”, “Schiavonesca”, “Pagana, “Pelosa”, “Cal Trevisana”, “Furlana”, “Postumia”, “Cal Alta” “Napoleonica”…e infine “Strada Statale n. 13” (Pontebbana). Il riferimento alla topografia, alla storia e soprattutto alle genti che hanno percorso questi tragitti è evidente. Altrettanto eloquenti sono i frequenti cognomi e toponimi.
La spiegazione di questa geografia umana è evitata con cura. Lo impone il culto di Santa Ignoranza, patrona degli stupidi. La scuola rimuove argomenti che potrebbero alludere a una eterogeneità socio-storica del Veneto in generale e della Sinistra Piave in particolare. Siffatta informativa sarebbe infatti sospetta di leso centripetismo e accusata, non sia mai, di aver eclissato opere come la via Claudia Augusta o la Julia Augusta. Per la verità non è sempre stato così: L’Olivieri, il Filiasi, il Vital (Conegliano), il Settià (Torino), il Bosio (Padova) ed altri hanno lasciato pagine fondamentali sull’argomento, ma quelli erano tempi in cui la cultura mitteleuropea aveva ancora la dimensione che le spettava e non esisteva ancora l’omologazione non disinteressata.
La Cal Ongaresca (via ungarica) merita particolare considerazione. Com’è noto, all’alba dell’anno 1001 l’umanità si era svegliata con una grande sorpresa: non c’era stata la tanto predicata e temuta fine del mondo. Si poteva quindi ricominciare a vivere e a muoversi. I pellegrinaggi verso Gerusalemme, Roma e la Galizia costituirono un ininterrotto turismo religioso. Anche la componente economica dei viaggi dovette essere stata notevole, generando non pochi pericoli di furto. Bisognava provvedere. Mentre le città avevano i loro xenodochi funzionanti (centri di accoglienza e assistenza per i transeunti) esistevano tuttavia interdistanze enormi e a rischio. Per sicurezza bisognava ridurre tali distanze. I Benedettini istituirono presso il guado del Piave a Lovadina, con l’appoggio dei Collalto, dei Colfosco e di altri principi franco-longobardi, un punto di ristoro e (perché no?) di difesa per i pellegrini. Molti di questi, forse per malattia, non proseguirono il viaggio verso Roma o Gerusalemme. Si fermarono e furono chiamati Pellegrin, Pellegrinon, Pellegrinet, Turcato, Barbaresco, Schiavon Romier, Forest, Spagnol, Rivaben, Tubiana, Rommel, Carantan, Samogin, Varaschin, Troian, Bordon, Compostella. Altri ritornarono dalla Terra Santa recando qualche palma raccolta nei luoghi sacri e furono chiamati Palmieri, Palmarin, Rusalen, Pasquali. L’istituzione dovette essere molto importante se il Vescovo Robert di Ceneda (così si chiamava l’attuale Vittorio Veneto, poi ribattezzata per spirito di subalternità), dispose nel 1124 che il traghetto del Piave dovesse essere gratuito per gente in transito, uomini d’affari e commercio, longobardi nonché provenienti da Ungheria (Pannonia), Slavonia, Carinzia e Germania, come si legge nel decreto.
Diversi dovettero, tuttavia, essere stati i motivi che originarono il nome di “ongaresca”. Non sarebbero bastati i viaggi verso i luoghi santi. Il Re Berengario aveva nominato una strada ongaresca già nell’anno 888. È probabile che la definizione sia da porsi in relazione con le dodici invasioni partite dalla zona tra il Volga e gli Urali, allora impropriamente ritenuta ungarica. Certo è che oltre il Danubio di Buda ed Esztergom (Strigonia) c’era soltanto un nulla misterioso. Le devastazioni furono tanto disastrose da integrare particolari litanie rogatorie per esorcizzare quegli eventi. Residuo di quelle incursioni potrebbero essere i cognomi Ongaro, Dall’Ongaro, Ongarato.
Anche la via Postumia, che collegava Verona con Aquileia mediante il rettifilo Brenta - Piave, viene solitamente vista soltanto quale via consolare. In parte è giusto…..- Bisogna tuttavia aggiungere che la denominazione attuale non ha la sola genesi del Console Spurius Postumius Albinus, che nel 148 a.C. destinò la via a scopi militari. Non si può infatti escludere che i Veneti Antichi avessero un precedente collegamento tra le loro città. Il vero nome del Console potrebbe essere stato in realtà “Postumus”, cioè “successivo”. Il significato di Postioma è invece quello di “sosta”. È certo che il toponimo preromano “Postioma (Postojma?)”, vicino a Treviso, con le varianti “Postoi” presso Venezia, e “Postojna/Postumia” in Slovenia, coincidono soltanto casualmente con il nome del Console. Non sembri inoltre esagerato pensare che altre strade siano state genericamente chiamate con l’aggettivo sostantivato “Postumia” in quanto tali, benché lontane dalla via consolare vera e propria. La Codroipo – Udine – Cividale è per esempio tra queste. La circostanza significherebbe che si usava il termine Ongaresca-Postumia per indicare una strada di grande comunicazione, come la Menarè, Camino Real degli ispanici.

La via Ongaresca classica ha il seguente itinerario: Lovadina, Pordenone, Codroipo, Gradisca, Mainiza, Bukoviça, Val Vipava, Aidussina, Monti dell’Ocra, Kalce, Castellier di Lubiana, Passo Adrana/Troiane, Zeleja, Poetovio, Kasztely (capo-lago occidentale del Balaton).- Nel territorio cenedese ci sono poi tratti minori, come quello che congiunge il cimitero di Pianzano con quello di Orsago, o quello che attraversa San Fior e s’inoltra verso il Campardo di Pianzano, dove i tramonti sembrano avvicinarsi sempre, ma non arrivano mai. Una “ongaresca granda” partiva da San Giovanni del Tempio, toccava Pordenone, attraversava Sclavons-Cordenons e giungeva a Codroipo facendo vado a Valvason. Oggi è nota come Strada Maestra e la terra attraversata sia sotto il ventissimo della Bora che nel sinistro candore della neve, fa pure parte del pavimento del mondo. Tratti ongareschi mediani e inferiori erano invece rispettivamente la strada “San Polo di Piave – Fontanelle – Codogné – Gaiarine – Brugnera – Tamai – Palse – Porcia – Pordenone” e la strada “Oderzo – Mansuè – Portobuffolè – Prata – Pordenone”.- In conclusione è il caso di usare il plurale quando si parla di via ongaresca, specialmente per l’area sopra le risorgive del Travisano, Cenedese e Pordenonese. Lo stesso viale Ungheria in Udine non sarebbe che un tratto di una “ongaresca” a suo tempo percorsa dai Longobardi per giungere nella Terra Promessa friulana.- Se a Moniego di Noale (Venezia) resiste il vecchio toponimo viario Strada degli Ungheri, significa che anche la Treviso-Padova era ritenuta una “ongaresca” vera e propria.

A ponente del Piave si snoda la via Schiavonesca, detta “Marostegana”, che raccoglie tutte le confluenze viarie da Schio-Thiene. Anche questa si innesta nell’Ongaresca, come risulta dagli Statuti di Bassano risalenti al 1259, giungendo dal Vicentino fino a Nervosa e quivi definita Via dei Franchi e dei pellegrini, come ricordato dal Vital.. Un’altra schiavonesca si irradiava tra Postioma e Ponte della Priula. Un’altra ancora collegava Tezze sul Brenta con Selva del Montello scavalcando corsi d’acqua che, nonostante le recenti industrializzazioni, continuano a svolgere il loro ruolo di polmoni del pianeta e di corridoi biologici tra i monti e il mare.

(Dialogo Veneto on line, febbraio 2009)
(Il Dialogo, Oderzo, marzo 2009)

LA GRANDE GUERRA TRA STORIA E MEMORIA

“Storia e memoria non sono sinonimi.- La memoria è la vita portata da gruppi viventi e quindi in permanente evoluzione, aperta alla dialettica del ricordo e dell’amnesia. La storia è invece la ricostruzione problematica e incompleta di quello che non è più. La storia esige analisi e discorso critico. Ci sono tante memorie quanti gruppi e fazioni. Per principio la storia appartiene a tutti e a nessuno. La storia sospetta sempre della memoria. La memoria è una tappa obbligata che deve essere superata come un valico alpino, se si vuole andare da una valle all’altra. E’ faticoso lasciarsela alle spalle. Il passaggio dalla memoria alla storia richiede tempo e intelligenza”
(Bernardo Valli, La Repubblica 16 gennaio 2007)


Certe guerre non finiscono mai. Continuano nelle domande dei giovani e nei silenzi dei “grandi”.
Questa è una voce diversa dalle 43 iniziative programmate nel 2008 per celebrare la fine della Grande Guerra e finanziate con denaro pubblico, ma che in realtà riguardano ben altro. L’evento n. 13 è infatti, per esempio, intitolato “Giornate nazionali del mandolino e della musica a plettro”.-Eppure “Occorre diffidare delle solarità mediterranee quando appaiono in uno splendore eccessivo”, aveva avvertito in anticipo Giuseppe Jannaccone nel GIORNALE del 27 luglio 2007!

La “battaglia del solstizio” aveva registrato un iniziale successo austro-ungarico, ma poi nel luglio 1918 le situazione militare si era nuovamente stabilizzata sulle rive della Piave. Entrambe le retrovie erano, invece, esposte a decisive variabili. La coscrizione della classe 1899 significava che la riserva italiana di uomini era esaurita. Gli orientamenti dell’Imperatore Carlo I evidenziavano la rinunzia a ulteriori offensive. Egli riteneva la guerra nient’altro che un’impresa di demolizioni.
Nel settore italiano lievitavano rancori, sospetti, abusi, delusioni, repressioni. Una breve rassegna di notizie ne riassume le dimensioni. Si legge nel libro “Memorie di un maresciallo dei carabinieri” curato da Mario Borsoi:”Il Generale (Andrea Graziani) si portò a Treviso con pieni poteri…Nei giorni che seguirono, al mattino, venivano recapitati in caserma, perché fossero esposti e darne così notizia alla popolazione, gli elenchi nominativi dei fucilati del giorno prima: in media dai 20 ai 25 al giorno.- I primi giorni le esecuzioni venivano eseguite nel parco di Villa Margherita a S. Artemio, ed in seguito in un campo a Santa Bona. Le esecuzioni venivano eseguite da un plotone di soldati con fucile; alle loro spalle altrettanti carabinieri a colpi di pistola finivano, poi, coloro che davano segni di vita”.- Lorenzo Del Boca scrive in “Grande Guerra, piccoli generali”: Luigi Cadorna, un pignolo aggrappato a regole e regolette che si comportava come un dittatore e faceva fucilare chi appariva titubante nel correre a farsi ammazzare”.- Curzio Malaparte testimonia che “Chi avesse osato lamentarsi finiva davanti al Tribunale Militare, dove trionfavano disumana insensibilità, servilismo, stupida bestiale ferocia”. E inoltre:”I colpevoli di disfattismo venivano, di notte, prelevati in trincea, ammanettati, trascinati davanti ai Tribunali Militari, che puntualmente ne decretavano la fucilazione”. Non meno significativo è il racconto della Medaglia d’oro Camillo De Carlo nelle sue “Memorie”, che conclude retoricamente:”Mio Dio, perdona, perdona ai nostri eroi, come essi ci perdonano”. Da queste parole si comprende come la storia della Grande Guerra sia un grande obitorio, dove ciascuno viene a cercare i propri morti.
Non dovrebbe destare meraviglia che in un tale clima saturo di perplessità, stanchezza e ostilità contro la guerra, la Rivoluzione d’Ottobre sovietica sembrasse un rimedio e un esempio da imitare per cambiare finalmente l’insopportabile stato di cose. La popolazione civile non era estranea a siffatta prospettiva.- Non si dimentichi che la rivoluzione, indotta dallo Stato Maggiore germanico, aveva fatto crollare il fronte russo e concludere l’armistizio di Brest-Litowsk!- Vi sono ben due importanti interviste giornalistiche al riguardo: IL GIORNALE del 14.08.2004 e IL GAZZETTINO del 6 gennaio 2008.

Nel settore austro-ungarico la crisi non era militare, ma politica. Non si dimentichi che l’esercito occupava ancora oltre 12.000 km² di territorio avversario!- L’Imperatore Carlo I, sovrano certamente non nato per fare la guerra, aveva deciso di porre termine ad ogni costo alla guerra che egli non aveva voluto, bensì ereditato. Nelle sue “Memorie” pubblicate dal compianto Erich Feigl si legge:”Se gli Imperatori non fanno subito la pace, saranno i popoli a farla, scavalcandoli”. Quale fosse la sua saggia visuale si deduce dalla affermazione:”Se pur in presenza di una nostra grande vittoria, noi non concludessimo subito la pace senza annessioni e danni di guerra, anzi perfino con piccoli sacrifici da parte nostra, finiremmo in una situazione militare non favorevole per cercare la pace, e ciò sarebbe una catastrofe”.- La “grande vittoria”, di cui parlava l’Imperatore, avrebbe potuto essere raggiunta mediante la “battaglia del solstizio”. La prospettiva sarebbe stata tutt’altro che impossibile, qualora avessero avuto luogo fermenti rivoluzionari nelle retrovie italiane, come era accaduto in Russia alcuni mesi prima, appunto.
Le premesse non mancavano. Il proletariato internazionale era stato invitato a trasformare la guerra imperialista in guerra civile. A Torino e nelle Marche c’erano stati tumulti con numerosi morti e feriti. Un Generale del Regio Esercito aveva dovuto consegnare la sciabola agli insorti. Non pochi intellettuali aumentavano lo sdegno popolare denominando i cadaveri dei caduti come “buon concime plebeo”, come aveva fatto Giovanni Papini. Il Consiglio Comunale di Milano, presieduto da Filippo Turati, aveva inviato il suo plauso al governo ormai sovietico di Pietrogrado.

“Vi sono argomenti che non ammettono la minima confutazione, ma che non suscitano la minima convinzione”, aveva sostenuto David Hume.- Un’indagine della situazione in Italia è pertanto doveroso a questo punto.
In tale satura miscela esplosiva mancava in Italia solo l’arrivo di un treno carico di rivoluzionari.- In realtà un convoglio del genere esisteva veramente!- Faceva parte del piano del Colonnello tedesco Wilhelm Nicolai, programmatore della riuscita impresa del viaggio a Pietrogrado, e la destinazione era proprio l’Italia, dove era atteso.- Circolava infatti già dal 1915 una canzone dal ritmo “allegro ma non troppo” comune a un altro inno, che diceva:”Neutrali d’Italia/ l’Italia s’arresta,/ e l’elmo di Scipio/ si leva di testa”.- E poi:”Apriamo le porte/ all’Austria più forte:/avvenga che può” Rileggere i giornali dell’epoca, compreso il Corriere della Sera, per credere.-
È il caso di riflettere sulle conseguenza di una rivoluzione in Italia nel 1918.- Il fronte della Piave sarebbe caduto e sarebbe giunta la fine della guerra. Secondo lo stile degli Vienna non si sarebbe tuttavia nemmeno pensato a una vittoria e allo sfruttamento della situazione!-Forse sarebbe giunto piuttosto un aiuto per fronteggiare la sollevazione. Anche l’assetto istituzionale italiano sarebbe infatti profondamente mutato. La monarchia non avrebbe resistito con una politica marxista. La Chiesa avrebbe avuto necessariamente gravi difficoltà in un regime ateo.
Un Imperatore e Re apostolico come Carlo I non avrebbe potuto tollerare un simile fatto. La sua esitazione fu fatale al suo Impero. Non fu l’unica volta nella storia. Tito Livio scrive che “l’esitazione di un giorno”, da parte di Annibale dopo la vittoria di Canne, fu la salvezza per Roma. Gli Asburgo erano da sempre convinti sostenitori della Chiesa. Lo stesso Gorge Clemenceau aveva dichiarato che l’Imperatore d’Asburgo era come un papa nella Mitteleuropa. Si tenga inoltre presente che il giovane e inesperto sovrano provava una specie di subordinazione nei confronti del Papa, il quale era a sua volta in difficoltà con lo Stato italiano da oltre 50 anni.- Sarebbe stato pensabile un Concordato della S. Sede con una Repubblica sovietica?

L’Imperatore impedì la partenza del secondo treno già pronto alla stazione di Zurigo! Il passaggio attraverso i territori controllati dall’Austria era infatti obbligato per giungere in Italia: le frontiere franco-svizzera e italo-elvetica non sarebbero state infatti superabili.- La circostanza non è stata mai accennata in precedenza, ma essa è degna di attenzione. Si tratta, infatti, di una questione documentata negli Atti del processo di Beatificazione di Carlo I (Summarium del processo canonico pp. 221-222 e Positio super virtutibus et fama sanctitatis, vol. I, pag.255).
Dall’orientamento di Carlo I sarebbero derivati non pochi vantaggi. Prima di tutto l’Italia avrebbe evitato una rivoluzione in tempo di guerra. Ne dà atto “Il Giornale” del 14 agosto 2004 con il saggio di Andrea Tornelli “Il Re nemico che salvò l’Italia dal Comunismo”. Poi i Savoia sarebbero rimasti sul trono. L’Intesa avrebbe inoltre potuto spostare dal fronte italiano importanti contingenti militari verso il fronte occidentale, dove c’era ancora una situazione molto critica. Più di tutti ne avrebbe guadagnato la Santa Sede. Poiché “la rivoluzione fu impedita ufficialmente per non danneggiare la Chiesa”, come si legge negli Atti della Beatificazione, si trattava di una carta buona da giocare per giungere al Concordato con l’Italia, a sua volta agevolata dalla positiva fine della guerra.- L’unico svantaggio fu riservato all’Austria già scossa da fermenti rivoluzionari, e ciò fu motivo di biasimo per Carlo I.- Come si sa, quando le cose vanno bene, molti si attribuiscono il merito. Quando le cose vanno male, la colpa è di uno solo.
La richiesta di armistizio fu avanzata da un’Austria abbandonata da tutti, ma non sconfitta.
Anche il Comando supremo dell’esercito germanico aveva fatto altrettanto tramite il Cancelliere Max von Baden. Si trattava di cessazione delle ostilità, non di una capitolazione come quella che sarebbe intervenuta invece l’8 settembre 1943 per quanto riguarda l’Italia!-Per la precisione, secondo il programma americano, doveva realizzarsi una “pace senza vittoria”. Soltanto più tardi le trattative armistiziali furono stravolte con l’ultimatum del 18 gennaio 1919 (Spiegel, 6.07.2009, pag. 47). Non senza motivo lo storico inglese A.J.P. Taylor avrebbe quindi successivamente scritto nella sua “Storia dell’Inghilterra 1914 – 1945) che “I Tedeschi furono ingannati quasi del tutto”.
Non un metro quadrato di territorio austriaco era stato finora invaso dalle truppe avversarie. La capacità operativa dell’esercito austriaco era intatta. Ne è prova l’annotazione nelle “Memorie” dell’Imperatore Carlo I:”Ho spiegato all’Imperatore Guglielmo (di Germania) che, qualora il nemico ponesse condizioni intese a usare il nostro territorio per assalire i Tedeschi alle spalle, le rifiuterei e mi opporrei a un’avanzata italiana alla guida della sola Austria, poiché non si può più contare sulle altre nazioni”.- Si sa bene: “Quando il vecchio cane muore, le fedeli pulci si avventano sui suoi cuccioli”, aveva sostenuto Willam Shakespeare.- “Non bisogna attribuire ai sismografi la colpa dei terremoti”, si potrebbe aggiungere da parte nostra.

La disposizione ufficiale di cessare le residue ostilità fu divulgata dal Comando Austriaco alle ore 7,30 del 3 novembre 1918, ma il ritiro unilaterale delle truppe dalla riva sinistra della Piave e la effettiva cessazione dei combattimenti da parte austriaca erano già cominciati nella notte tra il 28 e il 29 ottobre 1918.- Tale tregua unilaterale era stata anticipata dalla liberazione di prigionieri di guerra italiani, come risulta dalle informazioni di mons. Giuseppe Lozer, parroco di Torre, e dall’Archivio di Stato udinese. Si converrà che fu una prassi insolita durante un conflitto. Questa era apparsa l’unica modalità per disarmare effettivamente la guerra.- L’Imperatore non brillava per prudenza. Non aveva nemmeno pensato per la sua famiglia. Non aveva imparato nulla da Hans Christian Andersen. Il grande favolista danese era infatti solito portare con sé un gomitolo di robusto filo di canapa per calarsi dalla finestra in caso d’incendio.
Non è possibile intuire se, nel convulso mutare degli avvenimenti, fosse allora emersa nei responsabili la prospettiva che la fine dell’Impero Asburgico avrebbe potuto anche significare il via libera all’islamizzazione dell’Europa. L’attualità consiglia tuttavia che, quando si scorgono all’orizzonte quattro cavalieri al galoppo, è bene controllare se per caso non si tratti dell’Apocalisse.
Il testo dell’armistizio era stato trasmesso al generale Diaz già in data 31 ottobre 1918. Era chiaro che i Servizi austriaci ne avevano avuto notizia, essendo parte in causa. Poiché erano quindi in corso trattative per l’armistizio (le cui condizioni peraltro erano state rese note parzialmente a Vienna soltanto il 2 novembre, in quanto il differimento dell’entrata in vigore al 4 novembre fu unilaterale e pretestuosamente successivo), era veramente inutile e assurdo continuare a far morire soldati di entrambi gli schieramenti.-“In questa situazione tutto era meglio piuttosto che combattere. Ritengo che i parenti di quei soldati, che furono fatti prigionieri invece che essere uccisi inutilmente, approvino oggi la decisione del Comando Supremo dell’Armata, che tramite l’armistizio ha mantenuto in vita i loro cari”, si legge infine nelle “Memorie” di Carlo I.- Altro che ninne nanne suonate con un trombone, “Canzone del Piave” inclusa, la quale è meno originale di quanto si ritenga!-Il giovane ufficiale ungherese Antal Lehar aveva infatti composto nel febbraio 1918 una “Marcia del Piave” per il suo 106° Reggimento operativo nella zona di Oderzo. Non sentendosi in grado di scrivere le note, egli ricorse al proprio fratello: Franz lehar, il compositore della “Vedova allegra”!- La “Canzone del Piave” italiana risale al giugno 1918. Se si vuole parlare di sconfitta, allora si sappia che l’Austria si è sconfitta da sola e per la pace, mentre Gabriele D’Annunzio scopriva il “fetore della pace”!- Se si vuole parlare di vittoria italiana a Vittorio Veneto, allora si tenga conto che chi vince senza pericolo, trionfa senza gloria, come aveva sostenuto Pierre Corneille.- La città fu raggiunta dalle truppe italiane il 30 ottobre 1918, quando i contingenti austro-ungarici si erano già ritirati. Sul portone di Palazzo De Carlo era ancora affisso il cartello che tutti gli oggetti d’arte e di valore erano stati inventariati e posti sotto la vigilanza del Comando Tappa. L’inventario di cui trattasi era stato lasciato in vista sul tavolo del salone, in modo che chiunque potesse constatare che nulla mancasse. Successivamente l’inventario sparì…- Dove sta quindi la “vittoria”?- Lo spiegò Giuseppe Prezzolini a pagina 34-35 della sua opera “Vittorio Veneto”:”Vittorio Veneto è stata una ritirata che abbiamo disordinato: una battaglia che non abbiamo vinto. Questa è la verità che si deve dire agli italiani: la verità che gli italiani devono lasciarsi dire”.- Giuseppe Prezzolini fu il fondatore della famosa “Congregazione degli Apoti”, cioè di quelli che non la devono facilmente.- Era loro convinzione che l’intelligenza non potesse essere confusa con la furberia. Qualora ciò non bastasse, ci sarebbe la constatazione che il 4 novembre non viene festeggiato nelle altre nazioni, che pure hanno avuto numerose perdite sul fronte italiano, ma che per coerenza festeggiano l’11 novembre, data della vera fine della Grande Guerra..- Tutto ciò vale naturalmente se la storia è considerata un tempo provvisto di senso, come è giusto che sia.- Non vale invece in un’ottica perversa, secondo la quale “in guerra c’è chi marcia e chi ci marcia”. – Bisogna essere prudenti quando si parla di vittorie. Nel luglio del 1945, mentre due bombe atomiche destinate a Hiroshima e Nagasaki venivano caricate sugli aerei alleati, il Governo italiano presieduto da Ferruccio Parri dichiarò eroicamente guerra al Giappone. Anche in questo caso sarebbe stata riportata una vittoria. Esistono individui che ne sono orgogliosi.
Il Pontefice Benedetto XV era coinvolto al pari dell’Imperatore nella volontà di pace. Egli potrebbe quindi aver privilegiato la sorte personale del monarca austriaco certamente in considerazione della sua profonda situazione di fede, ma anche per avere in definitiva reso possibile sia la pace, sia gli auspicati orientamenti italiani in caso di un successo militare in tal modo conseguito.- In altre parole, e mi si perdoni il peccato di memoria, il Papa potrebbe avergli promesso in cambio la beatificazione. Sarebbe stato un impegno tale da non lasciare indifferente un uomo come Carlo I, specialmente se integrato dalla prospettiva, con comodo, di un uguale trattamento per l’amata consorte.
Sono congetture, naturalmente, ma se esse avessero un minimo di fondamento e coincidenza, la prima parte della promessa sarebbe stata mantenuta il 3 ottobre 2004. Per la seconda parte c’è ancora tempo. Specularmene, o contestualmente, lo Stato della Città del Vaticano sembrerebbe un’invenzione italiana intesa ad esprimere la gratitudine per la “vittoria” nella Grande Guerra.

A questo punto si potrebbe non senza ragione obiettare che il nesso tra causa ed effetto nel paradigma “fine agevolata della Grande Guerra e Concordato con la S. Sede”, non regge. Tra l’inizio di novembre 1918 e l’11 febbraio 1929 ci sono infatti quasi dieci anni e mezzo. Un tempo decisamente troppo lungo. È vero. Ma un primo incontro tra il Cardinale Pietro Gasparri, Segretario di Stato di Pio XI, e Benito Mussolini, allora deputato, ebbe luogo nel gennaio 1923. Lo rende noto un articolo di Benny Lai su “Repubblica” del 25.2.2007. Il tempo trascorso sarebbe allora di quattro anni e tre mesi. Se si trattasse di un accordo definitivo, come fu poi la Conciliazione, il periodo potrebbe anche essere accettato nel rapporto causa-effetto in prospettiva di interrogazione del possibile, ma esso appare nuovamente ancora troppo lungo per un semplice preliminare. In realtà il regime liberale italiano aveva tentato un accordo col Vaticano già nel 1919. Vittorio Emanuele III non concordò, sebbene avesse avuto validi motivi per farlo. Lo afferma Francesco Margiotta Broglio, storico e presidente della Commissione di attuazione del Concordato. Un’informativa più ampia sull’argomento è reperibile in “La conciliazione con la Chiesa Cattolica” (V° DVD di “La storia del Fascismo”, in vendita con il Corriere della Sera dal 12.5.2008 a Euro 9,90).- La relazione tra causa ed effetto nel caso di specie quindi sussiste, e come!- Essa dovrebbe essere anzi pubblicizzata, se si vuole togliere qualcosa alla storia grassa, per dare alla storia sacrificata.
Il filosofo Massimo Cacciari, Sindaco di quella Venezia ridotta da capitale a prefettura, mette in guardia dalla storia politicizzata:”Il fine che l’azione politica persegue può non essere in alcun modo misurabile in termini di utilità; può esprimersi in rituali (e sacrifici) perfettamente inutili”.

Dire la verità è un dovere, ma solo nei confronti di quanti sono degni della verità. All’intelligenza di quest’ultimi non sembri esagerato il concetto di vittoria proposto da Ernest Hemingway, che pure aveva partecipato alla Grande Guerra. Lo scrittore racconta nella sua opera “Il vecchio e il mare”, che un vecchio pescatore non catturava più pesci da 84 giorni. All’improvviso un pesce spada enorme abboccò alla sua esca. Seguirono tre giorni di lotta per tirarlo nella barca. Alla fine una sconfitta apparve nella vittoria: fu recuperato soltanto un grande scheletro, poiché la preda era stata divorata dagli squali.

In conclusione assume autorevole significato l’avallo delle sopra citate tesi l’articolo pubblicato a pag. 34 del ”Sole – 24 Ore” in data 7 settembre 2008 con il titolo emblematico:”4 novembre: fu vera vittoria?”.
È forse giunto il tempo per le persone ragionevoli, di inserire nel pensiero un nuovo principio: “Non sempre i vinti hanno torto”.
Termino con le forti parole di Claudio Magris, pubblicate nel Corriere della Sera del 25 settembre u.s.: “Chi crede di aver vinto non spera, perché si illude di avere già ottenuto ciò che voleva. Ma chi crede di aver vinto definitivamente, di avere stretto con la vittoria un matrimonio indissolubile, diventa facilmente – scrive Manès Sperber – un ridicolo “cornuto della vittoria”.




M A R C O D’ A V I A N O E L A S A L V E Z Z A D’ E U R O P A


Non ci si pensa mai. Tuttavia, se la seconda guerra mondiale fosse terminata in maniera diversa, taluni protagonisti sarebbero stati fatti probabilmente beati e santi.- Una situazione del genere potrebbe essersi verificata 262 anni prima, vale a dire all’epoca del secondo assedio turco di Vienna.
Il 1 aprile 1683 si mosse la spedizione militare osmana contro Vienna. La comandava il Sultano Maometto IV. I contingenti erano giunti da tutta la Turchia, dall’Alta Mesopotamia, dal Delta del Nilo, dai Balcani e perfino dal sud-ovest della Russia. Le truppe dell’Imperatore Leopoldo I d’Asburgo, benché prive di artiglieria, erano state allertate. I comandanti erano tuttavia discordi e gelosi. La Francia parteggiava per gli Osmani. Il Papa esprimeva la propria preoccupazione, ma tollerava che il cardinale di curia Aleramo Cibo tramasse con gli avversari. I Principi cristiani e Venezia stessa erano titubanti.
L’Imperatore Leopoldo chiese allora consiglio a Padre Marco d’Aviano. Il frate incontrò il regnante il 1 settembre 1683 a Linz. La prospettiva appariva praticamente disperata per il Sacro Romano Impero. Vienna era assediata dagli Osmani e funestata da fame, paura, epidemie. La capitale sarebbe caduta entro breve tempo.
Contro ogni previsione Padre Marco riuscì a portare la concordia tra i condottieri cristiani, aggiungendo nuovi contingenti polacchi guidati dal Re Jan Sobieskj. L’esercito imperiale poteva contare su 70.000 combattenti e la battaglia per la liberazione di Vienna poteva cominciare. Del frate friulano si può a ragione dire che “seguì la croce senza vantarsi di averla portata”, come si legge nella targa stradale della via a lui dedicata a Conegliano Veneto.
Si cerca di far passare la notizia sotto silenzio, ma in quella circostanza c’era, oltre a Padre Marco, un altro religioso sotto le mura di Vienna: Islam Ahmet Bey. Il nome non deve trarre in inganno. Si trattava infatti di un frate cappuccino coetaneo di P. Marco, appartenente alla stessa Provincia Veneta e probabilmente con pronuncia dei voti contemporanea a quella dell’avianese. Egli non aveva tuttavia seguito la via della predicazione, come aveva fatto il collega. Convertitosi all’Islam, era diventato esperto in esplosivi e si sarebbe anche recato furtivamente nella città per studiarne le difese e meglio progettare l’attacco. Non si tratta di un personaggio di incerto profilo. La stessa rivista dei Cappuccini “Collectanea Francescana” gli dedicò nel numero 64 (1° quadrimestre 1994) un saggio di ben quindici pagine.

Il 12 settembre 1683 infuriò il combattimento. L’esercito cristiano vinse e gli Osmani subirono una grande sconfitta. Grande merito nella liberazione di Vienna fu giustamente attribuito a Marco d’Aviano. Il ricordo di Islam Ahmet Bey svanì immediatamente e anche gli archivi dell’Ordine Cappuccino non conservano tracce.
Non sembri quindi malizioso porsi la domanda:”Se gli Osmani avessero vinto, di chi sarebbe stato il merito?”- “Di Islam Ahmet Bey, naturalmente”, sarebbe la risposta. Come è noto, qualsiasi collocazione tra Dio e Cesare comporta qualche prudenza, non fosse altro che per l’inevitabile duplice pagamento. Anche in questa occasione a pensar male si commette quindi peccato ma si indovina, come è stato autorevolmente sostenuto.
A questo punto sembrerebbe giustificato un dubbio. Un Cappuccino sarebbe stato assegnato all’esercito imperiale quale esperto ed abile coordinatore; un suo confratello avrebbe potuto invece facilitare la conquista di Vienna, facendone saltare le mura con gli esplosivi. Comunque fossero andate le cose, il Papa si sarebbe comunque trovato dalla parte del vincitore!

Vinsero gli Europei e P. Marco fu proclamato Beato nel 2003. Piacerebbe poter affermare che il miracolo, indispensabile per ottenere l’elevazione alla gloria degli altari, avrebbe potuto consistere nell’opera di convinzione del religioso propedeutica alla vittoria stessa. Si pensò, invece, a una prodigiosa guarigione avvenuta nel 1941 per sua intercessione e certificata da eminenti studiosi nonché dal Dott. Ennio Ensoli, il quale espresse, tra l’altro, anche il giudizio conclusivo su un altro prodigio riguardante la miracolata Suor Sergia de Carlo.
Più complicata sarebbero, invece, apparse la procedura di beatificazione per Islam Ahmet Bey e la contestuale scomparsa di Marco d’Aviano dagli archivi dei conventi, qualora avesse vinto Maometto IV. Forse non si sarebbe giunti proprio alla beatificazione, ma la sua opera sarebbe stata comunque sfruttata per altre credenziali presso i vincitori in considerazione della sua appartenenza alle istituzioni religiose.

(Il Piave on line, Conegliano Veneto, 11 agosto 2009)




I L L A V O R O M I N O R I L E N E L L A G R A N D E G U E R R A

“L’opinione pubblica, priva di scrupoloso esame dei fatti, non è nemmeno un’opinione,
è semplicemente un atteggiamento; non suscita riflessioni, è priva di principi e non merita rispetto”
(Mark Twain)

Gli eserciti combattenti abbisognavano di grandi rifornimenti nel quinquennio 1914 – 1918. Il fronte si trovava spesso in zone impervie prive di vie di comunicazione. Retrovie e fortificazioni dovevano essere adeguate alle esigenze. Il Segretariato Generale organizzò quindi l’assunzione di manodopera civile tramite le prefetture e i comuni. Poiché era stata sospesa la possibilità di emigrare all’estero, il reclutamento ebbe successo. Poter mangiare tutti i giorni e percepire un compenso in denaro erano motivi di attrazione. Non si dimentichi che le famiglie dei richiamati alle armi perdevano il diritto al sussidio appena un figlio compiva dodici anni.
Ogni gruppo era composto da trenta lavoratori coordinati da un caposquadra. Il contratto prevedeva un periodo di tre mesi, un orario dalle 6 alle 12 ore giornaliere, una retribuzione tra le 3 e le 8 lire l’ora oltre a vitto e alloggio. Dall’estate del 1915 furono impiegati anche ragazzi dai 15 ai 17 anni. L’età fu successivamente ridotta di ulteriori due anni. Non mancavano ragazzi di 10 e 12 anni. La paga oscillava tra i 10 e i 20 centesimi l’ora e le condizioni di lavoro erano severissime: si trattava di un vero e proprio altro esercito impiegato nella preparazione di trincee, strade, servizi logistici, campi di aviazione, trasporti di viveri e materiali, rimozione della neve dalle strade dirette al fronte, taglio di legname. Ogni insubordinazione veniva punita duramente. Bastava il sospetto di fraternizzazione con elementi socialisteggianti per dare adito a bastonature, pestaggi, legature e carcerazione preventiva, nonché per la denuncia a tribunali militari. Comparve allora l’accusa di rivoluzione passiva, termine peraltro già introdotto da Vincenzo Cuoco.- Molti adolescenti furono impiegati nei lavori di canalizzazione ai fini di consentire il rifornimento via acqua le truppe schierate sul Piave e la popolazione della provincia di Venezia.
Nelle zone montane si fece ricorso anche al lavoro di bambine e ragazze. La loro retribuzione giornaliera poteva raggiungere anche le tre lire per dieci ore di lavoro in condizioni estreme. Trattandosi di maestranze locali, non sussisteva tuttavia il diritto al vitto gratuito. L’età minima di assunzione era di 13 anni, ma non mancarono bambine di appena 11 anni.
In tale contesto si inquadra il caso delle “portatrici carniche”. In certe “zone di guerra” il trasporto (30 – 50 chili di viveri, reticolato, vestiti, pagliericci…) poteva essere effettuato soltanto a spalla. Si può dire che non pochi rifornimenti alle truppe furono assicurati da maestranze femminili. Le “portarici” divennero un’immagine retorica di patriottismo, peraltro decaffeinata dal maschilismo fascista. I riconoscimenti per il supposto esempio di buona educazione coloniale giunsero soltanto nel 1978, dopo l’accertamento che le superstiti erano pochissime e che quindi si poteva concedere loro il titolo di “Cavaliere di Vittorio Veneto” con la relativa, simbolica indennità. Si parlò di spontanea dedizione a una patria lontana di cui esse non avevano la minima idea, ma la realtà fu diversa. A nessuno piace rischiare la vita lavorando in zone di guerra. Suvvia: c’erano sia il comprensibile bisogno di guadagnare qualcosa, sia la precettazione forzata italiana specialmente in Cadore!- Lo dimostra il fatto che, dopo la disfatta di Caporetto nel 1917, le stesse portatrici prestarono spesso e volentieri servizio per l’armata austro-ungarica in condizioni difficilissime, conseguenti anche alle devastazioni operate dalle truppe italiane in ritirata. Non si potrebbe, infatti, spiegare con lavori forzati l’esecuzione di talune opere stradali, come il tratto Trichiana – Tovena attraverso il Passo di San Boldo.- Per altre categorie vigeva invece un’altra forma di reclutamento più dirigistico, che riguardò 72.000 lavoratori per 129 giornate ciascuno. Le nuove condizioni di lavoro non furono tuttavia migliori del trattamento precedentemente offerto dall’esercito italiano. L’Austria-Ungheria era in gravi difficoltà alimentari e il vitto era diventato precario. La retribuzione perdeva, inoltre, potere d’acquisto a causa della svalutazione. La “Reale Commissione di inchiesta sulla violazione al diritto delle genti commesse dal nemico”, disposta dal Governo italiano, non mancò di evidenziare le carenze. Tra le irregolarità riscontrate figurarono proprio la punizione di ogni atto di insubordinazione e l’utilizzo di civili in zona di guerra, eventualità proibita dalla Convenzione dell’Aja. Gli ispettori erano esperti in tale settore, avendo essi stessi per primi sistematicamente contravvenuto alle norme internazionali e alle consuetudini comuni durante ogni conflitto. Il proverbio dice che il potere perde il lupo ma non il vizio, o qualcosa di simile. Si sa:”Con i nemici le leggi si applicano; con gli amici le leggi si interpretano”, aveva sostenuto Giolitti.

S T A T O E N A Z I O N E

Il 17 marzo 2011 sarà celebrata la nascita dello Stato Italiano, cioè di un fatto politico ed istituzionale e pertanto soggetto alle mutazioni politiche ed istituzionali che la storia produce. Non è la prima volta che si festeggia. Nel 1966 ci fu il 100° anniversario dell’annessione del Veneto. Le date sono esatte: 1896 – 1866, un secolo. Fu allora emesso un francobollo commemorativo da £. 40.- Se la seconda guerra fosse terminata in un modo diverso da come avvenne, sarebbero senz’altro, per esempio, coinvolte nei festeggiamenti del 2011 anche Somalia, Libia, Etiopia, Istria, isole greche…, per le quali i 150 anni non risultano in alcun modo (1870, 1898, 1911, 1935…: aggiungendo a queste date 150, risulterebbero 2020, 2048, 2061, 2085…, ma mai 2011).- La storia ha invece disposto diversamente e il problema per le ex colonie non si pone. Diverso è il caso del Veneto, del Lazio e del Trentino/Südtirol. I 150 anni dall’annessione all’Italia cadrebbero rispettivamente nel 2016, 2020 e 2069. Nel 2011 non ci dovrebbe quindi essere alcun coinvolgimento, se la matematica non è un’opinione. Se nel 2011 si festeggia i 150 anni trascorsi dalla data di un avvenimento, questo fatto deve essere accaduto per forza nel 1861.

L’appartenenza propedeutica delle attuali regioni al contesto politico italiano è insostenibile sia geograficamente sia storicamente. Alcuni territori non appartengono alla penisola, ma sono continentali a tutti gli effetti: i popoli di acqua dolce non appartengono a una penisola!- Da sempre alcune regioni furono inoltre monarchie dinastiche (Regno delle Due Sicilie, Regno di Sardegna, Ducati e Granducati) o elettive (Regno della Chiesa), mentre la Serenissima fu sempre una repubblica. Il Veneto appartenne poi al Regno Lombardo – Veneto, ma si trattava di una realtà asburgica come quella di Vienna, Cracovia e Budapest, non italiana.

Poiché l’ipotesi statale non regge, si tenta di supplire con l’affermazione che l’Italia esisteva molto tempo prima come Nazione, cioè come fatto di cultura. Si pesca nei secoli XII e XIII, e anche prima, per fissare una unitaria realtà di coscienza e di lingua nella letteratura. Sia chiaro: il principio dovrebbe riguardare soltanto l’unità d’Italia, ignorando altre simili situazioni (Alsaziani, Lorenesi, Catalani, territori contigui a Belgio, Olanda e Danimarca, Sudtirolesi, Sloveni del Friuli…- La lingua sarebbe il cemento della nazione italiana. L’indicazione dei critici italiani sembrerebbe a prima vista incontestabile, ma così non è. San Francesco, il misterioso Cielo (Ciullo) d’Alcamo, il Dolce Stil Novo… sono segmenti degni del massimo rispetto, ma non evidenziavano coesione e convergenza di pensiero in tutto lo Stato. I contemporanei Poeti provenzali, provenienti dalla regione tra la Durenza, il Rodano, le Alpi e il mare, erano altrettanto determinanti nonché pionieri della lirica in volgare. Il loro fu un successo europeo. Lo prova l’antologia provenzale-veneta raccolta per Alberico da Romano da Uc de Sain-Circ, contenente 1045 poesie trovadoriche. Sordello da Goito, pure contiguo ai da Romano, realizzò pregevoli composizioni in lingua provenzale. Importanti furono Percivalle Doria, Lanfranco Cigala, Bonifacio Calvo, Rambertino Buvatelli, Bartolomeo Zorzi. La Scuola siciliana contava su Jacopo da Lentini, Stefano Protonotaro, Pier della Vigna, Guido delle Colonne, Ronaldo d’Aquino, Giacomo Pugliese. La scuola non li nomina mai, vero?- Forse perché non scrissero in toscano, ma in vernacolo. Verna era infatti lo schiavo nato da una schiava nella casa del padrone.- Qualora fossero inoltre pervenuti documenti sui trovatori Obizzo Bigolino e Ferrarino Trogni, rispettivamente trevigiano e ferrarese, disporremmo forse di importanti elementi su quella che era chiamata “Ars nova”, sviluppatasi poi a Firenze soltanto nella seconda metà del 1300. Gaia (1270 – 1311) e Beatrice da Camino promossero la poesia provenzale nelle corti caminesi. Cangrande della Scala (1291 – 1329) fece altrettanto presso la corte scaligera. E si potrebbe continuare. L’inclusione della poesia provenzale nella letteratura italiana, magari considerandola quale catalizzatore della nazione italiana, equivarrebbe a sostenere che quell’arte fu contemporaneamente comune a due diverse nazionalità: francese e italiana. Una contraddizione in termini.
Un poco più a nord si sviluppava la grande produzione poetica di Walther von der Vogelweide (1168 – 1228) e Oswald von Wolkenstein (1377 – 1445), destinata a espandersi fino ad Aquileia e in Germania. Ma entrambi scrissero soltanto in medio alto tedesco!- Ancora un poco verso oriente troviamo in Friuli Tommasino dei Cerchiari (1216 – 1238), ma anche questo poeta scrisse esclusivamente in medio alto tedesco. Si noti come sia stato possibile includere successivamente le rispettive regioni nello Stato, ma queste rimarrebbero comunque escluse dalla configurazione nazionale italiana. Una bella confusione.

Una lingua comune, veicolo della letteratura, fu in realtà inesistente. Le parole sono infatti contenitori di cultura che sommano quasi tutte le loro origini. L’anima consiste nelle parole e nel come esse vengono pronunciate, nel loro suono e voce. La lingua parlata non è una funzione, ma un organo dell’essere umano. Oltre alle parlate neoromanze soffuse di longobardismi e attualmente confinate nell’oralità, erano floridi nel Medioevo l’occitano, il ladino dolomitico e orientale friulano (che non hanno ancora esaurito la loro vitalità), le parlate walser, mochene, cimbre…- Se ora qualcuna di queste lingue si scrive nuovamente, si tratta di una neo-lingua, cioè di una letteratura non menzognera.
La lingua toscana si è poi imposta in tempi recenti, ma essa non era altro che il dialetto di Firenze (cui appena possibile non fu risparmiato il destino di passare da Capitale a semplice Prefettura), come in Francia il francese era il dialetto di Parigi (conservata come Capitale). Nel 1860, fuori di Toscana, meno del 6% parlava italiano (Tullio De Mauro). Le differenze linguistiche in Italia esistono ancora. Si passa con disinvoltura dalle incomprensibili “convergenze parallele”, agli ineffabili cartelli sulle porte di alcune presidenze scolastiche o di ristoranti durante la pausa di mezzogiorno:“Il Preside è fuori posto” e “Chiuso per pranzo”, a seconda dei casi.. Non si spiegherebbe altrimenti come i film “Gomorra” e “Bagheria” siano stati provvisti di sottotitoli. Notevole risultato di unità interna operata dalla lingua costituisce intanto anche l’affermazione pubblica della vincitrice di un importante concorso nazionale di bellezza:” Ho fatto un zogno”. Pazienza. Il proverbio dice che val più la natica che la grammatica, o qualcosa del genere.
La ricerca di origini nazionali basate sulla lingua fin dal 1200, magari integrata da una innaturale prospettiva di omogeneizzazione delle corde vocali, appare pertanto colma di incertezze. In ogni caso i popoli non avevano alcuna coscienza della categoria culturale, cui i loro linguaggi, magari intrisi di espressioni adenoidi, appartenevano. Tanto varrebbe addurre il pretesto di una religione comune per estendere a estranei i tratti di uguaglianza che non posseggono, ma che potrebbero diventare politicamente utili a qualcuno. I sostenitori di certe crune senza ago sembrerebbero vecchi zii bisognosi di aggiornamento. Platone sostiene infatti, nella parte finale del “Fedro”, che il vero mezzo di comunicazione non è lo scritto, bensì l’oralità. La scrittura può ospitare l’la comunicazione orale. Non sembri esagerato pensare che, se “il linguaggio è una finestra per analizzare idee che hanno radici più profonde del linguaggio stesso”, cioè precedenti perfino alle proclamazioni degli Stati, una finestra rappresenta spesso anche la migliore via di fuga per uscire da situazioni di disagio.

Le celebrazioni del 2011 possono avere luogo, se esistono i finanziamenti, ma sarebbe necessario che anche la scuola, come parte della stampa ha fatto, si mobilitasse per chiarire alla gioventù alcuni aspetti:

- La proclamazione del Regno d’Italia il 17 marzo 1861 fu effettuata in lingua francese e il pretesto di una base linguistica comune viene pertanto a cadere;
- Vittorio Emanuele II entrò a Milano nel 1859 con a fianco l’Imperatore Napoleone III e con alle spalle l’esercito francese in assetto di guerra;
- Giuseppe Garibaldi conquistò il Regno Borbonico e dichiarò già nel 1860 Salemi prima capitale d’Italia con il sostegno delle navi inglesi, con il denaro della Massoneria internazionale e grazie alla corruzione dei comandanti avversari: tutti ingredienti non italiani;
- Il Veneto fu dato come regalo dai Francesi all’Italia nel 1866. L’Austria rispettava gli accordi internazionali intercorsi, ma rifiutava la cessione diretta della regione agli sconfitti. Le truppe imperiali avevano infatti battuto le truppe italiane (che soltanto dal 1879 si sarebbero poi chiamate “Regio Esercito”) sia a Custoza sia a Lissa. Il comportamento austriaco fu quindi corretto.
- Se la Francia non fosse stata costretta dalla minaccia prussiana a ritirare le truppe destinate alla difesa di Roma nel 1870, la breccia di Porta Pia non ci sarebbe stata.

All’età di 150 anni un Paese dovrebbe essere abbastanza adulto per sapere come sia nato.

(Pubblicato da IL PIAVE ON LINE, ConeglianoV., 22 settembre 2009)

S A N G I R O L A M O D E G L I I L L I R I C I

“Io, infatti, non solo ammetto, ma proclamo liberamente che nel tradurre i testi greci, a parte le Sacre Scritture, dove anche l’ordine delle parole è un mistero, non rendo la parola con la parola, ma il senso con il senso. Ho come maestro di questo procedimento Cicerone, che tradusse il Protagora di Platone, l’Economico di Senofonte e le due bellissime orazioni che Eschine e Demostene scrissero l’uno contro l’altro. Anche Orazio poi, uomo acuto e dotto, nell’Ars poetica dà questi stessi precetti al traduttore colto:”Non ti curerai di rendere parola per parola, come un traduttore fedele”. (Epistulae, 57,5).


Quando un personaggio diventa famoso, parecchie località proclamano la loro contiguità con la sua vita, a cominciare dalla nascita. È così anche per S. Girolamo. Potrebbero essere prese in considerazione perfino la città di Esztergom/Strigònia-Gran (a metà strada tra Komaròm e Budapest) e il paese di Grahovo (Bosnia). Esztergom ha una cattedrale che compete con San Pietro a Roma, è sede del Primate d’Ungheria e fu pesantemente coinvolta nella guerra contro i Turchi del 1683, nella quale fu protagonista Marco d’Aviano. Anche l’architetto cenedese Marco Casagrande (1804 – 1880) vi si prodigò al meglio con la sua arte. Sue erano infatti le statue dei santi alte sei metri presso la basilica primaziale di Esztergom, attualmente non più visibili poiché costruite con una pietra inadatta. La sua consorte ungherese divenne poi valida e stimata maestra dei bambini di Miane in provincia di Treviso. Le strade Ongaresche e Schiavonesche erano veramente elementi di unione tra le Venezie e l’Est europeo anche se la scuola paracadutata nelle nostre contrade lo ignora. Per esclusione due sarebbero tuttavia i luoghi di nascita del Santo: Stridò e Stridone. Il primo paese si chiama in sloveno “Stročja Ves”; il secondo è “Žrenj” in croato.
Una breve precisazione topografica. Stročja Ves si trova nella Slovenia orientale nei pressi di Ljutomer e nelle vicinanze c’è la località di Strigova.- Žrenj è invece un piccolo paese dell’Istria interna a poca distanza da Buzel (Pinguente). Si tratta di territori oggetto in passato di vari appetiti. Ogni nuovo padrone diventava padrino (non nel senso mafioso, bensì in quello di battezzatore) e imponeva pertanto la toponomastica che gli era gradita. I notari romani e imperiali, scarsi in grafia e fonetica ma forti di vanitosa presunzione, interpretavano a modo loro la dizione delle popolazioni locali. Anche in tempi più moderni si pensi a Ceneda (diventata Vittorio Veneto) o alla sistematica riconversione della toponomastica sudtirolese, che talvolta include anche le eterne montagne con risultati veramente incredibili. Eppure la cartografia conta come la cronologia. Lo spazio conta almeno quanto il tempo.

San Girolamo nacque a Stridone verso il 340 d.C.- Egli era quindi appartenente alla nazione illirica o un “barbaro”, come erano chiamati allora gli abitanti dei territori che non disponevano di città eterne e dove non vivevano romani e cristiani, ma soltanto romanizzati e cristianizzati. Dovette appartenere a una famiglia piuttosto benestante, se potè recarsi a Trier (Germania) per imparare il latino presso quel convento. Tale circostanza giustifica il desiderio di sapere quale lingua egli parlasse. Si sa bene come funzionano certi studi all’estero. Se un giovane va, per esempio, a Londra o a Berlino per imparare l’inglese o il tedesco in una pizzeria, apprenderà una lingua vesuviana, ma non quella di Shakespeare o di Goethe. Così andò con il latino di S. Girolamo. Il giovane venne quindi mandato a Roma, dove conobbe e censurò la corrotta esistenza della città. A circa 20 anni fu battezzato. Se si era convertito, significa che egli non era cristiano, ma pagano. Erano tempi di aspre contese tra l’Imperatore Costanzo, sostenitore dell’Arianesimo, e il Papa Liberio, difensore dell’ortodossia proclamata nel Concilio di Nicea. Era anche l’epoca successiva a una nuova fase della storia imperiale romana. Nel III secolo si erano infatti succeduti parecchi Imperatori illirici, imposti talvolta con mezzi spregiudicati dai propri soldati: Decio (249-251 d.C.), Aureliano (270-275d.C.), Aurelio Probo (276-282 d.C.), Diocleziano (284 d.C.).- Proprio ai tempi di S. Girolamo ci fu un notevole episodio che evidenziò il protagonismo degli Illirici. A Rimini doveva essere ricostruito un ponte. Dall’isola illirica di Rab (Arbe) giunsero allora alcuni esperti tagliapietre. Tra questi c’era il pagano Marino, che si convertì e venne poi ordinato diacono presso Urbino. Egli si ritirò, insieme ai suoi compagni, sul monte Titano dove visse da eremita. La sua fama e i suoi prodigi attirarono nella zona una gran massa di pellegrini, i quali formarono gradualmente una significativa comunità di gente industriosa e pacifica, concretatasi col tempo nella Repubblica di San Marino.

L’irrequieto S. Girolamo frequentò assiduamente Aquileia ma successivamente, dopo essere stato ordinato sacerdote in Antiochia nel 374, condusse una vita da eremita nel deserto della Siria e dedicò il suo tempo allo studio delle Sacre Scritture. Ci fu un ritorno a Roma, dove fu segretario di Papa Damaso, ma alla morte del Pontefice egli ritornò in Oriente. La morte lo colse nel 419 (o nel 420) a Betlemme in età considerata molto avanzata per quei tempi.

Le capacità intellettuali di S. Girolamo furono eccezionali. Egli tradusse in latino la Bibbia nella configurazione che poi sarebbe stata denominata Vulgata e che soltanto nel XX secolo fu sostituita da altre traduzioni. Papa Damaso gli affidò poi, nel 390, la revisione dei testi dei Vangeli. Numerosi furono i trattati scritti da S. Girolamo, tra i quali il “De viribus illustribus” e “Adversus Iovinianum”. Il Santo appartenente alla stirpe illirica e intransigente oppositore del consumo di carni, dovette essere di temperamento piuttosto forte. Di lui rimane infatti la frase irascibile: “Parce mihi domine, quia dalmata sum”.- Bisogna chiarire che cosa si debba intendere per Illiria. Tra le varie definizioni consolidate fin dal V secolo a.C. sembra più verosimile quella risalente al periodo augusteo. Con il termine Illyrioi si designavano numerose popolazioni residenti tra l’Adriatico e le Alpi, dalle foci del Timavo fino al fiume Drin. Il Regno Illirico fu diviso soltanto nell’anno 8 d.C. tra la Pannonia e la Dalmazia. Ricomparve nell’antica dizione di Regno Illirico nel periodo asburgico, cioè nel 1816. La sua configurazione sarebbe stata: Carinzia occidentale,Carniola, Istria, Croazia sino a Zagabria e Sisak, Dalmazia sino alle Bocche di Cattaro. Il termine Illiria ebbe anche rilevanza religiosa: il Vescovo di Gorizia fu nominato “Metropolita d’Illiria nel 1830). Gli Illiri furono gli antenati degli Slavi meridionali e matrice dei Veneti Antichi (Mitja Guštin, Università di Koper/Capodistria). Ciò può contribuire a superare alcune eventuali confusioni.

Una conferma che Žreni/Stridone (in dialetto “Sdegna”, situata nel triangolo Aquileia, Lubiana, Quarnero) sia stato il paese natale di S. Girolamo, proviene dal fatto che il personaggio fu spesso a Aquileia, Concordia e Altino. Le indicazioni che egli fosse di origine dalmata o quasi ungherese non sono perciò fondate. Non è certo che cosa nell’antichità si intendesse per Dalmazia e Pannonia. La cartografia era piuttosto un “sentito dire” oppure una copiatura di errori precedenti.- Secondo A.H.M. Jones la Dalmazia confinava con l’Istria interna (Gli Illiri e l’Italia, Fondazione Cassamarca, pag. 61).- Ancora meno attendibile è l’insinuazione che Stridone appartenesse al lembo orientale d’Italia proteso verso la Pannonia e la Dalmazia, come sostenuto da taluni nazionalisti che sembrano vecchi zii bisognosi di aggiornamento. Oltre sedici secoli fa non si poteva parlare di Italia. Suvvia!-Allo stesso modo si potrebbe allora sostenere che Stridone appartenesse all’Impero Asburgico, ma anche tale realtà storico-politica non esisteva ancora.

Due sono le iconografie principali di S. Girolamo. Nella prima egli compare nell’abito cardinalizio e con il libro della Bibbia. Nella seconda il Santo è nel deserto, senza abiti lussuosi e con il cappello cardinalizio gettato per terra. Sono anche spesso presenti un leone (cui S. Girolamo avrebbe estratto una spina dalla zampa), un teschio e un crocifisso.
I resti mortali di S. Girolamo sono conservati nella chiesa romana di Santa Maria Maggiore.
Egli è il patrono degli archeologi, dei bibliotecari, dei traduttori e degli studiosi in genere. La sua festa ricorre il 30 settembre.

A Žrenj/Stridone si parla un linguaggio croato di remota origine con infiltrazioni slovene e italiane. La località è attualmente poco sviluppata, ma nei secoli precedenti dovette avere avuto una certa rilevanza grazie all’attività di agricoltori, tessitori, falegnami, fabbri. Fin dal medio evo esisteva, tra l’altro, un’importante statua lignea di S. Girolamo nella chiesa omonima. È probabile che l’immagine sacra sia stata trasferita successivamente in un capitello situato a Vertazza, da dove sparì misteriosamente e definitivamente in occasione della nota partenza di intere famiglie dopo la seconda guerra mondiale. Poiché anche preziosi e antichi paramenti, argenteria di un certo valore e oggetti d’oro di varia foggia e dimensione sono contemporaneamente, e altrettanto enigmaticamente, scomparsi da non poche chiese, non sembri esagerato pensare anche a una variante nella definizione di quelle stesse partenze.

(Il Dialogo, Oderzo, ottobre 2009)




MARCO DAVIANO E LA SALVEZZA D'EUROPA

di Nerio de Carlo

Non ci si pensa mai. Tuttavia, se la seconda guerra mondiale fosse terminata in maniera diversa, taluni protagonisti sarebbero stati fatti probabilmente beati e santi.- Una situazione del genere potrebbe essersi verificata 262 anni prima, vale a dire all’epoca del secondo assedio turco di Vienna.

Il 1 aprile 1683 si mosse la spedizione militare osmana contro Vienna. La comandava il Sultano Maometto IV. I contingenti erano giunti da tutta la Turchia, dall’Alta Mesopotamia, dal Delta del Nilo, dai Balcani e perfino dal sud-ovest della Russia. Le truppe dell’Imperatore Leopoldo I d’Asburgo, benché prive di artiglieria, erano state allertate. I comandanti erano tuttavia discordi e gelosi. La Francia parteggiava per gli Osmani. Il Papa esprimeva la propria preoccupazione, ma tollerava che il cardinale di curia Aleramo Cibo tramasse con gli avversari. I Principi cristiani e Venezia stessa erano titubanti.
L’Imperatore Leopoldo chiese allora consiglio a Padre Marco d’Aviano. Il frate incontrò il regnante il 1 settembre 1683 a Linz. La prospettiva appariva praticamente disperata per il Sacro Romano Impero. Vienna era assediata dagli Osmani e funestata da fame, paura, epidemie. La capitale sarebbe caduta entro breve tempo.
Contro ogni previsione Padre Marco riuscì a portare la concordia tra i condottieri cristiani, aggiungendo nuovi contingenti polacchi guidati dal Re Jan Sobieskj. L’esercito imperiale poteva contare su 70.000 combattenti e la battaglia per la liberazione di Vienna poteva cominciare. Del frate friulano si può a ragione dire che “seguì la croce senza vantarsi di averla portata”, come si legge nella targa stradale della via a lui dedicata a Conegliano Veneto.
Si cerca di far passare la notizia sotto silenzio, ma in quella circostanza c’era, oltre a Padre Marco, un altro religioso sotto le mura di Vienna: Islam Ahmet Bey. Il nome non deve trarre in inganno. Si trattava infatti di un frate cappuccino coetaneo di P. Marco, appartenente alla stessa Provincia Veneta e probabilmente con pronuncia dei voti contemporanea a quella dell’avianese. Egli non aveva tuttavia seguito la via della predicazione, come aveva fatto il collega. Convertitosi all’Islam, era diventato esperto in esplosivi e si sarebbe anche recato furtivamente nella città per studiarne le difese e meglio progettare l’attacco. Non si tratta di un personaggio di incerto profilo. La stessa rivista dei Cappuccini “Collectanea Francescana” gli dedicò nel numero 64 (1° quadrimestre 1994) un saggio di ben quindici pagine.


Il 12 settembre 1683 infuriò il combattimento. L’esercito cristiano vinse e gli Osmani subirono una grande sconfitta. Grande merito nella liberazione di Vienna fu giustamente attribuito a Marco d’Aviano. Il ricordo di Islam Ahmet Bey svanì immediatamente e anche gli archivi dell’Ordine Cappuccino non conservano tracce.
Non sembri quindi malizioso porsi la domanda:”Se gli Osmani avessero vinto, di chi sarebbe stato il merito?”- “Di Islam Ahmet Bey, naturalmente”, sarebbe la risposta. Come è noto, qualsiasi collocazione tra Dio e Cesare comporta qualche prudenza, non fosse altro che per l’inevitabile duplice pagamento. Anche in questa occasione a pensar male si commette quindi peccato ma si indovina, come è stato autorevolmente sostenuto.
A questo punto sembrerebbe giustificato un dubbio. Un Cappuccino sarebbe stato assegnato all’esercito imperiale quale esperto ed abile coordinatore; un suo confratello avrebbe potuto invece facilitare la conquista di Vienna, facendone saltare le mura con gli esplosivi. Comunque fossero andate le cose, il Papa si sarebbe comunque trovato dalla parte del vincitore!


Vinsero gli Europei e P. Marco fu proclamato Beato nel 2003. Piacerebbe poter affermare che il miracolo, indispensabile per ottenere l’elevazione alla gloria degli altari, avrebbe potuto consistere nell’opera di convinzione del religioso propedeutica alla vittoria stessa. Si pensò, invece, a una prodigiosa guarigione avvenuta nel 1941 per sua intercessione e certificata da eminenti studiosi nonché dal Dott. Ennio Ensoli, il quale espresse, tra l’altro, anche il giudizio conclusivo su un altro prodigio riguardante la miracolata Suor Sergia de Carlo.
Più complicata sarebbero, invece, apparse la procedura di beatificazione per Islam Ahmet Bey e la contestuale scomparsa di Marco d’Aviano dagli archivi dei conventi, qualora avesse vinto Maometto IV. Forse non si sarebbe giunti proprio alla beatificazione, ma la sua opera sarebbe stata comunque sfruttata per altre credenziali presso i vincitori in considerazione della sua appartenenza alle istituzioni religiose.


Nerio de Carlo
Pubblicato da "Piave" in data Domenica, 09 Agosto 2009


LE NAZIONI SONO TUTTE, STORICAMENTE, COMUNITÀ INVENTATE. ESISTONO O NON ESISTONO A SECONDA DI QUANTI CREDONO, O NON CREDONO, ALLA LORO ESISTENZA.

(ANGELO PANEBIANCO, CORRIERE DELLA SERA 24 GIUGNO 2010, PAG. 1)


A quanto risulta l’Italia è l’unico Paese che si considera “risorto”. Il fenomeno è noto come “Risorgimento”. In considerazione delle millenarie tradizioni cristiane, sorprende tuttavia che non si parli di “Resurrezione”. Ma forse il brevetto del termine appartiene a tutt’altra realtà.

La stampa e la scuola straripano di informazioni sul 2011 quale 150° anniversario dell’unità d’Italia. Tutto lascia prevedere un crescendo di precettistica e di egemonia sottoculturale.
Se, come sembra, si prende come comune denominatore temporale il 17 marzo 1861, tale data maggiorata di 100 anni ci portò già al 1961. La benedizione del Pontefice attribuì allora l’evento nientemeno che a un disegno della Provvidenza.- Qualora, però, si considerino altri riferimenti, i conti non tornano.
Come premessa si può intanto ricordare che l’Italia fu l’unico Paese d’Europa (e non solo dell’area cattolica), la cui unità nazionale sia avvenuta in aperto, feroce contrasto con la propria Chiesa nazionale.- L’unità non la vollero i Borboni, il Papa, l’Austria, Cavour e i popoli interessati (i plebisciti ottocenteschi non furono certamente vox populi!). L’unità piacque soltanto al Re di Sardegna.
Dal punto di vista politico non bisognerebbe dimenticare gli Accordi di Plombiers (1858). Essi prevedevano un assetto territoriale in Italia tutt’altro che sfavorevole. Fu promessa una cosa e ne venne invece rifilata un’altra!- Per la verità dei fatti, gli Accordi di Plombiers erano destinati a rimanere segreti. L’Austria non era stata quindi informata e si giunse un anno dopo alla guerra del 1859, che sancì l’annessione della Lombardia al Regno di Sardegna.- Le trattative continuarono epistolarmente e con buone prospettive tra gli Imperatori Francesco Giuseppe e Napoleone III. Il Veneto doveva diventare un Granducato indipendente come il Lussemburgo.

Il Veneto, appunto!.
Sia consentita una retrospettiva. Si tratta intanto di una terra morfologicamente singolare e sempre sul filo del rasoio: quando vincono i monti, diventa terra; quando vincono i fiumi, diventa mare. Qualcosa che insomma c’è e non c’è: un’utopia, un non luogo come le stazioni ferroviarie, i supermercati, gli aeroporti, le scuole, le chiese, i giardini pubblici…con tutte le caratteristiche che appartengono al “non luogo”.
La Regione non ha città eterne. Nonostante l’ostinata osmosi essa non è, inoltre, ancora ostaggio della criminalità organizzata e delle gravità connesse. Qualora ciò sembri poco significante dal punto di vista dell’identità generalizzata, si aggiunga pure che il Veneto non appartiene nemmeno geograficamente alla penisola mediterranea, bensì all’Europa continentale. Affermare il contrario significherebbe pretendere che Slovenia, Croazia e Albania siano terre mediterranee. Il Censis ha effettuato una ricerca, dalla quale è risultato che la maggior parte degli abitanti del Veneto si sente più europea che mediterranea (Il Venerdì di Repubblica, 14 maggio 2010). Corretto sarebbe anche parlare più ampiamente di un Alto Adige e di un Basso Adige. Si fa tanto per accentuare la singolarità dei Mari Tirreno e Jonio ben differenti dal generalizzato Mediterraneo. Perché ciò non dovrebbe valere anche per la sommità del Mare Adriatico?- Per il semplice motivo che vi furono da sempre Due Sicilie ma un solo Veneto?- Non basta. È destino delle terre vicine ai confini sentirsi, specialmente in occasioni storiche favorevoli, più affini a contigue realtà prive di parassitismo, estorsione e corruzione, piuttosto che a lontani sistemi male amministrati e accentratori.

La storia veneta affonda le proprie radici nella civiltà paleoveneta, cioè nella parte finale dell’epoca del bronzo. La popolazione era illirica. Non fu mai latina, ma soltanto latinizzata. Sarà un dispiacere per quanti non conoscono la storia e la linguistica, oppure appartengono al nazionalismo estremo, apprendere che i primi abitanti si chiamavano Sloveneti. Siccome nell’antichità si scriveva soltanto in latino, cui il gruppo “slo” era sconosciuto, il prefisso è caduto. La provocazione non deve suscitare incredulità. Anche l’etnico Vitalia ha perduto col tempo la “V” ed è rimasto Italia.- Numerosi toponimi (le realtà più difficili da dimenticare e cancellare!) testimoniano l’antico insediamento illirico: Livenza (da “livnica” = corso d’acqua), Lozzo (da “loče = prato in valle), Vas (= villaggio), Visnà (da “vicina” = luogo elevato), Calalzo (da “kalЪ” = fango terapeutico), Postioma (da “Postime” = luogo di sosta)…-
I Romani non conquistarono mai il Veneto. La cultura latina vi penetrò per osmosi, come attualmente avviene con l’inglese. L’epigrafia lo conferma. Nelle numerose lapidi in latino rinvenute i personaggi hanno solitamente due nomi, quindi erano “barbari” . Se fossero stati romani ne avrebbero avuti tre. Il Veneto conobbe numerose migrazioni dai Paesi d’Oltralpe, specialmente al tempo di Re Berengario nell’VIII° secolo. Una miriade di toponimi lo testimonia. Nemmeno sotto il dominio di Venezia, quando prevaleva la “ragion di mercatura” sulla “ragion di stato”, la Regione fu soggetto, bensì oggetto, di politica. Al tempo delle “invasioni turchesche” si verificarono grandi devastazioni. Venezia stessa si sentì in pericolo. Il Senato commissionò allora nel 1532 una costosissima corona a forma di tiara tempestata di pietre rare e perle preziose, attualmente conservata nel Museo Metropolitano dell’arte di New York. Essa sarebbe servita ad accogliere Solimano il Magnifico e incoronarlo Imperatore!-
Le ottocentesche possibilità insite nel Regno Lombardo-Veneto non furono colte. Allo stesso modo non vengono attualmente percepite le opportunità derivanti dalla collocazione del Veneto nella Unione Europea. Non desti meraviglia se non si riscontrano istanze autonome, ma piuttosto accettazione di proposte eterodirette, spirito di rinuncia, subordinazione e autocensura lungamente coltivato dai Poteri e non ancora superato. Anche le tradizioni, compresa quella culinaria, appaiono sbiadite: nelle trattorie veneziane è raro trovare il “brodetto” e il “baccalà alla vicentina” diventa meno frequente perfino nelle zone beriche.- Non risulti incomprensibile la vistosa assenza autoctona nelle pubbliche amministrazioni, nell’istruzione, nella giustizia e in altri settori, considerata grave in un contesto di valida imprenditorialità. Una conversazione recentemente udita su un autobus in Provincia di Treviso tra una madre in visita al figlio da poco trasferitosi, lamentava:”Sono già sette mesi che sei qui e non sei ancora diventato né assessore comunale né comandante dei vigili urbani!- Ricordati che anche i cugini in paese aspettano da te una sistemazione nel Comune dove abiti!”-
Il pretesto unitario non ha mai spiegato in che cosa consista il male, se bravi giovani del luogo sono in maniera più significativa maestri dei ragazzi del proprio paese, segretari dei propri Comuni, responsabili di reparti ospedalieri…- Risulterebbe invece che in altre Regioni ciò sia normale e che candidature esterne siano addirittura impensabili.- J.W. Goethe recensì il fenomeno nelle sue “Impressioni su Venezia”:”Fu puro caso che i Veneziani divenissero in seguito scaltri mentre tutto il mondo settentrionale era ancora nell’incoscienza”.- Gli fece eco in altra maniera il contemporaneo Enzo Bettiza nel Corriere della Sera del 2 aprile 2010:”Una cosa è essere europei di lingua italiana, piuttosto che italiani di lingua toscana”.


Nel 1866 Francia, Italia e Prussia si accordarono per una guerra contro l’Austria: sarebbe bastato che uno dei tre avesse vinto una battaglia contro l’Austria e il Veneto sarebbe stato ceduto all’Italia.- Ci provò l’esercito italiano, ma il 24 giugno 1866 subì una pesante sconfitta a Custoza. Poi fu la volta della marina italiana, ma anche questa venne sbaragliata il 20 luglio dello stesso anno presso l’isola di Lissa. Su questo fronte non era dunque il caso di parlare di vittoria.- Diversa era invece la situazione nell’attuale Repubblica ceca. Presso Sadowa (Königsgrätz) i Prussiani avevano vinto il 3 luglio 1866. Il 19 ottobre 1866 il Veneto passò quindi all’Italia. Tasto nero nel pianoforte della Storia e della sua logica.- L’autore e giornalista Indro Montanelli scrisse nella sua “Storia d’Italia” che l’annessione del Veneto, colpa di pigra inerzia e di pigra sorte, fu una cosa forzosa. Un poco come successe per Slovenia e Croazia, quando nel 1945 si trovarono a far parte della nuova Yugoslavia per intervenuti equilibri e impreviste forzature politiche.

Viene ora spontaneo chiedersi che cosa c’entri il Veneto con il 150° anniversario dell’unità d’Italia. Se l’aritmetica non è un’opinione, 1866 + 150 fa 2016. Le celebrazioni nel 2011 sarebbero una “cosa forzosa”, ripeterebbe Indro Montanelli.
Lo stesso si può dire per Roma, che fu occupata dall’esercito italiano il 20 settembre 1870.- Si faccia pure la somma “1870 + 150”: risulterà 2020.- Ancora più evidente risulterebbe la “cosa forzosa” nei confronti delle terre trentino-sudtirolesi, occupate dal Regio Esercito alla fine del 1918, quando era già in atto l’armistizio. Qui si arriva nientemeno che al 2068!- Si ha quasi l’impressione che sulla data del 2011 qualcuno si sia portato un po’ avanti col lavoro, ecco.- Vengono di proposito tralasciate nell’esposizione le terre istriane, che si sono però svincolate dall’italianità ad oltranza in grado di sconvolgere perfino le certezze matematiche.

La contraddizione in termini per quanto riguarda le date è evidente. Ma ciò non dipende stranamente soltanto dalla gradualità con cui l’unità del Paese ha preso forma. Il primo Governo italiano anticipò l’Unità al 1848, quando fu proclamato lo Statuto albertino. Nel maggio 1861 una circolare del ministro Marco Minghetti comunicava a tutti i Comuni (esclusi naturalmente quelli veneti, romani e trentino-sudtirolesi) che il Re e il Parlamento avevano fissato alla prima domenica di giugno la “Festa dello Statuto e dell’Unità Nazionale”. Le feste dovevano prevedere una cerimonia religiosa con il canto dell’inno ambrosiano, che non si sa bene che cosa fosse. La mancata partecipazione delle autorità ecclesiastiche sarebbe stata deplorata dal Governo.. Il Sindaco avrebbe potuto sostituire i sacerdoti in chiese di patronato municipale. Le spese devono essere parsimoniose.- Secondo le disposizioni del primo Governo italiano, emanate nel 1861, il 150° anniversario dell’unità d’Italia avrebbe quindi dovuto essere celebrato con “spese parsimoniose” nel 1998 e non nel 2011.- Chiaro?
Non è ancora tutto in fatto di “unità”.- Dopo la proclamazione del Regno d’Italia ci furono sempre due sovrani: i Savoia e il Papa. Al Pontefice competerono infatti ufficialmente gli “onori sovrani” anche dopo il 20 settembre 1870 in forza della Legge delle Guarentigie.- Il simbolo dinastico dell’unità d’Italia era infine la monarchia, rimossa nel 1946 quando essa si era già rimossa da sola.
In altre parole l’unità d’Italia sembrerebbe più facile da raccontare che da digerire.

Le celebrazioni del 2011, pur non avendo giustificazione alcuna, avranno ugualmente luogo in Veneto con denaro pubblico. Ciò non meraviglia affatto. Quando nel 2008 si trattò di commemorare il 90° anniversario della fine della Grande Guerra, furono inserite nei programmi le “Giornate nazionali del mandolino e della musica a plettro”. Proprio così. Con un poco di religione costituzionale organizzata e di buona educazione coloniale sarebbe stato quindi possibile inserire anche una trattazione sul “frinire della cicala e il disturbo della quiete pubblica”. - Nessuna ospitalità per la fine della prima guerra mondiale avrebbero, invece, trovato sia l’autorevole affermazione-sentenza del grande Giuseppe Prezzolini formalizzata nella comprensibilmente introvabile opera “Vittorio Veneto”, sia l’eloquente messaggio del Generale Giacomo Carboni a Vittorio Emanuele III: ”Maestà, se i Tedeschi si ritirano, sono pronto a inseguirli”.



Il monumento
del regime

Nerio de Carlo || Hartmuth Staffler
Il
Prima edizione: dicembre 2010.
Editore: Süd-Tiroler Freiheit
Nerio de Carlo:
Il monumento del regime
ISBN 9788897053026
© 2010 Süd-Tiroler Freiheit
Realizzazione: Effekt! srl, Neumarkt a.d. Etsch/Egna
Illustrazioni: Archivio Elmar Thaler (8, 11, 12, 17, 22, 29, 39, 40); Archivio Günther Obwegs
(41);Archivio Lorenz Puff (10); Archivio Roland Lang (3).
Tutti i diritti riservati, compresi quelli di riproduzione a stampa o elettronica.
Veduta su Bolzano dall’ingresso del Parco Talvera all’inizio del XX secolo.

5
Un misfatto non diventa opera meritoria soltanto
perché per 80 anni lo si indica come tale.
Il cosiddetto monumento alla vittoria di Bolzano è la materializzazione
di una violazione culturale, che a tutt’oggi viene
sostenuta, curata e protetta. Esso è una bugia scolpita nel
marmo, un’offesa sia per la popolazione autoctona, sia per gli
Italiani antifascisti che pensano democraticamente. Esso è
l’immagine del torto fascista e della rapina culturale.
Già la dedica “monumento alla vittoria” è una falsità. Una
vittoria degli Italiani sui Tirolesi non c’è infatti mai stata. Le
truppe combattenti italiane non hanno mai conquistato un
solo metro di suolo tirolese.
La cultura, le leggi e le belle arti non ci sono state certamente
portate dai fascisti. Chi viaggia con gli occhi aperti attraverso
il nostro Paese avverte subito che il Sudtirolo, come del resto
l’intero Tirolo, è un antico e fiorente paesaggio culturale sicuramente
non bisognevole di “beneficenze” fasciste. Ne sono
testimonianza le chiese gotiche, gli altari a portelli, i capolavori
barocchi e gli altri innumerevoli tesori d’arte.
Quando gli Italiani antifascisti e democratici avranno finalmente
il coraggio di svincolarsi da questa contiguità e dimostrare
una volta per sempre che rinnegano la prepotenza e l’umiliazione
fasciste?
Cons. reg. dott.ssa Eva Klotz
Cons. reg. Sven Knoll

7
PREFAZIONE
Questo saggio pone in dubbio la giustificazione di un “Monumento alla
vittoria” senza vittoria. Il lettore cercherebbe inutilmente in queste pagine
chiacchiere e tentativi di legittimazione sia di una coscienza storica comune
sia di un conformismo intellettuale.
Il presente testo è ponderato e documentato, ma esso parteggia anche per
coloro che combattono per la conservazione della propria identità e per la
giustizia.
L’imperatore Carlo V faceva celebrare ogni giorno quattro messe, di cui tre
funebri. Una volta egli ordinò di inscenare nella chiesa il proprio funerale.
Il presunto morto bisbigliò sul catafalco perfino alcune litanie a se stesso,
mentre i presenti versavano lagrime apparentemente commosse.
Dopo il finto funerale l’Imperatore si prese un’insolazione che lo portò alla
morte vera in breve tempo.
Anche i Regimi celebrano ostentatamente i propri riti, come se dovessero
durare per sempre. Poi basta un’insolazione e tutto tramonta. Si dice che
il nostro pianeta si stia surriscaldando a causa di un’insolita attività solare.
Questa novella “insolazione” potrebbe anche riguardare il cosiddetto “Monumento
alla Vittoria”, che è un’opera del Regime.
Max Weber sostenne che i dominatori vogliono sempre influire sulla volontà
dei dominati. Il potere si fonda sul monopolio della forza, ma non può
durare se non ottiene obbedienza attraverso la convinzione.
Le mutazioni politiche, economiche e culturali indicano il monumento di
Bolzano e le sue parole come inadeguati e non convincenti. La forza, come
la bellezza, risulta infatti dall’armonia con l’umanità circostante, concordanza
che in questo caso non risulta.
Nerio de Carlo
8
Stato dei lavori per la costruzione del monumento ai Kaiserjäger prima del 1926.- L’opera avrebbe dovuto recare la scritta:”Il 2.
Reggimento dei Kaiserjäger ai suoi eroi caduti in guerra”. Il progetto non fu ultimato. Al suo posto fu costruito, a pochi metri di
distanza, il monumento italiano alla vittoria.
9
Durante la Grande Guerra il 2° Reggimento Tirolese
dei “Kaiserjäger” era di stanza nella città di
Bolzano. Fu pertanto deciso di erigere un monumento
ai caduti di quel contingente, morti nel
conflitto in corso. Esso doveva sorgere in quella
che allora si chiamava Piazza Talvera e più precisamente
vicino alla parte del ponte rivolta verso
Gries. L’architetto boemo-tedesco Karl Ernstberger,
originario di Malowitz (distretto di Tachau,
Boemia orientale) e discepolo di Otto Wagner,
aveva ultimato i progetti edilizi già nell’estate del
1916. La costruzione iniziò nel 1917 e verso la
fine della guerra essa era praticamente terminata.
L’opera doveva esibire la seguente scritta: ”Il 2°
Reggimento Tirolese dei ‘Kaiserjäger’ ai suoi
eroi caduti in battaglia”.
Dopo la guerra il Comune di Bolzano cercò di
completare il monumento ai caduti. Soltanto
l’iscrizione avrebbe però dovuto essere: ”Eretto e
costruito dal 2° Reggimento Tirolese dei Kaiserjäger
dal… al… Completamento effettuato
dalla città di Bolzano”. Il progetto non poté
tuttavia andare a buon fine perché la situazione
politica si era nel frattempo acutizzata.
Il 24 aprile 1921 i Fascisti aggredirono i gruppi
folcloristici in costume presenti all’apertura
della Fiera di Bolzano. Oltre cinquanta Sudtirolesi
furono feriti a colpi di pistola e con bombe
a mano. Il maestro Franz Innerhofer fu ucciso. I
Carabinieri e la Polizia non intervennero e i responsabili
non furono perseguiti. Nelle settimane
e nei mesi successivi i Fascisti distrussero sistematicamente
lapidi e cartelli stradali che ricordavano
in qualche modo l’Austria. Un completamento
del monumento ai mitici Kaiserjäger non era più
pensabile.
Il 28 settembre 1922 il Governo italiano depose
JULIUS PERATHONER, l’ultimo Sindaco di
Bolzano liberamente eletto. Il 1° ottobre 1922
circa tremila Fascisti provenienti in gran parte dal
Veneto e dall’Emilia-Romagna compirono una
“marcia su Bolzano” e occuparono la scuola elementare
tedesca “Elisabetta”. Il 2 ottobre iniziò
l’insegnamento in lingua italiana e l’istituto cambiò
il nome in “Scuola Regina Elena”. Il parroco
fascista don Paissani celebrò la messa di apertura
ed esortò gli scolari a coltivare l’amore di Dio e
dell’Italia. Nello stesso 2 ottobre i Fascisti occu-
Il monumento
ai Kaiserjäger
10
parono il Municipio, cacciando gli impiegati. Il
3 ottobre il Consiglio Comunale di Bolzano decise
all’unanimità il proprio scioglimento e con
ciò subentrò il commissariamento da parte del
Commissario civile Credaro. Con questo atto
venne a cessare la democrazia a Bolzano e anche
l’idea di ultimare il monumento ai valorosi “Kaiserjäger”
risultò impraticabile.
La costruzione rimase inizialmente allo stato
grezzo. Il 6 febbraio 1926 il dittatore Benito
Mussolini annunciò nel suo discorso in Parlamento
che sarebbe stato realizzato un monumento
a Bolzano in memoria di Cesare Battisti
e di altri martiri. L’opera sarebbe precisamente
sorta “sulle stesse fondamenta predisposte per un
monumento alla vittoria tedesca”. L’affermazione
che un progetto del genere, inteso al ricordo dei
caduti, fosse stato confuso con una vittoria tedesca,
era evidentemente un falso pretesto. La destinazione
dell’opera di Malowitz risultava ed era
in realtà inequivocabile. Alcuni Bolzanini riuscirono
a salvare in tutta fretta i plastici realizzati
dallo scultore Franz Ehrenöfer, asportandoli dalla
costruzione e trasferendoli a Innsbruck, dove
furono ricostituiti sul Berg Isel.
Il 12 luglio 1926, nel decimo anniversario della
morte di Cesare Battisti e Fabio Filzi, ebbe luogo
la posa della prima pietra per il nuovo monumento.
Questo non doveva tuttavia più essere
dedicato ai martiri, bensì alla vittoria italiana
sull’Austria. La costruzione non doveva inoltre
sorgere direttamente sulle fondamenta di quella
precedente, ma spostata di circa otto metri. Il Re
Vittorio Emanuele III presenziò alla cerimonia.
Vennero contemporaneamente murate pietre
provenienti da tre monti particolarmente simbolici
per i nazionalisti italiani: Monte Corno (dove
Battisti era stato catturato), Monte Grappa (conquistato
nel 1918 con enormi perdite umane) e
Monte San Michele (altura strategicamente rilevante
presso il confine italo-sloveno). Per la cerimonia
fu usata una cazzuola d’argento ricavata
dalla fusione di monete austriache. Alla malta fu
Prima stesura del monumento austriaco
effettuata da Karl Ernstberger.
11
aggiunta acqua attinta dal fiume Piave. Il Vescovo
di Trento Celestino Endrici benedisse la prima
pietra, nonostante il clero tirolese avesse inviato
al Pontefice Pio XI un’istanza scritta affinché
non venisse impartita la benedizione ecclesiastica
nel caso di specie.
Subito dopo l’inizio della costruzione del monumento
alla vittoria, e precisamente il 9 giugno
1927, le vestigia del monumento ai “Kaiserjäger”
furono fatte saltare in aria e spianate. Anche
l’antica locanda “Badl” e la famosa “Porta dei
glicini” all’inizio del Parco Talvera furono contemporaneamente
demolite.
L’inaugurazione del monumento alla vittoria avvenne
due anni dopo la posa della prima pietra,
il 12 luglio 1928. Per l’occasione ricomparvero il
Re e il Vescovo di Trento Mons. Endrici. Ventitre
bande musicali sudtirolesi erano state costrette a
partecipare ai festeggiamenti sotto minaccia di
scioglimento.
Alla vigilia dell’inaugurazione del monumento
alla vittoria di Bolzano, l’11 luglio 1928, si erano
incontrati sul Berg Isel i reduci dell’Associazione
“Kaiserjäger – 2° Reggimento” per una commemorazione
dei commilitoni caduti. Erano presenti
presso la tomba onoraria dei “Kaiserjäger”
anche ufficiali degli altri tre Reggimenti del Corpo.
Il Maggiore Tschan, ultimo comandante del
2° Reggimento, ricordò la distruzione del monumento
ai caduti a Bolzano e la sua sostituzione
con un’opera “all’infedeltà e al tradimento”.
Hartmuth Staffler
Lo scultore Franz Ehrenhöfer aveva già realizzato statue per il
monumento ai Kaiserjäger caduti. Esse poterono venire salvate
dalla distruzione e si trovano attualmente sul Bergisel.
12
“È meglio che gli uomini si
chiedano perché non ho una statua,
anziché perché ne ho una”.
[Catone il Censore1]
1 Marco Porcio Catone, Pretore Romano
(59 d.C. – 149 d.C.).
13
*
*
14
15
“Il Monumento alla Vittoria è una spina nel cuore
di Bolzano. Mai, in tempo di pace, l’Austria
degli Asburgo portò una simile offesa alle popolazioni
italiane del Trentino”.
Livia Battisti
(figlia di Cesare Battisti)
Il monumento
senza qualità
Era il 12 luglio 1928. A Roma erano a buon
punto le trattative tra Benito Mussolini e il Card.
Pietro Gasparri1 per superare la “Legge delle Guarentigie”
del 1871. Mancava solo di accordarsi su
una base territoriale da assegnare alla S. Sede.
A Bolzano il Potere celebrava la propria liturgia
con l’inaugurazione del monumento ai suoi
trionfi, costato tre milioni di lire e realizzato da
Marcello Piacentini2, architetto del Regime fascista
come Albert Speer lo fu più tardi del Nazismo.
Una somma notevole, se si pensa che il
marmo era stato offerto gratuitamente nell’ambito
dell’accanimento anti-austriaco e della ritualizzazione
intesa a forzata comunicazione.
La prima idea era stata di dedicare il monumento
a Cesare Battisti, ma poi l’intenzione fu variata.
Battisti era stato profetico, quando sostenne: “Se
morirò, il mio Paese mi farà una lapide, se vivrò,
mi lapiderà.”
1 Gasparri Pietro, cardinale e segretario di Stato vaticano
(1852–1934)
2 Piacentini Marcello, architetto (1881–1960).
16
Già all’inizio dei lavori erano state evocate dimensioni
sacrosante secondo il potere disciplinare
della Chiesa. In un paesaggio che sembrava
una cartolina spedita dal Re Laurin3 alla sua corte
incantata, il Principe Vescovo di Trento Celestino
Endrici4 conferì con la benedizione un’investitura
e una dimensione di sacralità all’iniziativa.
Eppure il prelato doveva essere al corrente che,
secondo il pensiero teologico cristiano, battaglie
e vittorie sono giustificate soltanto se difensive e
in seguito a torti o aggressioni. Egli aveva certamente
letto “De civitate Dei” di S. Agostino5 e
“Summa Teologica” di S. Tommaso d’Aquino6,
concludendo che le giustificazioni belliche non
ricorrevano affatto nella circostanza.
Si deve rammentare infine, ma solo in ordine di
esposizione, che nel 1893 era stato eretto a Trento
il monumento a Dante7 per segnare il confine
tra l’italianità straripante e il mondo tedesco.
Come mai tale limite fu poi spostato di parecchio
verso nord? È noto che le truppe italiane avevano
occupato anche Innsbruck e Landeck ben dopo
la conclusione dell’armistizio del 4 novembre
1918. Entrambe le località erano completamente
prive di difese militari. È lecito pensare che, qualora
quella occupazione fosse stata mantenuta, il
monumento alla vittoria sarebbe stato eretto a
Innsbruck anziché a Bolzano?
3 Laurin, mitico re dei Ladini.
4 Endrici Celestino, principe vescovo di Trento (1866–
1940).
5 Sant’Agostino, padre della Chiesa (354–430).
6 San Tommaso d’Aquino, filosofo (1225–1274)
7 Dante Alighieri, massimo poeta italiano (1265–1321).
Il rappresentante del Governo Giacomo Suardo8
aveva accostato con voce da gallo ventriloquo,
durante l’inaugurazione del monumento, l’elmetto
dei fanti all’aureola dei Santi, la baionetta
alla santa Croce, la secca galletta all’ostia tricolore
dell’Eucarestia, i mutilati di guerra ai sacerdoti.
Soltanto gli angeli non furono scomodati. La
sobrietà ecclesiastica non aveva proprio nulla da
obiettare a questa ninna nanna suonata con un
trombone? No, la Chiesa si dimostrò alquanto
arrendevole nei confronti del Regime. Pochi anni
prima il Governo italiano aveva preteso l’allontanamento
dei Servi di Maria di lingua tedesca dal
monastero di Pietralba, prontamente accontentato.
La Chiesa ebbe dei cedimenti. Forse c’erano
allora alcuni broccoli nell’orto del Signore.
È vero che la consuetudine decaffeina nel tempo
l’attenzione, ma la dedica alla vittoria risulta
comunque eccessiva a Bolzano. I succhi gastrici
necessari per certe digestioni non sono infiniti.
Lo spiegò chiaramente Giuseppe Prezzolini9 a
pagina 34-35 della sua opera “Vittorio Veneto”:
”Vittorio Veneto è stata una ritirata che abbiamo
disordinato: una battaglia che non abbiamo vinto.
Questa è la verità che si deve dire agli italiani:
la verità che gli italiani devono lasciarsi dire.” In
altre parole sembra giustificato chiedersi se basti
chiamare propria “vittoria” una “non sconfitta”
dell’avversario. L’argomento meriterebbe approfondimento.
Un’autorevole risposta sta comun-
8 Suardo Giacomo, uomo politico italiano (1883–
1947).
9 Prezzolini Giuseppe, scrittore e giornalista italiano
(1882–1992).
17
que nella lettera dello scrittore austriaco Stefan
Zweig (1887–1942) al letterato e musicologo
francese Romain Rolland (1866–1944), premio
Nobel per la letteratura nel 1915. Egli scrisse il
21 ottobre 1918: ”Soffro a vedere l’Austria che accetta
tutto, che non si difende più, che va in rovina
e che è perfino respinta nel suo desiderio di poter
deporre le armi”.10 Anche gli atti del processo di
beatificazione dell’Imperatore Carlo I d’Asburgo
possono fornire interessanti contributi al riguardo.
Si è quindi trattato di una ritirata decisa
da una sola parte, quando nemmeno un metro
quadrato del territorio austriaco era ancora occupato
dagli avversari. Non desta sorpresa che
nelle guerre, come in altre circostanze, ci sia poi
qualcuno che marcia e qualcuno che ci marcia.
La storia registra casi di ritirata di una sola componente.
Anche Temistocle l’Ateniese lo fece.
Il ripiegamento nell’autunno del 1918 è da interpretarsi
nell’ampio contesto rivoluzionario
europeo in generale e, in prospettiva, nei danni
che un possibile sovvertimento marxista esteso
all’Italia avrebbe comportato per la S. Sede e per
l’agognato Concordato. L’eventualità rivoluzionaria
dovette essere più probabile di quanto si
creda. Dopo la rivoluzione d’ottobre e la conseguente
caduta del fronte orientale furono infatti
pagate ingenti somme dall’Inghilterra per impedire
un analogo sviluppo anche in Italia.11 Un
Imperatore apostolico come Carlo I d’Asburgo12
non avrebbe potuto essere da meno e avrebbe
10 Sull’orlo dell’abisso, Dadò editore, Locarno
11 Il Giornale, 15 ottobre 2009, pag. 37
12 Carlo I d’Asburgo, ultimo Imperatore della Casa
d’Austria (1887–1922)
dovuto evitare ad ogni costo questa ultima probabilità.
In ogni caso egli non era certo nato per
fare la guerra.
Sull’opera in travertino con effetto meringa campeggia
la scritta “HIC PATRIAE FINES SISTE
SIGNA HINC CETEROS EXCOLUIMUS
LINGUA LEGIBUS ARTIBUS = QUI SONO
I CONFINI DELLA PATRIA PIANTA LE
INSEGNE DA QUI NOBILITAMMO GLI
Adolf Wildt realizzò busti di martiri italiani per il monumento
italiano alla vittoria. Qui sopra Fabio Filzi.
18
ALTRI CON LA LINGUA CON LE LEGGI
CON LE ARTI”. Un messaggio imperioso e
unilaterale.
Il significato, sebbene espresso in maniera dotta
e precisa, non brilla per originalità compositiva.
Un’occhiata indietro rivolta verso l’impero romano
e una innanzi indirizzata all’impero italiano?
Un dozzinale romanticismo di massa? Un inevitabile
prodotto, o sottoprodotto, del Regime?
Presunzione di guidare la storia? La politicizzazione
rende comunque inaffidabile la storia stessa.
Il proverbio dice che non è sempre oro quello
che luccica. Manca qui naturalmente ogni messaggio
di costruzione civile. Risulta evidente l’intento
discriminatorio. Sembra un invito a riportare
indietro l’orologio della storia. L’accenno alle
differenze innate è spesso servito a giustificare gli
abusi del passato in diversi settori dell’esistenza.
L’affermazione evidenzia una contraddizione.
L’elenco dei valori e delle virtù si riferisce certamente
ai pregi e ai meriti della tradizione della
latinità. Ma questi principi sono rappresentati
dal Cattolicesimo, come sostenne Theodor
Mommsen 13, e non dalla politica governativa del
XX secolo. Oltre tutto gli antichi romani erano
anche mediocri artisti, come rammenta Mario
Cervi nel “Giornale” del 15 gennaio 2010, pag.
33. Essi avrebbero attinto senza risparmio dal genio
greco. Siffatta realtà fu riconosciuta perfino
da Mussolini, allora semplice parlamentare, nel
discorso del 18 giugno 1921, come accennato
da “La Domenica di Repubblica” del 25 febbra-
13 Theodor Mommsen, storico tedesco (1817–1903).
„HIC ARROGANTIAE FINES NON SVNT
ECCE SIGNA
HINC CETEROS EXCOLVIMVS NOMINIBVS INVENTIS
FVGA VECTIGALIVM BLASPHEMIIS“
Qui l’arroganza non ha confini.
Sono evidenti i risultati:
da qui insegnammo agli altri
nomi inventati, evasione fiscale e la bestemmia
Cristian Kollmann, 2004
(Linguista tirolese)
19
io 2007, pag. 40. I termini trionfalistici sono,
pertanto, fuori luogo. Essi sembrano piuttosto
una variante mentale dei prodotti afrodisiaci
ed esaltano modelli capitolini a detrimento dei
contemporanei prototipi offerti dall’Occidente,
la cui modernità non era né decadente né crepuscolare.
Per modernità s’intende un’apertura
verso il futuro.
L’altra memorabile frase della dittatura fascista
“un popolo, di poeti, di eroi, di navigatori” avrebbe
avuto il medesimo effetto, se riportata sul monumento.
È risaputo tuttavia che i santi, i poeti, gli
eroi e i navigatori non hanno mai brillato come
buoni governanti. Sono i cittadini che fanno il
Paese.
Ignorare tale evidenza significherebbe appartenere
a una certa setta, la quale aveva esposto
nell’atrio un avviso agli adepti con la seguente
prescrizione: ”Si prega di lasciare teste e scarpe
all’ingresso.”
In epigrafia bisogna tenere presenti anche le parole
e i significati subliminali non espressi. Nel
caso dell’iscrizione di cui trattasi deve essere per
prima cosa inserito un “sunt = sono” tra i primi
due termini. L’integrazione grammaticale del
senso comporta tuttavia una perentorietà che
non può essere sottovalutata. Non rimane più alcuno
spazio per l’esistenza degli altri. D’altronde,
come notò il sociologo Giuseppe De Rita 14, “per
14 Giuseppe De Rita, sociologo, nato nel 1932.
l’italiano medio gli altri non esistono affatto.” 15
Nella comunicazione vale lo stesso principio.
Le cose dette sembrano vere. Le cose tralasciate
possono concorrere tuttavia a far comprendere la
verità e la dinamica dei fatti. Esse possono infatti
essere intuibili anche quando non sono manifeste
o subliminali. Un esempio spiega meglio
l’osservazione. Durante un’interrogazione uno
scolaro disse che Giulio Cesare morì nel 44 a.C.
a causa di 23 pugnalate ai piedi. La nozione sorprese
il maestro, ma il giovane ribadì che l’informazione
stava nel libro di storia. Così era infatti,
ma bastava voltare pagina per leggere che il fatto
era avvenuto “ai piedi della statua di Pompeo” e
che, quindi, Cesare non era deceduto per ferite
ai piedi. Allo stesso modo, se si vuole cercare una
completezza d’informazione nei tre ablativi “lingua”,
“legibus” e “artibus”, si nota la funzionale
insufficienza di questi con la realtà mondiale dei
cittadini consapevoli. Quale integrazione non
avrebbe qui sfigurato nemmeno un elenco di reliquie
religiose, che destano maggiore perplessità.
Agli estensori della scritta sul monumento sarebbe
bastato voltare pagina per capire che già nel
113 a.C. i popoli germanici, precisamente Cimbri,
Teutoni e Ambroni, esistevano e che anche la
sconfitta romana subita a Noreia in Carinzia non
dovette essere cosa da poco. Ai medesimi autori
avrebbe forse giovato ricordare che il linguaggio
è “un qui che respira ed espira altrove, medusa
dalle dimensioni di un mare che sarebbe il mondo”,
come scrisse il Premio Nobel Yves Bonnefoy
in“La lunga catena dell’ancora” nel 2008.
15 La Repubblica, 10 giugno 2009
20
Non si trova nell’iscrizione alcun accenno all’inevitabilità
del progresso nel tempo che scorre,
benché il linguaggio, la giurisprudenza e le arti
siano segni distintivi della modernità. Urge un
ripensamento. Altrimenti, secondo la maestria di
Robert Musil 16, per l’uomo senza qualità la verdura
in scatola diventa il vero senso della verdura
fresca. L’artificiale sostituisce il naturale.
L’incipit perentorio ed esibizionistico “Hic patriae
fines” contiene due concetti non esenti da
fluidità: i confini e la patria. I confini, o meglio
i “sacri confini”, come si insisteva durante la dittatura,
erano giustificati da motivi geografici e da
esigenze difensive. Così almeno si proclamava.
“C’è il Brennero al confine e tutto quello che è
al di qua delle Alpi deve essere italiano”, sostenne
lo storico Giovanni Orsina17 nell’intervista
del 27 febbraio 2009 a Giulio Varesini. Si fa rispettosamente
notare che l’affermazione contiene
una contraddizione in termini. Il Brennero è
un passo alpino. Si può pensare che i passi siano
stati fatti dalla natura per dividere due territori?
Sembrerebbe piuttosto vero il contrario. Quanto
poi alle motivazioni geo-strategiche, soltanto chi
ritenesse il vecchio fucile mod. 1891 più efficace
dei moderni missili teleguidati e più valido dei
sistemi satellitari, potrebbe sostenerne l’esistenza.
A proposito di confini e della loro difesa, giova
ricordare che, come i venti, il pensiero non
16 Robert Musil, scrittore austriaco (1880–1942)
17 Orsina Giovanni, storico, scrittore, giornalista italiano.
“Molti italiani, anche di sinistra, cominciano
a identificarsi in quel marmo bruttino per il semplice
fatto che ne viene chiesta la cancellazione.
Capirlo significa capire l’Alto Adige.”
PAOLO RUMIZ
(Giornalista e scrittore triestino)
21
conosce frontiere e che, come scrisse Mario Vargas
Llosa18: “Tutto ciò che contribuisce a indebolire
le frontiere è positivo, il modo migliore per vaccinarsi
contro future apocalissi, come le due guerre
mondiali del XX secolo.” È risaputo che il vaccino
è una polizza assicurativa per la quale si è felici di
non chiedere risarcimenti. Anche per Friedrich
Hegel19 il pensiero era qualcosa di mobile, di
dialettico appunto. Figurarsi se il pensiero da cui
dipende il futuro può conoscere barre di confine,
vieppiù dopo i Trattati di Schengen!
L’artifizio freddo e totalizzante di “patria” indica
un “paese comune a tutta la nazione”. La preferibile
ubicazione geografica dovrebbe inoltre
coincidere, in talune scuole, possibilmente con
la provenienza di certi maestri paracadutati, gli
stessi che in genere insistevano sul principio che
la mafia non solo non esistesse, ma che fosse un
pretesto per denigrare certe zone.
Il significato comunitario di patria denota invece
il paese natale.
Una visione nichilistica sostiene di non sapere
nemmeno in quale latitudine si trovi la patria
(Charles Baudelaire20 in Lo spleen di Parigi). Lo
stesso tono si riscontra in Wilhelm von Hum-
18 Mario Vargas Llosa, scrittore peruviano, nato nel
1936. Premio Nobel per la letteratura 2010.
19 Friedrich Hegel, scrittore e filosofo tedesco (1770–
1831).
20 Charles Baudelaire, scrittore e traduttore francese
(1821–1867).
“Non accettiamo i simboli della vittoria”
Die Brücke, ottobre 1968
22
boldt21 quando afferma che l’amor di patria è impossibile
per mancanza di materia prima. Oscar
Luigi Scalfaro22 diceva al giornalista Massimo
Novelli: ”Non riesco a concepire il concetto di patria
se non c’è la libertà” (La Repubblica, 25.04.2006,
pag. 7). Quale ex Presidente della Repubblica
Scalfaro sapeva e sa certamente che, d’altronde,
il concetto di patria non ricorre nemmeno
21 Wilhelm von Humboldt, poeta, ambasciatore e ministro
tedesco (1767–1836).
22 Oscar Luigi Scalfaro, presidente della Repubblica
Italiana dal 1992 al 1999
nella Costituzione italiana. L’annessione è poi
cosa ben diversa da un abbraccio nazionale. Secondo
Massimo Raffaeli 23/24, Guido Ceronetti 25
avrebbe definito l’Italia come un “luogo senza patria”.
Niccolò Machiavelli dichiarò infine chiaramente
che “la nazion nostra” era soltanto Firenze.
23 Massimo Raffaeli, filologo e critico letterario italiano,
nato 1957.
24 La Stampa, 11 aprile 2009
25 Guido Ceronetti, poeta, filosofo, scrittore italiano,
nato 1927.
Cripta al pianterreno. Qui risiede, per lo pià inaccessibile, la Custode della storia di Guido Cadorin.
23
L’opinione di Aristofane26 era che la Patria fosse il
luogo dove ci si arricchisce. Un hotel, per quanto
accogliente, non diventa tuttavia la patria. La
componente nostalgica indica quale unica patria
di un uomo libero l’infanzia: un’entità dalla quale
tutti siamo esiliati e alla quale non è possibile
ritornare.27
Nelle lettere il discorso è diverso. Qui si comprende
che la letteratura è un’organizzazione
mentale della confusione che altrimenti è la vita.
“La mia unica patria è la letteratura. Di tutte le
altre ho imparato a farne a meno”, sostiene Vidiahar
Surajprasad28. Gli fa eco Korolenko 29, amico
di Cechov: ”La mia patria è la letteratura russa.”
Il significato comunitario di patria denota invece
il paese natale. Jakob Grimm30 intendeva per
patria il suo paese, il piccolo stato dell’Assia, la
terra della quale egli conosceva tutte le strade,
tutti i sentieri per averli percorsi da bambino. Patria
quindi come terra e non come entità politica.
Diceva bene Gregor von Rezzori31: ”La patria
trova i suoi veri confini nel cuore e nell’anima delle
sue creature.” Aveva ragione Stendhal32 a sostenere:
”La vera patria è quella in cui si incontra il
maggior numero di persone che ci assomigliano.”
26 Aristofane, commediografo greco (450–388 a.C.).
27 Rainer Maria Rilke, scrittore austriaco (1875–1926).
28 Vidiahar Surajprasad, scrittore indiano, nato nel
1932.
29 Vladimir Korolenko, scrittore russo (1853–1921).
30 Jakob Grimm, scrittore tedesco (1875–1863).
31 Gregor von Rezzori, scrittore tedesco (1914–1948).
32 Henri Marie Beyle (Stendahl), scrittore francese
(1783–1842).
I Francesi hanno la “Nation”, gli Anglosassoni
la “Rule of Law”, gli Americani la “Mission”, i
Tedeschi la “Heimat”. Nel linguaggio comune ci
sono la ragione, il senso comune, il dovere. Nel
buonsenso ognuno ha la propria patria e non è
il caso di disprezzare quella altrui. Che cosa potrebbe
essere mai la patria se non un ambiente
culturale dove coesistono la conoscenza e la comprensione
delle cose? In Italia si propende spesso
per il populismo, la retorica di liberazioni di cui
forse nessuno sente la necessità, il trasformismo,
la mancanza di suggestione e di commozione. La
diversità tra le patrie è inoltre significativa in alcuni
settori.
A questo punto l’unica soluzione possibile sembra
essere per un certo tempo l’appartenenza
multipla, cioè certamente a una Heimat e nel
contempo a un contesto statuale di riferimento
dovuto alle varie vicende storiche.
È doveroso proseguire nell’analisi delle altre affermazioni.
“Le parole sono atti”, sostenne J.P. Sartre
33. Il codice sociale incide sull’inconscio. Noi sappiamo
che esistono parole andate a male e crediamo
quindi che la filologia sia un sapere storico
messo a frutto criticamente. Il verbo “excoluimus
= nobilitammo” è certamente al passato, ma allude
all’intento di recuperare con il linguaggio
ciò che non è più. I contorni di una comunità
educante e di un pedagogismo di stato rievocano
33 Jean Paul Sartre, filosofo, drammaturgo, scrittore
francese (1905–1980).
24
comunque i commissari politici. Questi erano
figure del Regime che un poco ovunque hanno
determinato grave e odioso disagio. È opportuno
prima di tutto rammentare che non agli angeli,
bensì al genere umano fu attribuita fin dall’inizio
la capacità di chiamare le cose con il loro proprio
nome (Genesi 2, 19). Non risulta, inoltre, che la
confusione della torre di Babele abbia determinato
declassamenti linguistici a danno di alcuni
popoli. La presunzione di sostituire il Creatore o
di integrarne l’opera nel settore linguistico sembrerebbe
quindi esagerata.
Quale lingua fu ritenuta necessaria per la citata
erudizione? Il latino? E se così fosse, quale stile si
dovrebbe usare? La forma colta, aulica, popolare,
familiare, media, colloquiale…? Ma il latino è
una lingua morta e non più utile per la comunicazione
universale. Già nel XII secolo Alano di
Lilla34 informò che la latinità era povera (“Quia
latinitas penuriosa est”). Perfino la Chiesa ha dimesso
il latino. L’italiano del Medio Evo? Patrick
J. Geary35 ha chiaramente dimostrato ne “Il mito
delle nazioni” la pseudo storicità del Medio Evo
quale fautore di identità culturali e linguistiche.
Solo una pseudocultura pretende di individuare
un popolo soltanto tramite l’uso della lingua.
Nella Roma antica esistevano la componente latina
e greca. Il Medio Evo era un’Europa multiculturale
in continuo mutamento a causa di
conquiste e migrazioni. Ancora nel XVII secolo
34 Alano di Lilla, teologo e filosofo francese (1125–
1202).
35 Patrick J. Geary, storico americano.
“Io ringrazio Dio che parlo in lingue più di tutti voi.
Tuttavia, in una comunità direi piuttosto cinque parole
con la mia mente per istruire verbalmente anche altri,
anziché diecimila parole in lingua.”
(SAN PAOLO, Lettera ai Corinzi, 1, 18–19)
25
Galileo Galilei36 fu accusato di “lesa humanitas”
per avere scritto in volgare il “Discorso sulle cose
che stanno in su l’acqua”. Bisognerebbe quindi
chiarire quale delle varie parlate debba e possa
essere considerata superiore, ricordando che almeno
quella italiana non è preminente rispetto
ad altre lingue di cultura. Tutti gli esseri umani,
e non soltanto alcuni privilegiati, parlano con la
bocca e con il cuore. Ogni popolo ha una propria
lingua sufficiente e non è mai troppo poco ciò
che basta. La lingua non può quindi assumere
alcun rilievo politico, ancorché programmato.
La lingua madre è uno strumento civilizzatore
per antonomasia. Si potrebbe affermare che essa
corrisponde all’organo riproduttivo supremo
della forma del reale in una convivenza possibile,
ma non ipotetica. Una lingua materna non è
sussidiabile con un’altra parlata imposta. Il Trovatore
Walther von der Vogelweide ha sostenuto
che “due lingue non stanno bene in una bocca”. Lo
scrittore italiano Pietro Citati ha inoltre spiegato
come: “Col 1945 e la fine del fascismo, si diffuse
in Italia una lingua parlata diversissima da
quella fascista. Sorsero due lingue contrapposte. La
prima, quella democristiana, non possedeva una
massiccia ideologia politica: affondava soprattutto
nel linguaggio ecclesiastico, avvocatesco e giuridico,
era ramificata, aggrovigliata, spesso incomprensibile.
La seconda (quella comunista) soffocava sotto il
peso delle formule marxiste o paramarxiste, ricalcate
sulla prosa sovietica. Non aveva né vivacità
né movimento. I discorsi dei dirigenti comunisti
36 Galileo Galilei, scienziato italiano, sostenitore della
teoria copernicana (1564–1642).
sembravano immense divisioni di carri armati, che
avanzavano lentamente verso la meta. Lo scontro
fu violento. Ma ci furono casi in cui gergo democristiano
e gergo comunista si attrassero, si contaminarono,
si fusero, producendo raccapriccianti mostri
linguistici.37
Per i regimi avvezzi a celebrare soltanto vittorie,
tutto ciò non conta. Se la filologia e la linguistica
non hanno mai potuto dimostrare come e
quando un linguaggio umano sia superiore a un
altro, tanto peggio per la filologia e per la linguistica,
così avvertono i totalitarismi! Se dovesse
poi risultare che la storia non ha un solo percorso
verticale secondo una visione trionfalistica, allora
è meglio far finta di niente. Se mai non dovessero
infine bastare i concetti di “dove” e di “quando”,
ma fossero necessari anche i significati di “vero” e
di “falso”, si passerebbe ad altro discorso.
Quali leggi rappresentarono un ordinamento
adatto a tutti i popoli? Non è forse naturale che
le norme corrispondano alle peculiari diversità
territoriali e di pensiero, pena la crisi di rigetto?
Le leggi sono infine soltanto leggi e, volendo e
potendo, possono cambiare quando non tengono
il passo con i cambiamenti epocali. Le leggi
nominate nel monumento non fanno eccezione.
La giurisprudenza rammentata nelle sprezzanti
parole al quadrato del monumento, che essa sarebbe
stata fondamentale solo se avesse potuto
ragionevolmente spiegare, e non soltanto affermare,
la superiorità di un popolo su altri. Essa
37 La Repubblica, 26 febbraio 2010, pag. 57
26
sarebbe, inoltre, stata autorevole se avesse potuto
convincere che le attività umane debbano essere
e rimanere monopolio di una sola nazione. Ma
tali delucidazioni non compaiono affatto. Infine,
ma solo in ordine di esposizione, taluni enunciati
sono pertanto oltraggiosi come un’improvvisa
smagliatura nella calza di una bella donna.
Esiste inoltre il pericolo che talune Leggi diventino
totalitarie. Per tale motivo Sofocle38 ha
tracciato fin dall’antichità i confini tra Leggi e
umanità. La sommersione giuridica enunciata
sul monumento di cui trattasi assomiglierebbe
alle inesorabili norme del Re di Tebe. A queste
resistono le ragioni di Antigone nell’omonima
tragedia, appunto. L’insegnamento del mito, che
contiene una riflessione sulle leggi fatte dall’uomo,
non può essere smentito. Ne soffrirebbe il
messaggio alle giovani generazioni, che condanni
il protagonismo del totalitarismo e dei suoi epigoni.
Quali arti costituirono veramente il primato assoluto
per l’umanità? I capolavori dell’antichità
classica e del Rinascimento italiano, oppure anche
gli ingegni e le opere degli omonimi movimenti
artistici di Paesi Bassi, Spagna, Francia…?
Il magico Pantheon e i superbi acquedotti romani
hanno sicuramente alto rilievo artistico,
ma le sontuose cattedrali gotiche e i portenti
dell’idraulica in Frisia non sono da meno. Notre
Dame di Chartres o la Torre di Pisa? Non si tratta
38 Sofocle, tragediografo greco (495–406 a.C.)
“Il famigerato […] Monumento alla Vittoria [...][è]
un reperto di archeologia, ossia la testimonianza,
anche grottesca, di un segmento non positivo
della nostra storia recente.”
CARLO CRESTI
(Scrittore, docente, architetto)
27
di disdire Cicerone39, ma di rammentare che gli
stessi Platone40 e Aristotele41 ebbero contributi
da altre regioni lontane, nonché di far rispettosamente
osservare che anche altrove grandi ingegni
furono espressi dalle rispettive comunità.
Da un punto di vista storico sfigurano veramente
il Principe Arminio42 e Teodorico43 di fronte al
console Varo44 e all’imperatore Romolo Augustolo45?
E sono poca cosa le intuizioni di Tolomeo46,
Copernico47 e Keplero48, in quanto provenienti
da altre realtà? Chissà se il Giorgione49 sarebbe
diventato quel genio che conosciamo senza gli
artisti fiamminghi? La gente vuole capire certi
confronti per rendersi conto di quanto essi abbiano
effettivamente contato e se sia giustificato
escludere i pensieri del resto del mondo. Non
solo le risposte e le affermazioni, ma soprattutto
le domande hanno un senso nella moderna metodologia.
Le intese vanno costruite.
39 Marco Tullio Cicerone, oratore e senatore romano
(106–43 a.C.).
40 Platone, filosofo greco (427–347 a.C.).
41 Aristotele, filosofo greco (384–322 a.C.).
42 Arminio, Principe dei Cheruschi, vincitore nella
battaglia di Teutoburgo (17 a.C.–19 d.C)
43 Teodorico da Verona, re dei Goti, + 525 d.C.
44 Quintilio Varo, console romano. Sconfitto nella battaglia
di Teutoburgo (47 a.C.–9 d.C.)
45 Romolo Augustolo, ultimo Imperatore romano
(459 d.C.). Friedrich Dürrenmatt lo chiamò “Il Grande”
nell’omonima opera, perché seppe perdere il trono
senza inutili resistenze.
46 Tolomeo, astronomo e matematico (100–178 d.C.).
47 Nicolò Copernico, astronomo e cosmologo (1473–
1543).
48 Keplero, astronomo tedesco (1571–1630).
49 Giorgione, pittore veneto (1477–1510).
“C’è chi è capace di dar vita alle arti, e chi invece
di giudicare quale danno e quale vantaggio
comportino per chi se ne avvarrà.”
PLATONE
(Fedro)
Chi sarebbero, infine, questi “ceteri”, questi altri
presunti casuali accidenti del creato tanto sottosviluppati
e bisognosi di civilizzazione? Gli “altri”
sono, secondo un indigesto atteggiamento
di superiorità, quanti non dispongono di città
eterne. Si tratta di estranei ai vertici prepotenti
delle ideologie sterili e annientatrici, da disprezzare
o commiserare come, ai tempi nostri, spesso
accade per quelli che non hanno la carta di
credito. Costituiscono un’umanità sprovveduta
destinata alla subordinazione, dotata di scarsa
intelligenza linguistica (lingua), razionale (legibus)
ed emotivo-estetica (artibus), pur avendo
lingua, arte e cultura proprie già prima dell’annessione.
In altre parole gli altri erano all’incirca
quella classe di schiavi denominati dagli antichi
Romani “Instrumentum vocalis = arnese parlante”,
per distinguerli (bontà loro) dallo “Instrumentum
semivocalis = arnese semivocale”, che erano invece
gli animali da lavoro. Gli “altri” sarebbero stati
identificabili, in quanto pure considerati “cancerofili”,
nella “razza alpina” nominata nel totalitario
“Manifesto della Razza” del 14 luglio 1938.
Tra questi, secondo le precise indicazioni dello
scienziato patologo Nicola Pende, e non per il
solo fatto che il mese di luglio (quando il manifesto
fu emanato) corrisponda al segno zodiacale
28
del Cancro, figuravano gli Svizzeri, i Bavaresi, gli
Austriaci, i Veneti. Ma sì, abbiamo finalmente il
coraggio di dire la parola esatta: gli altri erano i
Barbari, diamine!
In realtà nella versione originariamente prevista
dal Ministro Pietro Fedele50 ricorreva l’accusativo
“barbaros” con evidente riferimento agli
abitanti delle valli tedesche e ladine. Poi, forse
dopo un ripensamento facendo proprio la faccia
che si può indovinare, si ripiegò su “ceteros”. Ma
l’intenzione era e rimaneva chiara come il disagio
che essa provoca. Come è noto il disturbo
è una deviazione dalla norma e ha sempre una
connotazione morale. L’estensore della scritta sul
monumento non sarebbe stato particolarmente
raccomandabile quale donatore di neuroni. Le
parole rivelano ed esprimono infatti lo spirito.
Quando il pensiero è debole, la pena ricade sulle
parole. Quelle parole sono un colpo d’ascia nel
tronco. È comunque lecito chiedersi se quanto
succede a noi, accade a tutti o soltanto a noi. Nel
primo caso è banale. Nel secondo è incomprensibile,
secondo lo scrittore Fernando Pessoa.
Ohibò, i Barbari! Il “mondo fluido ed equestre”,
come li chiamava Indro Montanelli51. Disprezzati
dai Romani come esseri umani abusivi, incivili
e rozzi, erano in realtà abili nel fondere i metalli e
produrre birra e burro, costruire botti di legno al
50 Pietro Fedele, ministro italiano dell’Istruzione Nazionale
dal 1925 al 1928. Il 2 gennaio 1926 estese il
saluto romano anche alle scuole.
51 Indro Montanelli, giornalista e scrittore italiano
(1909–2001).
posto delle fragili anfore, rendere agevole l’aratro
mediante ruote, indossare pratici pantaloni piuttosto
che tuniche, usare la sella per le cavalcature,
sviluppare soluzioni ispirate dalla magistra barbaritas
… Nel 410 d.C. i Barbari Visigoti sono
a Narni. Il monaco Salviano52 scrive il “Governo
di Dio”, dove si legge: ”I Romani sono superiori in
fatto di religioni, ma i Barbari sono preferibili sotto
il profilo morale, come è indubitabile.”
Anche per i Barbari la testa non era proprio soltanto
una semplice gobba tra due spalle.
Si potrà dire che, oltre all’evidente e nota connotazione
dispregiativa della parola “barbaro” il significato
è stato rivisto sia dalla scuola che dalla mentalità.
Non abbastanza. Le “invasioni barbariche”
costituiscono pur sempre un capitolo importante
nelle lezioni di storia in Italia.
Constantinos Kavafis53 scrisse nella sua poesia
“Aspettando i barbari”: “[…] è già notte e i barbari
non vengono./È arrivato qualcuno dai confini/
a dire che di barbari non ce ne sono più./Come
faremo adesso senza i barbari?/Dopotutto, quella
gente era una soluzione”. Questi versi risalgono al
1904. Ma lo Stato etico impiccione e intrusivo,
che ha sostituito il governo platonico dei filosofi
con quello dei pedagoghi, dei giuristi, dei pittori,
li ha ignorati nel 1928 con la cornice artificiale
anomala del monumento di Bolzano. Poiché, se
poche cose sono antidemocratiche come il potere
52 Salviano, monaco (IV. Secolo d.C.).
53 Kostantinos Kavafis, poeta greco (1863–1933)
29
Anche la simbologia cristiana dovette servire allo sfarzo fascista. Qui il “Cristo risorto” di L. Andresti accanto ai busti di Fabio Filzi e di
Damiano Chiesa.
30
dei sapienti e le teorie calate dall’alto, è stata in tal
modo inquinata una realtà storica, cui compete
unicamente il racconto del passato. Sembra qui
adatta una citazione dal libro “Divided Country”
di John Foot54: “Raramente lo Stato o altri enti
pubblici hanno istituito pratiche commemorative
durature e comunemente accettate.” Capita così
che spazi pubblici siano dedicati alla comunicazione
virtuale, senza decifrare storie condivise e
segni di appartenenza collettiva: non luoghi.
Le parole sul monumento senza radici indicano
esami di coscienza accuratamente evitati. Tracciano
segni visibili di memorie che creano divisione.
Sono fotogrammi fermi, dietro i quali
rimangono nascosti significati incontestabili.
1) La cultura è uno strumento per entrare nel
mondo.
2) La cultura imposta è un sostituto del mondo.
3) Soltanto la civiltà dell’incontro può diventare
cultura.
Da un altro esame emerge che nulla lascia affiorare
una volontà che stia lavorando a un nuovo
compito. Le parole “progresso”, “aspirazione”,
“identità”… mancano del tutto. Risalta all’occhio
un’ignoranza di ritorno, vale a dire un’assurda
idolatria per glorie imperiali comunque a
buon mercato, visto che il passato totalitarista,
lo stato di polizia, l’ossessivo indottrinamento
politico a scuola e nei giornali, le sistemazioni
su misura per i fedeli del Regime non potranno
54 (ed. Rizzoli)
“Il mondo è bello all’esterno,
bianco, verde e rosso,
all’interno però esso è nero
e buio come la morte.”
Walther Von Der Vogelweide
(Poeta Trovatore tedesco)
più tornare, almeno così si spera. A proposito,
un dizionario riporta per il vocabolo “Regime” la
definizione “Sistema di mangiamento”.
Anche i tramonti tramontano.
I progettisti del monumento hanno di certo
scelto intenzionalmente di scrivere l’inesorabile
epigrafe in latino al fine di sottolineare la discendenza
dall’Impero Romano. Una tale affermazione
sarebbe però paradossale quanto l’asserzione
che esista una continuità tra gli antichi Elleni e i
Greci d’oggi. Essi si saranno probabilmente anche
affidati a Santa Ignoranza, la Patrona degli
stupidi, confidando eventualmente che nessuno
in Sudtirolo fosse in grado di capire l’iscrizione
a dimostrazione del dichiarato sottosviluppo e
dell’arretratezza. In ogni caso il significato programmato
è noto. La popolazione locale è, o
deve gradualmente diventare, un oggetto estraneo
al proprio Paese. Essa non è degna di governare
il proprio Paese e la terra che per secoli
ha coltivato. Meglio sarebbe se essa svendesse la
propria primogenitura, come fece Esaù, in presenza
di un’improbabile superiorità morale o di
altre forzature apologetiche disossate dal tempo.
31
La Costituzione italiana proclama tra l’altro,
all’art. 3, che non debbono esserci distinzioni
tra i cittadini, lingua compresa si suppone. Non
si ravvisa nel monumento alcuno spazio per il
pensiero, le inclinazioni e le istanze altrui, cioè
degli “altri”. Traspare un orgoglio intossicato per
abuso di se stesso. Insiste la velleità di uniformare
le credenze, i costumi, le nazionalità affinché
le elite al potere governino in modo univoco il
mondo. Non si riconosce alcuna intercultura,
ossia rimane esclusa ogni possibilità di dialogo.
Il Comandamento “Onora il padre e la madre”
non deve esistere, se rivolto alla popolazione storica:
altrimenti ci sarebbe il rischio che il precetto
divino includa gli antenati e quindi l’identità locale,
che mai fu ansiosa di unirsi al Regno d’Italia.
I grafemi incisi sul frontone del monumento
trasmettono un senso di estraneità, una slogatura
culturale con l’intero ambiente. Un congiuntivo
con gli occhiali da sole, insomma.
Non c’è dubbio. Il monumento fu realizzato
per dividere. La sua costruzione fu preceduta da
un atto di distruzione. Paolo Pagliaro cita55 una
chiara affermazione di Ettore Tolomei: ”Il monumento
dovrà imporsi come segno di conquista e di
imperio.”
Qualcuno sostiene che nel dopoguerra qualcosa
sia cambiato. Si tratta di un messaggio gridato in
faccia a tutti i non italiani. Un evidente baluardo
contro altri gruppi etnici, che sono gli esperti
del passato. Come potrebbero gli storici spiegare
55 A pagina 18 del terzo “Quaderno del Matteotti”
“Il nome piazza della Vittoria, non mi suona bene,
mi suona di guerra e di lotte.”
[Lisa, venticinque anni,
tedesca (intervistata nel 2002)]
32
allora il fatto che ancora nel 1957 un gigantesco
bassorilievo fascista sia stato completato a Bolzano
con denaro pubblico, benché l’Italia avesse
già da molto tempo la Costituzione antifascista?
Verrebbe naturale domandarsi il motivo di tanti
sforzi per dimostrare l’italianità, e non l’italianizzazione
forzata della zona, evidente durante
il Regime e strisciante in seguito. In realtà tale
dichiarazione d’intenti non è mai cessata e il salto
emotivo generazionale, rispetto a idee che avevano
alle spalle il fascismo e il colonialismo, non
c’ è mai stato. Si tratta di ben altra questione,
ma basta considerare anche l’attuale, ossessiva
pubblicità di prodotti alimentari per convincersi.
Ancora alle ore 13 del 29 aprile 2005 un programma
della RAI-TV si rivolgeva ai telespettatori
chiedendo: ”Siete sicuri che tutte, ma proprio
tutte, le zucchine sul mercato siano di produzione
italiana?” Ridicolo o patetico?
Nonostante tutto i cittadini sono consci che,
come la storia insegna, anche i vermi solitari
delle dittature possono avere i propri incidenti
di percorso. Bisogna servirsi nel frattempo delle
protesi fisiche e morali, nonché degli ormoni critici,
che il pensiero e la solidarietà tra barbari offrono.
Qualcuno potrebbe sperare che, se anche
i muri cadono, lo stesso possa valere per i monumenti.
In questo caso agli impazienti non rimarrebbe
altro che affidarsi a Santa Pazienza, Patrona
dei cittadini. Altri potrebbero invece pensare che
il nazionalismo italiano sia immortale, secondo
un’illazione di Carlo Bertelli56 contenuta nel sag-
56 Carlo Bertelli, storico dell’arte e professore italiano
(n. 1930)
gio “Bisanzio e il Fascismo.”57
In ogni parte del mondo il paesaggio è storia,
umanità, immaginazione sedimentata. Anche i
paesaggi si possono infatti leggere. Cotale lettura
suggerisce che quanto è fuori posto, prima o poi
cadrà. Se si dovesse seguire il consiglio di Indro
Montanelli, cioè di fidarsi dei propri disgusti
piuttosto che dei propri gusti, il monumento di
Bolzano sarebbe un tasto nero nella serie eburnea,
una sfida architettonica al paesaggio circostante.
Un edificio dall’aria colpevole, complice
scalcinato dell’era dittatoriale. Molte opere architettoniche
del Regime sembravano allora come
guarnizioni su certe torte di gesso durevolmente
esposte nelle vetrine di alcune pasticcerie. C’erano
canditi, panna montata, ciliegine, immancabili
fragoline del bosco, zucchero a velo, mirtilli
perfino. Tutto appariva appetitoso. In realtà sotto
il dolce c’era solo una vuota anima di cartone.
L’arte non deve essere infatti autoreferenza, ma
energia sorgiva che si propone di intervenire sui
vari aspetti della vita umana. L’arte in generale, e
l’architettura in particolare, riguardano la convivenza
civile e la qualità della vita. Non bisogna
tuttavia dimenticare che bellezza vuol dire anche
sostenibilità.
Tra le varie giustificazioni a difesa c’è quella che
si tratta di un’eredità del passato. Il discorso sembra
sensato, benché i diktat della storia siano
più deboli di quelli della natura. Ma se un monumento
rappresenta solo il passato, deve rima
57 Citata a pag. 29 del Corriere della Sera, 1 agosto
2003
33
nere silenzioso come le Piramidi e il Colosseo,
estraneo a certi compiacimenti simbolici graditi
ai totalitarismi.“L’estetico non deve prevalere sull’etico.
Le ragioni dell’arte non soppiantano quelle
della vita”, sosteneva Sören Kierkegaard58. A causa
della sgradevole scritta ciò non avviene. L’epigrafe
ha tutte le caratteristiche dell’irreversibilità.
Essa riguarda quindi anche il futuro. Secondo la
mentalità del Regime di caramellata memoria il
passato doveva adeguarsi alla visione nazionalista
di futuro. Il passato remoto “excoluimus” possiede
quindi semanticamente anche una presuntuosa
valenza di futuro. Altro che relitto del passato! La
palese interpretazione vale più della percezione.
Quel monumento pretende ancora il diritto di
spostare i confini del tempo in cui fu creato.
Sia concesso di immaginare nei primi banchi
di quella benemerita scuola serale per asini bisognosi
di addestramento, sottintesa, ma non
troppo, dal Regime, anche i grandi poeti sudtirolesi
Walther von der Vogelweide59 e Oswald
von Wolkenstein60, nonché i più recenti Norbert
Conrad Kaser61 e Karl Plattner62.
È difficile non vedere in tutto ciò un’intenzionale
affermazione di un’inaccettabile superiorità
culturale in grado di produrre disuguaglianze,
ingiustizie e squilibri. Poiché nell’Unione Euro-
58 Sören Kierkegaard, filosofo danese (1813–1855)
59 (1170–1228)
60 (1377–1445)
61 (1947–1978)
62 (1919–1986)
“L’architettura è l’arte di dare rifugio alle attività
dell’uomo: abitare, lavorare, curarsi, insegnare e,
naturalmente, stare insieme”.
Renzo Piano
(Architetto)
34
pea vige il principio che ogni intento discriminatorio,
specialmente se si tratta di fondamentali
diritti come l’uguaglianza culturale dei cittadini,
è censurabile, la scritta appare offensiva. Essa
esprime motivi di discordia: di qua gli inimitabili
civilizzatori; di là un pollaio di incivili indigeni.
Di qua coloro, e sono tanti, che devono
spargere il letame sulle fragole. Di là, e sono in
numero minore, quanti versano invece con piacere
la panna montata sulle fragole. Altro che la
drastica scena della separazione delle pecore dai
capri evocata nel Vangelo di Matteo! Tutti gli
elementi richiesti per l’interdizione morale di
popoli, inesorabilmente considerati inabili nella
lingua, nella normativa giuridica e nell’arte, sono
presenti. Non contava nulla l’evidenza che l’analfabetismo
nel 1900 fosse il 7,1% nel Tirolo, ma
il 55% in Italia (21% ancora nel 1931!). Non si
comprende che cosa ci fosse da ammaestrare in
Sudtirolo. Si dovrebbe piuttosto rammentare che
una migliore scolarità contribuisce sempre a una
maggiore stabilità nella società e a una minore
propensione ai conflitti. Il livello di istruzione ha
inoltre sviluppato il rispetto dell’ambiente, che
molti invidiano alla Provincia Autonoma di Bolzano.
A questo punto soltanto il passo verso un’esclusione
degli “altri” dall’appartenenza al mondo
civile sembra veramente breve, specialmente
se la scritta sul monumento viene conservata e
coccolata. Basta ignorare che nel frattempo ci siano
state le rivoluzioni scientifiche e industriali,
l’Illuminismo e tutto il resto.
“Anch’io ho imparato a dire “no!”
Ma c’è voluta una guerra mondiale.”
Giovanni Guareschi
(scrittore e saggista italiano, 1908–1968)
35
La scritta è anticostituzionale in quanto negazione
dell’uguale dignità dei popoli. A nulla vale
il pretesto che la vittoria giustifica i mezzi come
dice il proverbio, o qualcosa di simile, se è incostituzionale.
La politica è rimasta immobile circa
l’opportunità di modificare certe incongruenze.
Il rispetto delle differenze rimane debole.
La politica dovrebbe imparare che anche le opere
importanti invecchiano e che il loro messaggio
diventa retorica all’anguria che sa d’aceto. Qualche
monumento rischia di diventare un “baucco”.
Si sa, la parola è attualmente in disuso, ma
il significato permane. Il baucco è un cavallo di
poco pregio, un ronzino. Per accertare soltanto se
la puledra è in calore, il mediocre quadrupede le
viene accostato. Qualora venga manifestato gradimento
per la presenza maschile, la rozza viene
subito riportata nella stalla e sostituita con migliore
risultato da uno stallone autentico. Anche
le puledre hanno le loro preferenze.
Molti preferirebbero che il monumento di Bolzano
fosse smontato a similitudine di quanto
accaduto a suo tempo per residue tracce fasciste
a Firenze, Siena e, ripetutamente, nella stessa
Roma, oppure come è stato fatto per l’obelisco
di Axum 63. Anche le antiche pitture murali egizie
sono tornate a Luxor. In questi ultimi recenti
casi le opere erano state però reclamate dalle
63 Obelisco di Axum: la Stele fu prelevata nel 1937 in
Africa Orientale e trasferita a Roma. È stata restituita
nel 2005.
originarie sedi culturali africane. La costruzione
che sorge a Bolzano non sarebbe invece desiderata
da nessuno, nemmeno nella città che fu la culla
dell’espansionismo imperiale.
Secondo alcune fondate istanze essa potrebbe essere
quindi distrutta come sostanza nociva, anche in
carenza di una legge che imponga il disfacimento
dei monumenti fascisti. Nulla vieta che un monumento
diventi un insignificante ex voto. Escluso il
restauro, qualche scultura potrebbe essere esposta
in un contesto storico, p.es. in un museo. Per rinnovare
non è tuttavia necessario contraddire: basta
approfondire. Se le superstizioni sono lecite, perché
non dovrebbero esserlo le opinioni?
Certo, del monumento non si sentirebbe la mancanza
e non lo si rimpiangerebbe. La civic auditing,
cioè il controllo e la valutazione dei cittadini
sul funzionamento della Pubblica Amministrazione,
ci guadagnerebbe di certo. Chi agisce in sintonia
col tempo è stato definito felice da Niccolò
Machiavelli nel XXV capitolo della fondamentale
opera “Il Principe”.
A questo modo si imiterebbero però, almeno in
parte, sia lo stile sia l’intransigenza del totalitarismo,
il quale fu molto diligente nel distruggere i
monumenti austriaci nelle terre annesse. Una risoluzione
di disfacimento dell’opera potrebbe assomigliare,
in una certa maniera, alla proposta di
Costituzione polemicamente avanzata dal giornalista
Mario Ferrara e destinata a pretestuosa inefficacia,
la quale si componeva di due soli articoli:
“1) Non c’è più niente da fare. 2) Nessuno è incaricato
di eseguire la presente legge.”
36
Un dettaglio da non sottovalutare sarebbe l’eventuale
lato estetico del malconcio monumento.
Se esso avesse un pregio artistico, bisognerebbe
riflettere in modo da non incontrare rimorsi.
Il grande storico dell’arte Giulio Carlo Argan
(1909–1992) scrisse che il monumento di Bolzano
“non vale nulla e non rappresenta nulla”.
Achille Bonito Oliva conferma che “in ogni
caso non è un’opera d’arte, non ne ha il significato”.
È giusto ricordare che esistono anche altre istanze
al riguardo. La più gustosa e originale è quella
che auspica sia lo smontaggio del monumento,
comprese le umilianti scritte sgradevoli nel tono
e irrilevanti nella sostanza, sia il trasferimento
delle sue parti altrove, magari come ingresso per
l’ipotizzato, futuro ponte sullo stretto di Messina.
Particolare interessante: ci sarebbe pure disponibilità
per contribuire alla spesa.
Una certa ragionevolezza della popolazione locale,
sicuramente diversa dall’ostentazione del
Regime che ha realizzato il manufatto, ne consiglierebbe
però la distruzione. I montanari sono
devoti di Santo Scrupolo, patrono delle buone
maniere. A loro non interessano le nazioni, ma
le civiltà. Il nazionalismo ha infatti generato
le nazioni e non viceversa, come insegnano le
opere di Ernest Renan, Terence Ranger, Eric J.
Hobsbawm, Marcel Detienne e Ernest Gellner.
Le genti della montagna sono inoltre nate in
zone ripide e devono possedere, per natura, uno
spiccato senso dell’equilibrio. Dai montanari si
può infine comprendere che cosa significhi una
“Il vocabolario della guerra è fatto
dai diplomatici, dai militari, dai potenti.
Dovrebbe essere corretto dai reduci, dalle vedove,
dagli orfani, dai medici e dai poeti”.
Arthur Schnitzler, 1915
(Scrittore austriaco)
37
boccata d’innocenza. Nei masi di montagna non
si producono soltanto pregiati generi alimentari,
ma si prepara faticosamente la modernità per le
nuove generazioni che amano la terra. Modernità
significa essere aperti al futuro. Non sembra che
questo concetto confini con l’idea di totalitarismo.
I tempi esigono ripensamenti su parecchie cose,
poiché i contrasti tra passato e presente sono
spesso inevitabili. Quando si scorgono all’orizzonte
quattro cavalieri al galoppo, è consigliabile
controllare che non si tratti dell’Apocalisse.
Quando pervengono dalla società motivate
istanze di ammodernamento, un’accorta politica
dovrebbe tenerne conto e dare riscontri.
I tempi sono cambiati. Perfino centinaia di istituti
monastici sono stati trasformati in alberghi
per turisti, cancellando ogni traccia di pratica
religiosa. Nessuno si è scandalizzato. Nulla sedimenta.
Tutto scorre, come ha insegnato il filosofo
greco Eraclito.
Una riduzione del disagio sarebbe ben gradita
alla popolazione locale fedele alla propria identità.
È giusto rispettare la visuale di quanti abitano
ormai da decenni la regione sudtirolese.
Rispetto spetterebbe tuttavia anche alla sensibilità
di quanti abitano la stessa regione da molti
secoli o addirittura dall’età del bronzo. Soltanto
un infantilismo emotivo potrebbe convivere con
l’incapacità di riconoscere le emozioni degli altri.
Non si pretende di avere ragione per forza in
questo ragionamento, ma si abbia almeno l’amabilità
di chiarire dove si è sbagliato.
Sarebbe più utile la riconversione dell’arco di
trionfo in una sorta di analgesico contro i ricorrenti
onori tributati agli abusi verbali insiti nel
suo messaggio bisognoso di aggiornamento. Una
specie di laboratorio della memoria per mantenere
sempre desta la vigilanza. La vita non è l’imitazione
di archi di trionfo famosi, bensì il corretto
uso della tavolozza dell’equilibrio per rappresentare
la realtà.
Per la verità dei fatti è il caso di citare lo sforzo
che ha prodotto nel 2004 la dichiarazione quadrilingue,
il cui testo è emblematico:
“Questo monumento fu eretto durante il regime
fascista per celebrare la vittoria dell’Italia
nella Prima guerra mondiale. Essa comportò
anche la divisione del Tirolo e la separazione
della popolazione di questa terra dalla madrepatria
austriaca. La città di Bolzano, libera e
democratica, condanna le divisioni e le discriminazioni
del passato e ogni forma di nazionalismo,
e si impegna con spirito europeo a
promuovere la cultura della pace e della fratellanza.”
L’esposizione presenta elementi di assoluta novità.
Essa è una modesta attenuazione di un ritardo
culturale. Viene usato l’antico toponimo “Tirolo”,
aspramente proibito ai tempi del Regime
nonché mantenuto in disuso anche dopo. Viene
inoltre pubblicamente nominata la “madrepatria
austriaca”, la quale evidentemente non è la stessa
38
spiattellata sul monumento, che nega gli stessi
valori che stanno alla base della consolidata autonomia.
Si ha motivo di ritenere che vi siano state
parecchie sofferenze in quanti hanno strumentalmente
sempre negato tale patria, poiché è obiettivamente
difficile maturare a 92 anni di età.
Un risultato soddisfacente potrebbe e dovrebbe
essere raggiunto mediante un accordo bilaterale,
magari conseguente a uno studio congiunto, che
allontanasse le tracce del pulviscolo conseguente
al dissolvimento delle ideologie. S’intende per
ideologia la mescolanza delle idee con il logos,
dell’immagine e del pensiero, operata dalla mente.
Ogni considerazione dovrebbe basarsi su due
principi. Nell’organismo umano l’equilibrio si
chiama salute. La giusta proporzione nella società
si chiama giustizia.
L’equità e l’imparzialità, ma anche la consapevolezza
politica, esigono che le parole sul monumento
di Bolzano siano cancellate o almeno
rimodulate in funzione postbellica con le dimensioni
testimoniali della modernità. A meno che si
viva ancora in un regime di democrazia autoritaria
che esalta lo Stato accentratore.
Una chiara spiegazione esplicativa, accostata e
non distante dal monumento, dovrebbe informare
il visitatore e la cittadinanza che la mentalità
sarebbe nel frattempo in gran parte cambiata.
Essa dovrebbe integrare i quattro pannelli plurilingui,
suggerendo che l’epigrafe sul frontone
del monumento non ha, o non può più avere,
quindi finalità o velleità pedagogiche. Non si
tratta di un simbolo, ma di un residuo. Dovrebbero
essere eliminati gli elementi simbolici.
All’affermazione che gli oggetti sono il prodotto
della società che li ha originati, si può rispondere
capovolgendo l’affermazione. Alcune culture
possono infatti diventare purtroppo un prodotto
strumentale degli oggetti, delle ideologie e delle
immagini. Al posto dell’attuale termine “patriae”
sarebbe giusto scrivere l’ormai desueto “impetus”.
“Ceteros” dovrebbe essere poi sostituito da “finitimos
= confinanti, vicini”. Soprattutto in luogo
di “excoluimus” figurerebbe bene un “convenimus
= incontrammo”. Tutto ciò se non si procede alla
cancellazione, s’intende.
Importante è che non passi troppo tempo. È
noto che anche la migliore insalata diventa fieno,
se non consumata in tempo.
A certi epigoni che tirano spesso in ballo la superiorità
romana e l’annesso diluvio di delirio, dovrebbe
essere fatto finalmente presente che tra il
II secolo a.C. e l’avvento del Principato, il potere
romano fu esclusivamente sanguinario. Per prima
cosa fu distrutto un regno fondato in Spagna
da Sertorio 64, ufficiale del Console Mario65, che
si era salvato dai massacri di Silla66. La dittatura
64 Quinto Sertorio, uomo politico e generale romano
(126–72 a.C.).
65 Mario, console e condottiero romano (157–86 a.C.).
66 Lucio Cornelio Silla, generale e uomo politico romano
(138–78 a.C.).
39
continuò poi con Cesare67, il quale si scrisse la
propria storia. Cicerone esultò quando apprese la
notizia della morte di Cesare. Cesare Ottaviano
68seguì poi il suo esempio e quello di Crasso69 e di
Pompeo70 per instaurare violentemente il Principato.
Non c’è proprio molto da rimpiangere o di
cui vantarsi.
Ai nostalgici dell’accensione nazionalistica e
dell’imperialismo, che considerano il monumento
una stella, bisognerebbe infine rispettosamente
rammentare che anche le stelle possono diventare
cadenti.
Il ragionamento sulle vere o supposte glorie del
passato dovrebbe concludersi con le parole di
Bernardo di Morlay71: ”Nomina nuda tenemus =
Noi non possediamo ormai che nomi spogli della
realtà che essi significano.” A qualcuno forse non
piacerà, ma “lascia pur grattar dov’è la rogna”
(Dante Alighieri, Paradiso, XVII, 127-129).
67 Gaio Giulio Cesare, triumviro, condottiero e scrittore
romano (100– 44 a. C.).
68 Cesare Ottaviano Augusto, Imperatore romano
(63–14 d.C.).
69 Marco Licinio Crasso, triumviro romano (114–53
a.C.).
70 Gneo Pompeo Magno, triumviro e generale romano
(106–48 a.C.).
71 Bernardo di Morlay, monaco cluniacense (XII secolo).
“Le parole precedono i fatti”
Gianpaolo Pansa
(Scrittore e giornalista)
Damiano Chiesa
40
Raffi gurazione romantica del monumento alla vittoria. L’ignoto disegnatore di questa cartolina postale immaginò il monumento
alla vittoria presso “ i sacri confi ni della patria” collocati in mezzo al bosco e in montagna.
41
La stampa
 AVVENIRE, 20 SETTEMBRE 1988
In queste settimane si vive l’attesa della “quietanza
liberatoria” da parte dell’Austria nei confronti
dell’Italia con riguardo agli impegni che il nostro
Paese si è assunto in sede Onu a proposito
dell’Alto Adige/Sud Tirolo.
Al di là del problema giuridico resta però intatto
il problema sostanziale. La provincia di Bolzano
è una parte integrante del Tirolo che l’Italia si
è annessa a viva forza nel 1919 senza ragione e
senza la volontà dei suoi abitanti. Da allora ad
oggi lo Stato Italiano non ha saputo ottenere né
fi ducia né rispetto da parte di quei suoi involontari
cittadini che sono i sudtirolesi.
Nemmeno nella più lontana prospettiva il problema
si può però ormai risolvere ritornando ai
confi ni etnici poiché, nel frattempo, si è insediata
nella provincia di Bolzano una grossa minoranza
italiana. Dunque il ritorno del confi ne al
Brennero non farebbe altro, persistendo l’attuale
clima, che ricreare al governo di Vienna diffi coltà
uguali a quelle che ha oggi il governo di Roma.
Non è più tempo di spostare confi ni, quanto
piuttosto di far diventare tutti i confi ni europei
sempre meno rilevanti. Ed è proprio per questo
che il governo italiano, ottenuta l’attesa “quietanza
liberatoria”, dovrebbe a nostro avviso riaprire
“motu proprio” la questione dell’Alto Adige
42
in tutt’altro spirito, iniziando con tre grossi gesti
di buona volontà:
1. Abolizione dell’uso ufficiale dei falsi toponimi
italiani inventati da Ettore Tolomei e poi
imposti dal fascismo.
In Val d’Aosta e in alcune valli piemontesi, dove
analogamente il fascismo aveva imposto falsi toponimi
italiani, questi sono stati aboliti subito dopo
la caduta del regime, e oggi chiunque giustamente
si sentirebbe ridicolo a dire Castiglione Dora per
Chatillon, San Desiderio Terme per Pré St. Didier,
o Cormaiore per Courmayeur. Non si vede allora
perché mai si debba continuare a dire Dobbiaco
per Toblach o Chienes per Kiens (tra l’altro c’è
da domandarsi perché mai i Comuni interessati
sinora non abbiano al riguardo fatto ricorso alla
Corte Costituzionale adducendo una violazione
del principio della parità di trattamento).
L’abolizione dell’uso ufficiale dei falsi toponimi
(salvo dunque l’uso abbinato, come già in Val
d’Aosta, dei pochi che sono autentici) sarebbe
importantissima perché l’impiego dei toponimi
originari tedeschi e ladini servirebbe, come già
accadde con i toponimi francesi valdostani, a segnalare
a tutti, non solo “in loco” ma in tutto
il Paese, la “primogenitura” linguistico-culturale
non italiana che caratterizza la regione, con tutto
ciò che consegue.
I falsi toponimi italiani furono inventati da Tolomei
per mascherare agli occhi dell’opinione pubblica
italiana la non italianità della regione e per
fare di questa mistificazione la base di un violento
programma di annichilimento linguistico-culturale
di chi aveva il torto di non quadrare con la
dottrina dello spartiacque. Abolirli avrebbe anche
un grosso significato simbolico: segnalerebbe
che l’Italia democratica sceglie di lasciarsi alle
spalle tutto ciò. Un’iniziativa del genere, inoltre,
se ben gestita dal punto di vista della comunicazione
al grande pubblico, potrebbe essere spunto
per quella revisione dei luoghi comuni e delle
mistificazioni di origine nazionalista e fascista sul
tema Alto Adige/Sud Tirolo, mancando la quale
viene meno nella società italiana la base culturale
indispensabile a qualsiasi equa e stabile soluzione
politica del problema.
2. Demolizione del monumento della Vittoria
esistente a Bolzano.
Forse in nessuna città del Paese sussistono intatti
come a Bolzano monumenti e segni monumentali
del regime fascista. Tra questi il più clamoroso,
e il più insultante per la maggioranza degli
abitanti della Provincia, è il monumento alla Vittoria
nella Prima guerra mondiale, la vicenda a
seguito della quale i sudtirolesi si trovarono contro
la loro volontà inclusi entro i confini dello
Stato italiano.
In forma di arco trionfale romano in marmo
bianco, ornato tuttora di giganteschi fasci littori,
e corredato da cubitali iscrizioni latine che celebrano
la nuova frontiera e il diritto-dovere dei latini
di civilizzare i germani, il monumento della
Vittoria di Bolzano è un concentrato di retorica
43
fascista, del tutto in carattere con i tempi in cui
venne costruito. Ciò che sorprende non è dunque
tanto che Mussolini l’abbia fatto edificare,
quanto piuttosto che ad oltre quarant’anni dalla
caduta del regime la Repubblica italiana non abbia
ancora provveduto a farlo demolire. Meglio
tardi che mai: si è sempre in tempo a demolirlo
adesso, ed a seminare al suo posto un bel prato
nell’attesa che, a riconciliazione avvenuta ed
a pacifica convivenza realmente attuata, al suo
posto si costruisca piuttosto un monumento alla
fratellanza inter-etnica degli abitanti della Provincia.
3. Rimozione degli ossari, contenenti i resti di
caduti del ’15-’18 morti in combattimento altrove,
ma situati nel territorio della Provincia.
Con un gusto macabro, peraltro tipico della
cultura dell’epoca, negli anni successivi all’annessione
del Sud Tirolo vennero posti sui nuovi
confini con l’Austria degli ossari contenenti i resti
di caduti italiani nella guerra ’15-’18, intesi
come simbolico sacro presidio della frontiera al
Brennero. Si tratta per soprammercato di resti di
soldati morti in combattimento altrove, poiché
il territorio dell’attuale provincia di Bolzano, sul
quale mai si combatté durante il primo conflitto
mondiale, venne occupato senza colpo ferire dalle
truppe italiane il giorno dopo l’armistizio. Sarebbe
un gesto di rispetto, seppur tardivo, anche
per questi caduti, sfruttati a fini di potenza non
solo in vita ma anche in morte, quello di riportare
i loro resti nei cimiteri militari dei luoghi nei
quali realmente persero la vita in guerra.
Compiuti i tre gesti di buona volontà sin qui illustrati,
il governo italiano – dicevamo – farebbe
bene a riaffrontare globalmente la questione
dell’Alto Adige/Sud Tirolo su basi culturali nuove,
realmente post-nazionalistiche e post-fasciste,
e nello spirito dell’attuazione non di trattati internazionali,
ma dell’art. 6 della Costituzione.
Robi Ronza
“Il Monumento alla Vittoria finisce
così per riunire in sé, simbolicamente,
l’immagine dell’oppressione,
coinvolgendo in questa identità anche
la figura di Battisti, due volte odiato:
da vivo per aver abbandonato
l’Austria e da morto per essere stato
strumento della volontà di snazionalizzazione
del Sudtirolo da parte del fascismo.”
Vincenzo Calì
(Storico e professore)
44

L’ autore
Nerio de Carlo è nato a Basalghelle, non lontano da Portenau/Pordenone
(Friuli) che fu per secoli feudo storico della dinastia asburgica. L’aquila bicipite
figura ancora quale emblema della città. De Carlo si è dedicato per
molti anni all’insegnamento ed attualmente risiede a Milano.
Nerio de Carlo non è inquadrabile in alcuna tendenza politica o didattica,
ma evidenzia un influsso della cultura mitteleuropea, la quale non è una dimensione
statale, ma un destino. I contorni della Mitteleuropa sono infatti
immaginari, come ricordava Milan Kundera, e devono essere ridisegnati al
formarsi di ogni nuova situazione storica.
La sua formazione cosmopolita non deriva dalla scuola pubblica, che egli
non ha praticamente frequentato. Anche la laurea in Lingue e Letterature
straniere moderne è stata conseguita presso un prestigioso Istituto Universitario
non statale.
Oltre a numerosi saggi, egli ha pubblicato le opere di narrativa “Una battaglia
per Sacile”, ”Le stelle forse non esistono nemmeno”, “La leggenda del
Santo Trovatore”, “Il popolo nascosto”, “Andreas Hofer in der deutschen
Literatur”, “La luna e il pozzo”. È inoltre autore delle poesie dell’emigrazione,
del saggio storico “1866. L’anno delle cicatrici” e traduttore dal tedesco
di fiabe per la gioventù, dell’antico manoscritto frisone “Ura Linda”,
del “Memorandum per Lethbridge” dell’Imperatore Carlo I d’Asburgo,
del libro di Erich Feigl “Mezzaluna e Croce: Marco d’Aviano e la salvezza
d’Europa”, nonché del documentario dello stesso Feigl “Una battaglia per
Vienna”.
Il suo interesse per la Grande Guerra l’ha portato a realizzare sia i quattro
volumi “1918 - l’anno del Piave”, “La battaglia del solstizio”, “La guerra
nelle retrovie del Piave” e “Dialettica dell’armistizio 1918”, sia il testo del
filmato “Sulle orme della Grande Guerra”.
Opere in preparazione: “Àna Katarina” e “Dossier delle villanie ricevute”.



L’ E S T R E M A (F) U N Z I O N E

“La vera patria è quella in cui si incontra
il maggior numero di persone che ci assomigliano”

(Stendahl)


Le assonanze del titolo non confondano. Non alludono a un Sacramento e nemmeno a un Rito, ma a un esercizio di logica in senso storico, linguistico, umano. Stupisce che a Oderzo, dove esiste uno dei più prestigiosi istituti scolastici, non siano emerse riflessioni sociostoriche sulla realtà, ma si insista piuttosto in errate attribuzioni peraltro smentite da testimonianze archeologiche. Un’insinuazione maligna attribuisce tale carenza a buona educazione coloniale. Si preferisce tuttavia pensare che la storia sia una grande maestra, ma che taluni scolari siano scadenti.

Tutte le civiltà lasciano tracce. L’archeologia è la scienza che si occupa delle antichità nei loro rispetti con la storia e con l’arte. Le lapidi rappresentano le orme e le vestigia più evidenti di un’epoca per la loro leggibilità e contiguità con i concetti fondamentali del tempo, che i Greci denominavano “Kairos” e “Kronos”: il tempo di Dio, che trascende la dimensione temporale, e il tempo degli uomini che regola la storia terrena. Le lapidi sono come le meridiane: non basta ammirarle, devono anche segnare il tempo giusto.
Il Museo archeologico di Oderzo ha un notevole numero di lapidi in latino, che nell’antichità era la lingua di comunicazione. Le epigrafi sepolcrali, autentiche ombre delle ombre, sono numerose. Per subalternità culturale si sostiene che si tratti di iscrizioni romane. Sarebbe come dire che Parigi è inglese perché molte Istituzioni usano correntemente la lingua inglese. Il contesto chiarisce che Parigi è francese e ogni mascheramento è infondato.
Le lapidi opitergine sono interessanti. Esse suggeriscono tuttavia che la cultura e la storia hanno bisogno di idee trasgressive. Lo storico Theodor Mommsen (1817 – 1903) fu a Oderzo nel 1857 per decifrarle. In quell’occasione egli notò che mancavano 36 iscrizioni riportate dalla tradizione.“I danni della storia inibiscono la creatività innovativa”, ammonì Friedrich Nietzsche. Un esame delle iscrizioni opitergine, tenendo presente il fondamentale testo di B. Forlati Tamaro, può fornire indicazioni anagrafiche sulla popolazione del tempo, ricordando che “gentilizio” significa appartenete alla gens o gruppo parentale, “cognomen” distingue un individuo all’interno della gens e “patronimico” è la parte del nome di persona che indica la discendenza paterna.

1) Marco Fulvio Marcellino seviro di Concordia e di Oderzo (pose) a sé e alla moglie, la liberta di donna Renna Ligide e lo fece vivente. [2° sec. D.C. – Marcellino è forma latinizzata dell’istriano Marcusenus.- Il sevirato era una carica onorifica concessa annualmente alla nobiltà locale. Da non confondersi con gli omonimi sacerdoti augustali, riservati a Roma].
2) Soldato della XIV legione Gemina nella centuria di Lucio Acirio, militò per 19 anni, visse 43 anni. È qui
sepolto [Il ritmo delle frasi brevi filma gli avvenimenti].
3) A MarcoLetorio Patercliano figlio di Marco della tribù Papiria, quattorviro per la seconda volta, addetto
all’erario, salio, patrono del Collegio… [1° sec.d.C. – sacerdote salio.- Laetorius era etrusco: un liberto.- I quattorviri curavano il censimento della popolazione ogni 5 anni (ufficiale dello stato civile) e dovevano essere di condizione agiata. Dal 90 a.C. sostituirono i duoviri, che erano un organo collegiale di governo nelle colonie composto da due persone].
4) C(aio) Ato C(ai) f(ilio) [Ato è insolito con una sola “t” – Si tratta di composizione gallica del venetico].
5) C. Calpurnius / C(ai) f(ilius) Calavo [Il nome è di origine etrusca, ma non necessariamente toscana].
6) C(aius) Craminius Q(uinti) f(ilius / Junianus [1° sec. d.C. Il suffisso in –anus indica un figlio adottivo – derivazione preromana].
7) Marco Cespio Optato figlio di Marco fece da vivo alla nonna, alla sorella, al padre [Optato è frequente tra
gli schiavi – periodo giulio-claudio]..
8) Tito Crutonio figlio di Tito [Stele – Il nome con 2 cognomi denota origine etrusca].
9) Have mihi / Heracle fili /incomparab /ilis qui vixit/ annis VIIII, men /sibus XI diebus /XIII/ Pater pientis/
simus posuit/ filio merenti [[2° sec. d.C. – rispecchia il dolore del padre, servo di scarsa cultura ma con
sentimento profondo. La processione dei dati scolpisce il profilo dei personaggi].
10) M(anius) Laelius P(uli) f(ilius) [1° sec. d.C. – Frammento di lapide sepolcrale – Laelius è un nome di liberto].
11) C(aio) La elio / C(ai) l(iberto) / Optato [1° sec. d.C. – Optatus = cognome di schiavi].
12) A Marco Levio felice, a Calvenzia Marcella figlia di Quinto genitori ottimi fece da vivo Marco Levio Marcello. Sulla fronte piedi XXII, in profondità piedi XLIII [1° sec. a.C. –stele con testa di Medusa- Levio è
un nome venetico e ricorre nelle zone mistilingue, dove si è conservato qualche termine dell’antica lingua].
13) ...O]ppius P(ubli) f(ilius) 1° sec. d.C.- Non compare il cognomen, circostanza rara. Non era romano].
14) L(ocus) s(epolturae) / Oppi April(is) / in fr(onte) p(edes) XXXII / ret(ro) p(edes) LX [SIl nome “Aprilis” si
riferisce a liberti ed era frequente in Dalmazia, Istria e nelle Venezie].
15) P(ublius) Peticius P(ubli) l(libertus) - Hannibal / Peticia P(ubli) l(iberta) Surisca (due liberti)
16) …et C(ai) Petridi [1° sec. D.C. – Una gens Petridia non ricorre nell’onomastica romana)
17) P(ublio) Pontio (femine) l(iberto)/ Rufioni [coperchio d’urna]
18) [P]opilliae M(anii) f(iliae) Paetillae / Carminia Q(uinti) f(ilia Semprulla/ filiai [urna rettangolare – il nome
Popillia è celtico .- Semprulla è un gentilizio da Sempronius].
19) D(is) M(anibus) s(acrum)/…Probata Fructo/ coniugi s(uo) pentissi/mo publico nidem si/[bi] et viro fortissi/mo in fronte p(edes), VIII/ in agro p(edes) XXXX [Fructus è il compagno di Provata, impropriamente indicato quale marito. Probata è una liberta e Fructus è un servo del Municipio. La stele è del III sec. D.C.].
20) Pupia (feminae) l(iberta)/ Loeme [Loeme è un cognome sconosciuto, non romano.- Urna rettangolare del 1°s.]
21) …ius/…ysius/ a…a Quarta/…si Luci l(iberti) v(ivi) f(ecerunt) /…et [Quarta e Lucio erano liberti].
22) A Gaio Rubrio Capitone figlio di Gaio della tribù Claudia e ai liberti Secondo, Optato e Fusco [3 liberti].
23) Sereno Valerio, Serena Massima mi fecero per il figlio dolcissimo Valentiniano che visse cinque anni, trenta giorni, svanito per immatura morte [lapide sepolcrale fine 1° s.- Sereno è nome derivato dal celtico Sarinus. ].
24) Seconda Fulvia/…Lopenus f(ecit) [ Fulvus non è cognomen romano. Lopenus potrebbe derivare da Lupinis].
25) L(ucius) Seius L(uci) f(ilius) Faustus /T(itus) Seius L(uci) f(ilius) Fronto/ vivi sibi et/ Pisentiai Secund(ai) matri/ Seiai l(uci) filiae sorori [Iscrizione del 1° sec. d.C. dedicata da due fratelli alla madre e alla sorella. Il
gentilizio Pisentia non è comunque romano, ma di origine etrusca].
26) C(aius) Sestius P(ubli) f(ilius) Rufio/…sibi et Fau(stae)… [Sestus è un gentilizio frequente in Istria. Diventa cognomen a Trieste e Concordia. Rufus è invece sia gentilizio sia cognomen - edicola sepolcrale].
27) Marco Socellio Gleno fece fare per testamento per sé e per la madre SocelliaPilisma liberta di Marco.
[L’ara sepolcrale risale alla prima metà del 1° sec. d.C. – Il gentilizio è di origine venetica].
28) Per gli dei Mani della figlia Turelia Terza il padre Tito Turellio Tuberone figlio di Tiberio ordinò che fosse fatto [1° sec. a.C. – Tuberose allude a un difetto fisico. Turellius è un gentilizio di origine venetica].
29) L(ucius) Valerius/ Megabocchus [Il cognomen allude al celtico: manca infatti il patronimico – ara sepolcrale]
30) Sepolcro di Tiberio Varo figlio di Tiberio, di Caio Varo figlio di Tiberio, di Tito Varo figlio di Tiberio Luogo della sepoltura sulla fronte piedi 30, in profondità piedi 70 La gens Varia era di origine locale, non romana] .
31) A) – Publius/ Veneteius P(ubli) [l (ibertus)] / Philostratur…
B) - P(ublius) Veneteius P(ubli) [l(ibertus)…] / sexvir arcum s…/ sibi patrono p(osuit)…
[Epistilio (architrave o elemento architettonico orizzontale) del 1° sec. d.C. – Veneteius è logicamente
gentilizio da “Veneti”].
32) Vettia C(ai) f(ilia) /t(estamento) f(ieri) i(ussit) (Vettia, figlia di Caio, ordinò che fosse fatto per testamento)
[Vettia era una liberta – Il cognomen manca, ma non per la condizione sociale: si usava talvolta per le donne].
33) Gaio Vettio liberto diGaio fece per sé da vivo e per la moglie Arutia figlia di Tiberio [Gaio Vettio era un
liberto che aveva sposato una donna di origine etrusca, probabilmente anch’essa liberta].
34) Volcenia Marcellina figlia di Lucio lastricò l’area e la circondò con un parapetto [ Lapide incorniciata –
Il nome della donna deriverebbe da Volginius, comune nel territorio istro-veneto].
34) Quinto Carminio Filerone, sciogliendo un voto, dedicò un altare alle Vires [Iscrizione del 3° sec. d.C. –
Il cognomen è di sicura derivazione germanica - Le “Vires” erano divinità locali].
35) AGaio Sempronio Cassiano figlio di Gaio della tribù Papiria Lucio Rgaonio Quinziano fece fare per
Testamento al figlio dell’amico [L’iscrizione risale alla fine del 2° sec. d.C. e la gens Ragonia era tipica di
Oderzo].
36) AGO [Potrebbe essere un frammento di “Ragonia” – Lastra spezzata].
37) Tito Ennio Planco [Iscrizione del 2°/3° sec. d.C. – Poiché manca l’indicazione della tribù, si tratterebbe di
uno straniero non identificabile].
38) Lucio Rattio figlio di Sesto fece da vivo per sé, per i suoi e per la oglie: al padre Sesto Rattio figlio di Quinto,
alla madre Cassia figlia di Sesto [Prevale una serie di “ordinali”. Si potrebbe trattare di liberti].
39) RO.MA.NUS [Scritta su un mosaico risalente al IV sec. d.C. in cui si vedono un uomo e un cane.- Il nome
sarebbe quello del levriero.- Sono singolari i punti tra le sillabe. È probabile che il mosaicista
li abbia inseriti per riempire spazi vuoti. Horror vacui? L‘uso era frequente anche nelle iscri=
zioni venetiche].
40) Al signore nostro imperatore Cesare Marco Aurelio Valerio Massenzio pio, felice, invitto, augusto I.
[Miliario = colonna in pietra che sulle strade maestre segnava ogni miglio il numero delle miglia da Roma].

Nella lista sopra riportata non compaiono Romani, ma soltanto nomi praticamente locali a eccezione, s’intende, dell’ultima iscrizione recante tutte le attribuzioni spettanti all’Imperatore. Ci mancherebbe altro!
Prevale la presenza di liberti.
Bisogna premettere che gli schiavi erano semplici “cose”, res vivente senza alcun diritto.La condizione di schiavitù era riservata agli stranieri per sconfitta militare o indebitamento. Il costo di uno schiavo oscillava tra i 1200 e i 2500 sesterzi, tenendo presente che un sesterzo valeva circa 2 Euro alla fine della Repubblica. I ricchi potevano avere 10.000 e anche 20.000 schiavi, che potevano anche venire affittati. Gli approvvigionamenti maggiori di schiavi derivarono dalle popolazioni dei Cimbri e Teutoni (15.000 negli anni 102 – 101 a. C.) e della Gallia (un milione negli anni 58 – 50 a.C. ai tempi di Cesare). Nel secondo secolo d.C. il mantenimento degli schiavi costava troppo e fu possibile rimetterli gradualmente in libertà. La legge Fufia Canina consentiva nell’anno 8 a.C. l’affrancamento di un quinto degli schiavi.- I “liberti” avevano in media 30 anni e, dopo la terza generazione, acquistavano tutti i diritti civili. Ebbero non poche benemerenze imperiali: da Claudio per avere armato navi commerciali con i loro risparmi, da Nerone per i loro capitali impiegati nell’edilizia, da Traiano per avere aperto forni. Augusto autorizzò perfino matrimoni tra liberi e liberti.
Se i liberti erano schiavi affrancati, non potevano quindi essere stati romani!- Ancora meno i militari delle legioni. Queste erano già da tempo costituite da Illiri e Germani. Alla fine del servizio, che era stato aumentato da 16 a 20 anni dall’anno 6 d.C., i congedati ricevevano quale “liquidazione”, come oggi si direbbe, un pezzo di terra. Si costituì in tal modo il tessuto più numeroso della popolazione, cioè la componente agricola.
A questo punto spiace per quanti a Oderzo provano entusiasmo per le loro ascendenze romane. Altrettanto dicasi per i relativi finanziamenti, che sembrerebbero attualmente cessati. Uno spettro si aggira inoltre nella storia: il sospetto (tuttavia improbabile dati i tempi) che le iscrizioni, di cui Mommsen lamentava la sparizione, dimostrassero la vera composizione della popolazione e fossero, quindi, state fatte sollecitamente sparire. Alcuni maligni hanno insinuato (con maggiori probabilità, considerati ora i nostri tempi) che la sottrazione potrebbe anche ripetersi per le iscrizioni sopra riportate. Anch’esse disattenderebbero, infatti, talune illusioni genealogiche. A pensar male si commette peccato, ma si indovina, è stato autorevolmente sostenuto.
L’eventualità sarebbe tuttavia da escludersi. Al massimo potrebbe verificarsi qualche danneggiamento. Si ricordi la famosa lapide apposta nel palazzo Amalteo nel 1824 e frantumata nel 1866, colpevole di aver tramandato una bella pagina di storia autentica della città. Non si riesce a ripristinarla!- Neppure da escludere sarebbe, inoltre, un subdolo silenzio sui celebri reperti da parte della scuola e della stampa. La limitazione della cultura è come una limitazione della libertà religiosa. Per il resto distinguere il vero dal falso non è più compito di chi scrive, spetta invece a chi legge.

(Pubblicato da "IL DIALOGO", Oderzo, giugno 2011)





















1 Comments:

At 3:17 PM, Blogger BLOG NEWS said...

Complimenti per il post veramente interessante ti invito a visitare il mio http://newsfuturama.blogspot.com/ ciao

 

Post a Comment

<< Home