Friday, July 27, 2012

Monday, July 16, 2012

Poesie II

POESIE BORSA NERA E’ mancanza di cielo, oppure di ritegno nativo, questa insufficienza di memoria, che per tutti i sensi stringe il cuore? Un tempo i configli furono sollecitati al pietoso esilio. Dov’ erano allora i corvi stonati, e i pioppi dalla scorza screpolosa, e le rondini migratrici dalle lunghe ali? Dov’ erano allora i sindaci con le fusciacche, e la levatrice con la borsa nera, nella quale anche noi figli superflui eravamo stati portati, come si credeva? BASALGHELLE Momento sottratto al tempo e buco di serratura, oltre il quale si vede vegetare la natura. Il Rasego offre un impercettibile gorgoglio e un silenzio strano con odore di trifoglio. Le Baite sono una favola al chiaro di luna, che rammenta la gioventù, anzi la cuna. Qui “bilussèra” significava una vigna piana di vin moro come quello delle nozze di Cana. NOTTE SOLSTIZIA La rugiada nelle notti di plenilunio sui prati di Basalghelle parlava di sé. Solo le punture delle zanzare e le prime stelle cadenti parlavano di me, esortando cancellazioni di volti dimenticati. RUMORI Mi hai fatto finora sentire, per telefono, le fusa sognanti del tuo gatto. Vorrei domani sentire, per telefono, il battito superlativo del tuo cuore. MORÓSI Un putinòt de pàja e de bavèla co un piriòt pàr capèl sòra rovessà, un trversòn co-e tiràche de cordèla e un tabàro de velùdo tùt sbregà. El jèra inpiantà in cào al gavìn pàr badàrghe a stornèi, panegàsse parùssoe, thavàtoi, gardelìn e po’ a cheàltri osèi che no pàga tàsse. In te-a scarsèla a màn drèta ti te metèa do rìghe co un cuòr; a màn thànca in te-a sachèta mi te metèe do rìghe co un fiòr. Un dì ti le me paròe no te à pì ciòt e no te savarà mài cuèl che mi ‘vèe da dàr. Te pòl sòl che insognàrte un putinòt de pàja e de bavèla, che te fa penàr. STAGJÓN La bròsa la incipria i Prà dei Gài come ‘na scjùma de colòr ingjathà. ‘Ndòve e-li pô i gardelìn incantài, i tavàn e le pavèle de ‘sto istà passà? CONSOLAZIONE Che prezzi sul mercato per anguille, tinche e pesce gatto! Stanotte ci siamo incontrati gli Apostoli Simone, Giacomo, Giovanni ed io per pescare di frodo oltre il ponte, dove il Rasego corteggia la calta palustre. Era di vedetta un martin pescatore. ELSA Mai più fremito triangolare di scialli con frange, la calta palustre non occhieggia più nei fiumi del Ducato Longobardo. Ora te lo posso dire, perché sei morta. Non più veglie nelle stalle d’inverno E non più tonfi di rane nei fossi rancidi. Ora te lo posso dire, perché sei morta. Non rogazioni bramose per prati abbrustoliti, non macine in umiltà lungo la Restèja muscosa. Ora te lo posso dire, perché sei morta. Fazzoletti neri non annuvolano più capi canuti. Come falchetti novelli sulle torri dalle caviglie sottili. Ora te lo posso dire, perché sei morta. Mai più fremito triangolare di scialli con frange, mai più peschi selvatici lungo i filari. Ora te lo posso dire, perché sei morta. LA STRADA DELLE BAITE Stelle alle tre del mattino, questo è un sentiero femminile, voglia materna di gracidar di zoccoli. Il ronzante tornar delle api sfoglia l’aurora, chiude a chiave nostalgie d’anime dimenticate in madie con la notte per tesoro nascosto. La strada delle Baite è traccia di bambina, vita di scorta per emigrati lontani, respiro di campi blasonati di sudore. Qui l’orologio d’erba segna un altro tempo: minuti di trifoglio finiscono in gridio di passeri e l’ora di girasole va in clausura. VITA DA FIORE Non è poi male un giorno da girasole. Già la statura aiuta non poco: sono alto abbastanza per badare a me stesso. Di mattina presto offro al sole novello La misteriosa equazione di stami e pistilli, che gli umani chiamerebbero cuore. A che serve il cuore se non lo si offre? Con stanca coscienza reclini infine il capo Ed è subito ombra di breve tramonto. IL VINO Appena c’incontrammo, mi chiedesti come si dice vino nella mia lingua. Forse collezionavi bevande d’ogni paese, per una nuova, assetata poesia, o volevi forse solo gustare in bocca lo strabico sapore della parola veneta. Quando c’incontrammo, dopo anni nel vasto mondo, ripetesti felice e tremante “Cabernet”: mi sembrava d’aver trovato una moneta d’oro sull’argine erboso del Monticano. VENDEMMIA Il Monticano infila i paesi come perle e la vite di Cabernet è gravida di nove mesi: domani si recide il cordone ombelicale ai grappoli. Nella morbida sera d’autunno una susina di sole illumina le figure di questo libro della natura: Vespe son giunte da Basalghelle e Lutrano, coccinelle da Mansuè, Vallonato e Fontanelle, farfalle e storni golosi da Camino e Ormelle. Nei cesti cadono perle agognate da passere spruzzate, sapori tra il limone e la magnolia, reliquie del crepuscolo della vigna. TELEFONO PUBBLICO Le cabine stanno appartate e contigue sulla piazza silente accarezzata dallo scorrer del Monticano. Quando cadde l’ultima moneta, avevo ancora una cosa da dirti: “Sei impagabile!” AMORE Non sei né maschile né femminile, ma vengo sempre volentieri da te. Non sei né maschile né femminile, ma ti preferisco a ogni bene. Non sei né maschile né femminile, ma nulla ti supera in bellezza. Non sei né maschile né femminile, ma t’amo tanto, paese mio. NOTTE OPITERGINA I passeri dormono sotto le tegole del tetto, come i tuoi occhi sotto le ciglia di velluto: io mi vesto di parole per coprire il silenzio nel mio cuore. CONFUSIÓN Ànca incuò l’è un gràn busnàr in tèl vènt, ma Ulisse nôl vôl scoltàr le Sirène: ghe piàse de pì stàr co Circe in tèl seràgno. I pàrla de Tròja, che no la è pì, e de Itaca, che un dì o cheàltro la pôl èsser: i porthèi in scjàp i spèta ronthegàndo. MONTICANO Un filo di luce liquida che scorre tra argini verdi come il mormorio del tempo non addomesticato da clessidre. Odore di polline muschiato aroma di pascolo povero fiume d’acqua e di tempo e, a Pentecoste, notturno rosario di rane. ORTICA Il destino dell’ortica è di non essere amata. Non si compra, non si vende, non si offre. Cresce anche nei cimiteri di campagna e nell’aria dei ricordi è velluto pungente. LIBRO D’ORE Chi conosce il ritmo degli uccelli, sa sempre che ora è. Ogni specie ha il suo orologio che segna il tempo senza sbagliare. Alle due di notte il solitario usignolo che aveva già trillato la canzone serale; alle tre del mattino l’allodola e un’ora dopo il gallo per la prima volta; puntuali a distanza il cuculo e la cincia, la capinera, lo strillozzo e il canarino. Gracchia infine il raro corvo ed è subito nostalgia di rugiada. IL MULINO Lungo la Restèja c’era un mulino con la ruota di legno muscoso: schizzi d’acqua amoreggiavano con l’ombre e quando il sacco era pieno, la ruota si fermava. Anche la luna veniva talvolta ad attingere acqua e più in là s’udiva un rider di ragazzi; i salici piangenti invidiavano il pesce gatto e la sera giungeva ancheggiando come una bella donna. Or sembra quel luogo un pozzo murato, un’epoca sepolta sotto un cielo meravigliato. Quando passa il funerale, non farti il segno della croce: il sacco era pieno e la ruota s’è fermata. 17 MARZO Il cielo era coricato sul lato sbagliato stanotte e il fratello moriva con un respiro, com’era nato. Mancavano quattro giorni all’arrivo della primavera, ma la fine impietosa non volle attendere. L’agile capinera vigile sul tiglio grande citerà la morte in giudizio per questo delitto. POETI All’angolo della mia strada Mi ha chiesto uno sconosciuto: “Dica, per favore, le poesie s’incidono sulla pelle degli uomini? E le mani dei poeti sono rosse per le tracce dei loro versi? Me lo dica, per favore, lei dovrebbe saperlo”. LA MIA TERRA La mia terra aveva i gelsi con le more bionde e blu. La mia terra aveva i larìn affumicati, ora usa termosifoni di ghisa colorati La mia terra non è più come la vedo nei miei sogni brevi come un bruco: folte siepi di umile sambuco con le foglie verdi e bacche blu. La mia terra non legge i miei versi appassionati, scritti in esilio in momenti disperati. La mia terra, una sera che è un po’ distratta, me la prendo e nessuno saprà dov’è andata. Chissà se la mia terra mi accoglierà clemente quando morirò: tanto è l’ultima volta, veramente. La mia terra, la mia terra! Ma la mia terra non c’è più. MEMORIA Ricordi fratello mio, tanti anni fa? Era il mese dei crisantemi, bellezze d’autunno, e trovammo sul prato una farfalla morta. Piegammo le ali, piano per non romperle, la chiudemmo per la sepoltura in un guscio di noce: tu aggiungesti un tardivo nontiscordardimé. Ora tu sei la farfalla morta. Ti sigillo nel guscio del mio cuore E aggiungo mesto: non ti scordar di me. AMICIZIA Tocchi le cose con le dita come le vespe carezzano i pistilli di un giovane fiore platonico. Ci sveglieremo sul fare del giorno in un luogo dell’anima incorniciato in un’icona del Trecento.: m’insegnerai a toccare aureole con le dita, come i ricordi sfiorano miracoli rifiutati, mentre foglie gialle cadono intorno. PREGHIERA DEI FIORI Conosco un falciatore antico: il suo nome è morte. Dal Signore ha avuto il suo potere. All’aurora affila la falce con la pietra; verso sera il filo sarà già tagliente: tremate, bei fiorellini! Quanto è ora verde e fresco, spento sarà domani: nobile narciso, grazioso giacinto, tremate, bei fiorellini! Cadranno in tanti sotto la falce: roselline rosse, gigli bianchi, corone imperiali: tremate, bei fiorellini! Veronica turchina, tulipani gialli e bianchi, argentee campanule, fiocchi dorati, tremate, bei fiorellini! Lavanda odorosa, rosmarino fragrante, eringio spinoso, superbi giaggioli, Tremate, bei fiorellini! Crespo basilico, tenere viole, tutti sarete raggiunti: tremate, bei fiorellini! Solo la gramigna non teme la falce. Recisa, vivrà trasferita altrove. Rallegrati, bella piantina! DISPETTO ALLA MORTE La fine arriverà come nuvola d’aghi e troverà soltanto un sacco vuoto: quanto poteva ardere è già arso. La fine arriverà come battito d’ali e troverà soltanto la stanza buia: quanto poteva spegnersi è già spento. La fine arriverà e sarà un nulla, anche lei. Il nulla non può dare, il nulla non può prendere: è inutile e inesistente il nulla! Quando morirò, mettetemi gli occhiali: vorrei vedere la morte allontanarsi delusa come una mongolfiera piena di pulci. MARIĚTA Un sôl stùf èl se gratèa la schèna sù par i pràteni intorcolàdi e le sisìle le jèra còme paròe in tel messàl vèrt del cièl. ‘Na vecèta co do òcj de genthiàna intànt la me vardèa fìssa, còme ‘na pitùra vignùda fòra dal mùr, còi scufòn de velùdo frugà: “Pòsse dìr de ‘vèr parecjà tùt cuànt: èl fatholèt co-e spènese de sèda turchìna, ‘na còtola inbotonàda, cussì no ‘vè da sgorlàrme. Me mànca sôl che le scarpe de vernìse. Mi vàe a cjòrle mèrcore de matìna in tèl marcà, co tìre la me pensiòn pàr i dò mèsi. Cussì, co vièn la me òra jùsta, sòn bèl che vestìda”. I DUE FRINGUELLI Due fringuelli in una gabbia alta cinquantuno centimetri e larga sessantadue: in fondo una tavola di salice, ai lati due tele di canapa e di fronte una lastra di vetro. Tra i due fringuelli una griglia e qui finalmente uno sportello, chiuso. Un fringuello a destra, uno a sinistra: muti. Sembravano uccelli imbalsamati, ma uno dondolava la testa, piano piano. ERA APPENA MATTINO Era appena mattino ed è già sera, è già inverno ed era appena primavera. Ti avevo appena incontrata nel casale e già eri la mia fiera compagna leale. Appena ieri giocavamo nel cortile, e presto saremo sotto l’erba sottile. La vita è una nuvola passeggera, come soffio leggero su lucida specchiera. LA PAPERONA Aveva sul capo piume a spazzola e virile peluria intorno al becco a spatola. Voleva danzare sulle ninfee tremule dimenticando la propria differenza con le libellule. Ma poteva solo tentennare sulle zampe piatte e illudersi di ancheggiare sopra erbe seccate.. L’ANELLO DI FIORDALISO Avevamo insieme trent’anni o poco più: tu avevi trecce bionde e occhi blu. Ci fidanzammo con un sorriso e per anello scegliemmo un fiordaliso. Quello era il bel tempo lontano, quando si mietevano le spighe a mano. LA CORNACCHIA Aveva incontrato un papero corto di vista e fu veramente amore a prima vista Ella giocava intanto a ping-pong con gli occhi insieme ai merli, tordi e perfino allocchi. Gli anni diradarono poi le piume nere e le rimasero solo le delusioni più vere. BRUGNERA Non credere a chi racconta che non avevamo nulla una volta! C’erano sillabari di margherite da sfogliare nel parco di Villa Varda; rondini leggere ornavano le travi come perle nere a San Cassiano; il vento suonava il flauto nelle grondaie dopo aver carezzato il grano sui campi di Brugnera; anatre starnazzanti tornavano ancheggiando dalla verde calma della Livenza… Avevamo anche un raggio di sole che infilava le ore Davanti alla valigia pronta per migrare. Fammi dunque capire, o Signore, se questa è nostalgica preghiera, oppur bestemmia! SETTEMBRE Tra i miei gerani sul balcone sono spuntati due funghi marrone. Sembrano fraticelli in orazione. SAN MARTINO Le barcollanti papere di maggio son diventate oche con maestoso piumaggio. RICORDI E SOGNI I ricordi hanno sete verso sera e si accostano alla fontana rotonda. Si vestono di sembiante e voce del primo che capita, a caso. Entrano in cucina e la madre non c’è: è sempre nel pollaio a quest’or! I ricordi non hanno nulla da imparare e ne puoi avere tanti, come i sogni. LUCIA Non dimentico mai quel giorno di funerale: l’aria era gelida e autunnale. Mia sorella morta aveva freddo nella bara e la copristi col tuo abito da sposa del destino ignara. AGOSTO Le querce han scacciato le loro ombre desolate, che ora stanno distese a terra per raccogliere le ghiande ossigenate. I suini discutono nell’angusto porcile se sia meglio vivere da maiali o pendere come salami per il battesimo d’aprile. AMICIZIA Amabile contatto di antenne tra formiche dello stesso formicaio. IL MAZZARIOL Vestito come il colore di due papaveri, non si sa bene se fosse uomo o spirito. Seguiva i buoi da un mercato all’altro, dormiva sulla paglia o sul fieno. Una donna di Brugnera ebbe pietà di lui E gli procurò una camicia senza pezze. Le rispose con le labbra morte di sonno: “Poènta e lât jòva, e no camìsa nòva”. Paese mio, come conduci i tuoi buoi al mercato, ora che il Mazzariol non li può più seguire? Paese mio, che hai mai fatto, perché il Mazzariol non intrecci più code di cavallo? (Quaderni del Lombardo-Veneto, N. 41, pag. 82, Padova 1995) VENERDI’ SANTO Il corniolo ha foglie bianche con profilo simile ai chiodi con cui Cristo fu Crocifisso. Questa è la punizione per non aver portato il lutto nel giorno della morte del Signore. MICROFAVOLA La vecchia Mariéta raccontava storielle di sera nella stalla a Basalghelle: “Cenerentola era nel ballo bella e leggera come nel cielo una nuvola senza federa. Il tempo passava e a mezzanotte puntuale l’aspettava la lussuosa carrozza regale. Nella fretta perse però una scarpetta, che permise di essere riconosciuta in fretta. Se allora ci fosse stata l’ora legale, tanta premura sarebbe sembrata inusuale”. SUPERSTIZIONE “Per il cimitero il primo sentiero a destra dopo la chiesa di San Giorgio. Non può sbagliare perché ci sono i cipressi”, mi spiegò nel giorno dei morti uno sconosciuto. Un gatto nero stava guardingo sul ciglio, quando arrivai convinto che non sia utile morire per fare esperienza della morte. Appena mi vide, il micio rinunciò ad attraversare. La tramontana, vento che asciuga la rugiada, consegnava al cielo un soprabito di nuvole comprato in un negozio del Monte Cavallo. U T I L I T Á A che serve un orizzonte più vasto? Perché mai una luna più piena? Che farsene di un quarto di sorriso? A che serve poi la notte oscura se il giorno viene e se ne va comunque? MORTE E VITA Presso il muro del cimitero di Basalghelle un fiore di malva dalle corolle rosee mi chiese: “Credi che la morte abbia sempre l’ultima parola? La morte sembra infine aver vinto contro la vita”. “Oh, no”, risposi, La morte è rischio per i viventi, ma teme di essere inghiottita dalla vita intorno: abeti, trifoglio, ortiche, cardo campestre perfino. La memoria vince poi sempre contro il nulla”. L A P E S C A Il ponte legnoso scavava incerto il fiume. A monte la nassa di vimini con bocca a ritroso ingoiava anguille, tinche, lucci, carpe, persici e pesci gatto perfino. Ma a valle i girini erano della natrice verdiccia. Nessuna lite risulta essere stata tra i due. N O T T E A che serve mai la buia notte con le braccia nude e senza peso? Essa abbraccia la sera ormai sbiadita e svanisce quando il sole appare: come un circolare ritorno dei minuti nel solitario orologio del campanile. La notte serve forse ad avere paura che certi sogni si avverino? E se invece servisse a convincere che, come si osserva da terra una “Luna piena”, dovrebbe essere altrettanto possibile vedere dalla luna una “Terra piena”? R E Q U I E M Nur noch eine Weile, Ancora un poco und es ist Zeit, sich zu verabschieden. ed è già tempo di addii. Siehst du die Kalender an der Wand? Li vedi i calendari alle pareti? Auf einem ihrer Blätter steht das genaue Datum Nei loro fogli è segnata meines Todes. anche la data esatta della mia morte. Ich werde es nicht überprüfen können, Io non potrò verificare, aber ich weiβ genau, dass es so sein wird. ma so bene che sarà così. Die Stunde meines Todes fehlt noch, Manca tuttavia l’ora della mia morte, aber alle Augenblicke sind an ihrem rechten Platz ma tutti i momenti sono al loro posto wie die schwarzen Tasten auf der Klaviatur. come i tasti neri nel pianoforte. S U C C E S S O Es ist das Totenfest È il giorno dei morti und im Friedhof duftet es nach Wucherblumen. e in cimitero c’è odore di crisantemo. Die Heckenzäune scheinen älter als die Weiden Le siepi sembrano più vecchie dei prati und sie schützen mütterlich vorsichtige Primeln e materne proteggono primule guardinghe. Heute Abend habe ich jedoch Eppure stasera ho strappato un sorriso einer Trauerweide sogar ein Lächeln entriβen. perfino a un salice piangente. Die Grasmücke zwitschert im Gebüsch La capinera cinguetta nel cespuglio wie eine Klingel der Elevation. come un campanellino dell’Elevazione. STUNDENBUCH – LIBRO D’ORE Siehst Du die Kirchturmuhr? Lo vedi l’orologio del campanile? Sie hat zwölf Gänseblümchen auf dem Zifferblatt: Ha dodici margherite nel quadrante: sechs rechts und sechs links, sei a destra e sei a sinistra, siebenhundertzwanzig Blütenblätter insgesamt. settecentoventi petali in tutto. Hörst Du die Kirchturmuhr? Lo senti l’orologio del campanile? Sie erinnert daran, dass wir hier zu zweit zählen: Rammenta che qui siamo in due a contare: ich zähle ihre Stunden io conto le sue ore und sie zählt die meinen. ed egli conta le mie. Wozu dienen denn die Stunden, A che servono infine le ore wenn man sie nicht zählt? se poi non si contano? R E Q U I E M Nur noch eine Weile, Ancora un poco und es ist Zeit, sich zu verabschieden. ed è già tempo di addii. Siehst du die Kalender an der Wand? Li vedi i calendari alle pareti? Auf einem ihrer Blätter steht das genaue Datum Nei loro fogli è segnata meines Todes. anche la data esatta della mia morte. Ich werde es nicht überprüfen können, Io non potrò verificare, aber ich weiβ genau, dass es so sein wird. ma so bene che sarà così. Die Stunde meines Todes fehlt noch, Manca tuttavia l’ora della mia morte, aber alle Augenblicke sind an ihrem rechten Platz ma tutti i momenti sono al loro posto wie die schwarzen Tasten auf der Klaviatur. come i tasti neri nel pianoforte. R Ä T S E L - M I S T E R O Ach, Frau Mutter, was ist denn die Geburt? Es ist das Ankommen aus der vorangegangenen Nichtexistenz. Done Mari, che è mai la nascita? É un arrivo da una precedente non esistenza Ach, Frau Mutter, was ist denn der Tod? Es ist die Rückkehr zu dieser Nichtexistenz. Done Mari, che è mai la morte? É un ritorno alla susseguente non esistenza Wir werden nicht vom Nichts verschlungen. Wir kehren einfach dorthin zurück, woher wir kamen. Non verremo inghiottiti dal nulla: torniamo soltanto da dove siamo venuti. Wir werden wunderbare Energie sein, unbeschwert vom Körper und, vielleicht, im Andenken weiter bestehen. Saremo nella mirabile energia inorganica senza gravità del corpo e, forse, dei ricordi. Wir werden leuchtende Punkte in der Milchstraβe oder an einem anderen guten Ort sein. Saremo punti luminosi nella Via Lattea o in qualche altro luogo niente male. E R F O L G - S U C C E S S O Es ist das Totenfest È il giorno dei morti und im Friedhof duftet es nach Wucherblumen. e in cimitero c’è odore di crisantemo. Die Heckenzäune scheinen älter als die Weiden Le siepi sembrano più vecchie dei prati und sie schützen mütterlich vorsichtige Primeln e materne proteggono primule guardinghe. Heute Abend habe ich jedoch Eppure stasera ho strappato un sorriso einer Trauerweide sogar ein Lächeln entriβen. perfino a un salice piangente. Die Grasmücke zwitschert im Gebüsch La capinera cinguetta nel cespuglio wie eine Klingel der Elevation. come un campanellino dell’Elevazione. N A C H T - N O T T E Für eineTröstungsnacht Per una notte di consolazione reichen Dunkel, Fledermäuse und Einbildung. bastano buio, pipistrelli e immaginazione Wenn di Fledermäuse fortfliegen, Se i pipistrelli volano via genügen das Dunkel und die Einbildung. bastano il buio e l’immaginazione. A U β E R O R D E N T L I C H K E I T - I N C O N S U E T U D I N E Wo stecken denn die Ureigenheiten Dove sono infine le particolarità des Baums, der Schlange, der Frucht dell’albero, del serpente, del frutto und der Erbsünde im Eden? e del peccato originale nell’Eden? Die Blätter des Gutes und des Bösen Le foglie del bene e del male sind schlieβlich unerkennbar. sono infine indistinguibili. Die eigentliche Ungewöhnlichkeit steckt L’unica originalità consiste im Klageschrei der zwei Vertribenen: nel lamento dei due profughi: „Ach, Liebe, wunderbare Begegnung „Oh, amore, prodigioso incontro von zwei freien Willen! di due libere volontà! Von dir sind wir nur der Beginn!“ Di te noi siamo solo il principio!“ H O L Z S C H U E - Z O C C O L I “Mutter, was ist eine Gerberei? „Mamma, che cos’è una conceria?“ „Es ist ein Ort, wo man die Felle gerbt“. „È un luogo dove si conciano le pelli“ „Und wer gerbt die Felle?“ „E chi concia le pelli?“ „Der Gerber, mein Kind“. „Il conciatore, figlio mio“. „Mutter, was macht man mit den gegerbten Häuten? „Mamma, che si fa con le pelli?“ „Man macht das Leder“. „Si fa il cuoio“. „Und was macht man mit dem Leder?“ „E che si fa con il cuoio?“ „Man macht die Lederschuhe, mein Kind“. „Si fanno le scarpe, figlio mio“. „Mutter, wer fertigt die Lederschuhe an?“ „Mamma. Chi confeziona le scarpe?“ „Der Schumacher fertigt die Lederschuhe an“. „Le scarpe le fa il calzolaio“. „Mutter, wer trägt die Lederschuhe?“ „Mamma, chi le porta le scarpe?“ „Wie kann ich es wissen, „Come può saperlo chi ha portato wenn ich nur Holzschuhe kenne, mein Kind?“. soltanto zoccoli, figlio mio?“. G U T U N D B Ö S E - I L B E N E E I L M A L E “Erlöse uns von dem Übel“ „Liberaci dal male“ (Mt. 6,13) (Mt. 6,13) In der Sixtinischen Kapelle L’albero della conoscenza del bene e del male ist der Baum der Erkenntnis geschraubt. è contorto nella Cappella Sistina.. Wir sprechen über Gut und Böse Noi parliamo del benen e del male wie von einer neutralen Sache. come di qualcosa di neutro. Wir sagen nie, daβ das Böse Non diciamo mai che il male schon anfangs ei scharfer Stratege war. fu un sottile stratega fin da principio. Es gibt nur ein Gut: Das Wissen, C’è un solo bene: la conoscenza, die Kenntnis der Dinge der Welt. la coscienza delle cose del mondo. Es gibt nur ein Böse: Die Unwissenheit, C’è un solo male: l’ignoranza, die Unkenntnis der Dinge der Welt. il non sapere le cose del mondo. Nur das Gut ist verseuchbar. Solo il male può essere inquinabile. Das Böse geht von jeder Schaubühne aus, Non il male, che esce intatto wie es unberührt aufgetreten war. da ogni situazione com’è entrato. Gut und Böse sind schon Querkategorien Bene e male sono categorie trasversali in der einzelnen Person: Stellen wir uns già nella singola persona: figurarsi also in den historischen Ereignissen vor! quindi nelle vicende storiche! Das Böse ist die Unterlegenheit der Jugend Il male è l’inferiorità della giovinezza und die Fülle des reifen Alters ganz allein: e la pienezza della maturita lasciate sole. Es ist zu leicht, es in Deutschland einzuschränken. È troppo facile circoscriverlo alla Germania. Die Toren streben nicht nach dem Gut, Gli stolti non tendono al bene, weil sie mit sich selbst schon zufrieden sind. perché sono soddisfatti di se stessi. Auch die Weisen streben nicht danach, Nemmeno i saggi vi aspirano, weil sie es schin besitzen. perché ritengono di possederlo già. Der Lebensbaum kennt weder Gut noch Böse: L’albero della vita ignora sia il bene sia il male. Die Bösen sind irgendwie verbesserbar, i cattivi sono in qualche modo migliorabili, die Guten aber muβ man behalten wie sie sind. i buoni invece bisogna tenerli come sono. D I E T O T E N - I M O R T I Erinnerst Du Dich, meine Liebe, Ricordi, amore mio, an die zarte Geometrie auf der grünen Weide? la morbida geometria sul prato verde? Sie war kein vom Wind hergebrachtes Blatt, Non era una foglia portata dal vento, sondern ein Spätschmetterling Frostes gestorben. ma una tarda farfalla morta di freddo. Auch für ihn hätte man eigentlich Anche per lei avremmo dovuto in realtà die Sterbegebete sprechen sollen. recitare le preghiere dei morti. B R E N E S S E L - O R T I C A Das grausame Schicksal der Brennessel ist, Il crudele destino dell’ortica nicht geliebt zu werden. è di non essere amata. Man kauft sie nicht, man bietet sie nicht an. Non la si compra, non la si offre. Die Brennessel wächst in abseits liegenden Orten L’ortica cresce in luoghi appartati oder eher in den Friedhöfen, o preferibilmente nei cimiteri, wo die Luft der Erinnerungen rauhen Samt ist. dove l’aria dei ricordi è velluto pungente. S T R E I C H D E M T O D - D I S P E T T O A L L A M O R T E Das Ende wird als eine Nadelwolke ankommen La fine arriverà come una nuvola d’aghi und es wird einen leeren Sack finden: e troverà un sacco vuoto: All das brennen konnte ist schon verbrannt. quanto poteva ardere è già arso. Das Ende wird als ein Flügelschlag ankommen La fine arriverà come battito d’ali und es wird ein dunkles Zimmer finden: e troverà una stanza buia: All das erlöschen konnte ist schon ausgelöscht. quanto poteva spegnersi è già spento. Das Ende wird ankommen und auch es wird ein Nichts sein. La fine arriverà e sarà un nulla, anche lei. Das Nichts kann weder geben noch mitnehmen: Il nulla non può dare e non può prendere: Das Nichts ist unnütz und nicht bestehend! é inutile e inesistente il nulla! Wenn ich sterben werde, setzt mir bitte die Brille auf: Quando morirò, mettetemi gli occhiali: Ich möchte den Tod sehen, der sich vorrei vedere la morte allontanarsi wie ein Warmluftballon voll Flöhe enttäuscht entfernt. delusa come una mongolfiera piena di pulci. D A S L E B E N - L A V I T A Wie der Löwenzahn in voller Blüte ist das Leben Come il tarassaco in fiore è la vita: ein mit weiβen, lockigen, rötlichen und sogar lila un rostro coronato di capelli bianchi e ricci, Haaren bekrönter Schnabel rossastri e lilla perfino. Ein blasen reicht und es zerstreut sich Basta un soffio e si disperde e svanisce wie ein Rascheln einer Eidechse am Abend: come fruscio di una lucertola nella sera: eine Statue aus Luft, die sich langsam verdunkelt. statua d’aria che lenta s’annera. P F L A N Z E N T O D - M O R T E V E G E T A L E Im Geheimbuch auf Elfisch steht es geschrieben, Nel libro segreto in lingua elfica sta scritto daβ alle im Sterben liegenden Pflanzen, che tutte le piante in punto di morte, sowohl Kiefer und Birken wie auch Brennessel und Klee, sia pini che ortica, muovono lamenti unmerkliche Klageseufzer in niederer Frequenz ausstoβen, impercettibili in modica frequenza. Nur die Lerche zwitschert hoch und engelhaft auf den Wiesen Solo l’allodola canta alta e angelica sui prati das Ende von duftenden Veilchen und Ackerwinde, la fine di viole odorose ed erba leporina, von befallender Quecke und immerwährendem Zehrkraut, di gramigna infesta e della perenne betonica, von hohen Hainbuchen und bescheidenem Kohl. di alti carpini e di modesta brassica. L E H R E R I N - M A E S T R A Die unbefangene Biene glaubt im voraus, L’ape ingenua crede a priori daβ es nichts anderes als die Blumen gibt, che null’altro esiste oltre ai fiori welche von bezaubernden Düften kennzeichnet sind. indicati da aromi incantatori. Du bringst uns dagegen bei, wie die betagten Blätter Tu ci spieghi invece come le foglie anziane die Spröβlinge belehren, wie sie sich dem Tau insegnano ai germogli, come offrirsi und den Morgenstrahlen anmutig bieten sollen. con grazia alla rugiada e ai raggi mattutini. B E I N A C H T - D I N O T T E Herbst ist angekommen Autunno è arrivato und mit ihm das Ende jeder Zeit. e con lui la fine di ogni tempo. Die Dunkelheittreibt sich in den Gärten herum, L’oscurità si aggira nei giardini, sie zieht alle Schubladen heraus und kehrt sie um. estrae tutti i cassetti e li rovescia. Träume stehen auf, sie schauen dich an Sogni si alzano, ti guardano und du unterscheidst keine Farbe in ihren Augen: e non distingui i colori dei loro occhi: Träume, welche die Wände durchgehen, sogni che attraversano le pareti um dann im Morgengrauen von sich selbst zu sterben. per poi morire di se stessi all’alba. Nachrschmetterlinge sind nur halb wirklich, Farfalle notturne sono reali solo a metà wie Hände in der Todesstunde. come mani nel momento della morte. Es geschiet gerade wie mit den Tagen: Accade proprio come per i giorni: Sie kommen, sie gehen und keiner titt von derReihe aus. vengono, vanno e nessuno esce dalla serie. K A M I L L E - L A C A M O M I L L A Die Blume ist bescheiden wie lauwarmes Wasser: Il fiore è umile come acqua tiepida: Gelbe Knospe mit vielen Blütenblättern herum, bottone giallo con tanti petali intorno, die man wie eine Wucherblume abblättern kann. da sfogliare come una margherita. Die neidischeFutterwanze hat im Garten erzählt, La cimice invidiosa ha raccontato nell’orto daβ die Wurzel von Mutter Natur als Taufengeschenk che Madre Natura ha donato alla radice den Zauber bekommen hat, nel giorno dl battesimo il sortilegio das nächtliche Zirpen der Grillen in Schlaf zu verwandeln. di sciogliere in sonno il canto notturno dei grilli. Unter den Kerbtieren hat Kamille also wenige Verehrer Tra gli insetti sono allora i suoi pretendenti und nicht mal der kurze, pistillerfahrene Augustwind e anche il vento breve d’agosto esperto in pistilli kommt für eine zweite Liebkosung wieder vorbei. non ritorna per una seconda carezza. H E I M W E H - N O S T A L G I A Du bist weder männlich noch weiblich, Non sei né maschile né femminile, aber ich komme zu dir immer gerne wieder. ma ritorno sempre volentieri da te. Du bist weder männlich noch weiblich, Non sei né maschile né femminile, aber ich sehe dich lieber als jedes Gut. ma ti preferisco a ogni bene. Du bist weder männlich noch weiblich, Non sei né maschile né femminile, aber du kehrst oft in meinen Träumen zurück. ma ricorri sempre nei miei sogni. Du bist weder männlich noch weiblich, Non sei né maschile né femminile, aber nichts übertrifft dich an Schönheit. ma nulla ti supera in bellezza. Du bist weder männlich noch weiblich, Non sei né maschile né femminile, aber ich liebe dich innig, mein Dörfchen. ma t’amo tanto, paese mio. D I C H T E R - P O E T I An der Ecke meiner Straβe All’angolo della mia strada Hat mich ein Unbekannter gefragt: mi ha chiesto uno sconosciuto: „Sagen Sie mir bitte,ritzt man „Mi dica per favore: le poesie s’incidono Gedichte in die Haut der Menschen? sulla pelle degli uomini? Und sind die Hände der Dichter E le mani dei poeti sono rosse wegen der Spuren ihrer Versen rot? per le tracce dei loro versi? Sagen Sie es mir um Gottes willen. Me lo dica, per carità. Sie sollten ed doch wissen!“ Lei dovrebbe saperlo!“ V O R S T E L L U N G - P R E S E N T A Z I O N E Wer sind die gelben Hornsträuche? I cornioli, chi sono? Sie sind Freunde, die der gleiche Wind bewegt Sono amici mossi dall’unico vento und in der Hand breite KelcheRotwein halten. con in mano larghe coppe di rosso: Sie geben uns Rat,den uralten Bosheiten der Welt consigliano di non far caso keine Bedeutung beizumeβen. alle antiche malizie del mondo. Wer sind eigentlich die Feldgrillen? I grilli, chi sono? Sie sind Stimmen aus dunklen Samt, sono voci di velluto scuro die durch die entlaubten Felder ankommen: attraverso l’oscurità di campi sfogliati: Sie dauern bis die Jehreszeit nicht sagen läβt, finché la stagione non manda a dire daβ das Leben ängstliche Erwartung des Nebels ist. che la vita è trepidanteattesa della nebbia. Wer sind schlieβlich die Schwalben? Le rondini, infine, chi sono? Sie sind häusliche Gebete zwischen Himmel und Erde, Sono preghiere domestiche tra cielo e terra ohne Rast und Ruhe ausgeschnittene Silberkrusten, ritagluate da croste d’argento senza pace, Schatten von Erzengeln ohne kübstliches Gebiβ, ombre d’arcangeli senza dentiera die auf die Suchen nach dem Gral unablässig fliegen. alla ricerca gaudiosa e continua del Gral. V O R W U R F - R I M P R O V E R O Man hockt nun wie Eulen auf dem Hühnerstall Ora si sta come civette sul pollaio in Erwartung des dritten Hahnenschreis. in attesa che il gallo canti tre volte. Geburtsort, du nennst uns wohl Kinder, Paese nativo, ci chiami figli, aber du wartest auf Fremde auf der Treppenstufe! ma attendi solo estranei sulla porta! Wir suchen Träume unter denHaaren deines Monds Cerchiamo sogni tra i capelli della tua luna und du bietest nur Strähnen mit barfüβigen Worten an! e tu offri solo matasse di parole scalze! Geburtsort, wenn du sagst, uns zu lieben, Paese nativo, quando dici di amarci, leiden wir unter der Bitterkeit wie Trauerweiden! noi tremiamo di amarezza come salici piangenti! A U S W A N D E R U N G - E M I G R A Z I O N E Wir sind wie von den Zikaden ernährte Vögel, Siamo come uccelli nutriti dalle cicale um weit entfern zu fliegen. per volare lontano. Wir sind wie Jünger, die zu spät angekommen sind, Siamo come discepoli giunti in ritardo um der Vermehrung der Brote teilzunehmen: alla moltiplicazione dei pani: Wir suchen nun ein anderes fernes Wunder. cerchiamo ora un altro miracolo lontano. T R E N N U N G - S E P A R A Z I O N E Der Schnee hat sich von der Schwere , La neve s’è separata dalla gravità, der Flügel von der Luft l’ala dall’aria und das lockige Blütenblatt von der Goldblume gtrennt. e il petalo riccio dal crisantemo. Auf den Gräbern wächst das Gras, Sulle tombe cresce l’erba das sich vom Grünn getrennt hat. Che si è separata dal verde. Auf dem Grabstein trennen sich blaue Augen vom Licht Sulla lapide occhi blu, separati dalla luce, um meinen Namen zu lesen, leggono il mio nome der sich von mir selbst getrennt hat. che si è separato da me stesso. . S O N D E R A N G E B O T - O F F E R T A S P E C I A L E Auf dem Markt Al mercato habe ich rote Rosen für Dich gekauft. ho comprato rose rosse per Te. Im Preis nel prezzo ist auch unser Welken inbegriffen. é compreso anche il nostro appassire M Ü N Z F E R N S P R E C H E R - T E L E F O N O P U B B L I C O Als die letzte Münze herabfiel, Quando cadde l’ultima moneta, hatte ich Dir noch etwas zu sagen: avevo ancora una cosa da dirTi: „Du bist unbezahlbar“! „Sei impagabile!“ B E W E G U N G - M O V I M E N T O Der Wind bewegt die Wolken, Il vento muove le nubi, meine Hand schüttelt die Deine, la mia mano scuote la Tua, die Völker bewegen die Geschichte, i popoli muovono la storia, eine fremde Person entfernt sich, una figura estranea si allontana, die Zukunft und der Tod nähern sich. Il futuro e la morte si avvicinano. Nur die Liebesgedanken Soltanto i pensieri d’amore bewegen sich von allein. si muovono da soli. W A S S E R - A C Q U A Der runde Brunnen im Garten La fontana rotonda nel giardino gibt dem Wasser seine Freiheit zurück. restituisce all’acqua la sua libertà. Das Wasser sieht nicht zurück, L’acqua non si volta indietro, sondern setzt es seine Reise fort, ma prosegue il suo viaggio bis wo niemand es verfolgen kann. fin dove nessuno la potrà inseguire. DER WELTUNTERGANG - LA FINE DEL MONDO Ich bin eingebildet und ich glaube zu wissen, Sono presuntuoso e credo di sapere wann die Welt beim Erlöschen sein wird. quando il mondo starà per finire. Die Welt wird ein Ende haben, Il mondo cesserà di esistere wenn die von der Menschheit erzeugten Bilder, quando le immagini prodotte dall’uomo, die unerlaubten Rivalen jeder Existenz, rivali illecite di tutto quanto esiste, die Gesamtheit der Lebewesen überschreiten werden. supererà il numero delle creature viventi. Das Gleichgewicht zwischen dem Leben L’equilibrio tra l’esistenza und dem Anblick der Zeichen wird zerbrechen: e la sembianza dei segni allora si spezzerà: Die Bilder werden das Leben versenken le immagini sommergeranno la vita und die Welt wird in der Vielzüngigkeit enden, e il mondo finirà nel multilinguaggio die sie zu erklären und zu besitzen glaubt. che crede di spiegarlo e possederlo. F I N Z I O N E Da ragazzi fingevamo spesso negli incontri sulla riva del fiume. Passava un carro trainato da buoi e fingemmo di imitarlo: posammo due chicchi d’uva bianca davanti a una foglia di platano. Simulavamo con tanta convinzione da credere perfino che fosse amore la fiamma che davvero sentivamo. B A C I Nel giorno dei morti una sconosciuta mi chiese: “È possibile tenere una contabilità dei baci potenziali perduti nel tempo? Me lo dica, per carità! Lei dovrebbe saperlo”. 23 APRILE Esiste una sola stagione nell’anno ed è la primavera al guinzaglio dell’inverno: le altre le girano semplicemente intorno. Nella chiesa di Basalghelle il parroco aveva appena impartito la benedizione come se dovesse tagliare in quattro l’anguria. In piazza mi salutava un fazzoletto di vento e una sconosciuta col naso tendente al convesso mi riconobbe e domandò curiosa: “Se non fai certamente nulla per caso, perché porti sempre due ceri sull’altare, quando tutti ne offrono uno solo?” “Semplice: una candela è per San Giorgio e una per il suo drago, perché la morte è pur sempre la cosa più triste della vita”. PERMESSO? Tutto era appassito intorno. Anche la sera, l’erba piumosa e la luce umida erano appassite. Un milione di moscerini aveva bussato con insistenza alle porticine preziose dei tabernacoli nei capitelli di Dio, che sono già Dio: “È permesso? C’è nessuno?”. R Ä T S E L - M I S T E R O Ach, Frau Mutter, was ist denn die Geburt? Es ist das Ankommen aus der vorangegangenen Nichtexistenz. Done Mari, che è mai la nascita? É un arrivo da una precedente non esistenza Ach, Frau Mutter, was ist denn der Tod? Es ist die Rückkehr zu dieser Nichtexistenz. Done Mari, che è mai la morte? É un ritorno alla susseguente non esistenza Wir werden nicht vom Nichts verschlungen. Wir kehren einfach dorthin zurück, woher wir kamen. Non verremo inghiottiti dal nulla: torniamo soltanto da dove siamo venuti. Wir werden wunderbare Energie sein, unbeschwert vom Körper und, vielleicht, im Andenken weiter bestehen. Saremo nella mirabile energia inorganica senza gravità del corpo e, forse, dei ricordi. Wir werden leuchtende Punkte in der Milchstraβe oder an einem anderen guten Ort sein. Saremo punti luminosi nella Via Lattea o in qualche altro luogo niente male. N EC R O L O G I O Campane, squillate la mia morte a Basalghelle. Scaditela alta sui prati di Rigole la mia morte. Qualcuno getti un fiore di tarassaco nel Rasego. Lo si lanci dal ponte presso i salici piangenti il tarassaco. I ricordi rifiutati non sfiorano più i campi delle Baite, perché io sono i campi delle Baite, laghetti in letargo. Solo le nuvole, vento in bianco e nero, vagheranno: ultima carezza per il sonno senza sogni.

Wednesday, June 28, 2006

Istruzioni per l'uso & Indice

Benvenuti nel nuovo blog del Prof. Nerio De Carlo.

Il Blog è strutturato in 7 sezioni (più una finale di fotografie), in ordine dall'alto in basso:

-L'autore
- Scritti in lingua tedesca
- Linguistica
- Storia
- Racconti
- Poesie
- Piccole disobbedienze


ISTRUZIONI PER L'USO:

Per accedere alle singole sezioni, cliccare sul link corripondente nella barra verticale a destra dello schermo (Previous post).

Per ricercare una singola parola o parola chiave o parte di testo: dalla barra orizzontale del browser, in alto, cliccare su MODIFICA e selezionare dal menù a tendina il comando TROVA, quindi inserire la parola cercata.

Buona Lettura!!!

L'autore

Biografia intellettuale

Nerio de Carlo, nato a Basalghelle, è un solista dell’identità della propria terra: la Sinistra Piave. Egli non ha praticamente frequentato scuole pubbliche. Anche la laurea in Lingue e Letterature Moderne è stata conseguita presso un prestigioso Istituto Universitario non statale.
Oltre a numerosi saggi, egli ha pubblicato le opere di narrativa “Una battaglia per Sacile”, “Le stelle forse non esistono nemmeno, “La leggenda del Santo Trovatore” e “Conti di Treviso, di Collalto, di Collalto e San Salvatore”. E’ anche autore della raccolta di poesie dell’emigrazione “Poènta e scopetòn”. Il racconto “Il popolo nascosto” rivaluta, infine, dimensioni della natura spesso trascurate, circondate da una singolare e suggestiva vegetazione umana incastonata in un paesaggio incantato. Nerio de Carlo non è inquadrabile in alcuna tendenza politica o didattica, ma evidenzia per natura e cultura contiguità con la cultura mitteleuropea, la quale non è una dimensione statale, bensì un destino. I suoi contorni sono infatti immaginari, come ricordava Milan Kundera, e devono essere ridisegnati al formarsi di ogni nuova situazione storica. In quest’ottica egli ha effettuato le traduzioni in lingua italiana di fiabe per la gioventù, dell’antico manoscritto frisone “Ura Linda”, del libro di Erich Feigl “Mezzaluna e Croce: Marco d’Aviano e la salvezza d’Europa”, nonché del filmato “Una battaglia per Vienna” di Erich Feigl. Sua è anche la redazione del testo del documentario “Sulle orme della Grande Guerra”. In data 30 luglio 2006 sono stati pubblicati il "Memorandum per Lethbridge" e la "Canthòn de-e Canthòn" (traduzione del "Cantico dei Cantici" in parlata veneta).- Per la collana "Il Fronte dimenticato" egli ha scritto i volumi "1918, l'anno del Piave", "La battaglia del solstizio", "La guerra nelle retrovie della Linea del Piave" e "Dialettica dell'Armistizio 1918".- In data 8 ottobre 2008 è stato pubblicato il libro in lingua tedesca "Andreas Hofer in der deutschen Literatur".- Nel mese di novembre 2008 è stato realizzato il saggio storico-numismatico "Lo zecchino di Porcia".-Sono in preparazione le seguenti opere: “Dossier delle villanie ricevute” e “Àna Katarina”.


Genealogia

Nel libro di Mons. Brazzale “Suor Sergia – le meraviglie di Dio in un’anima” sono contenute informazioni sulla famiglia De Carlo. A pagina 42 si legge di un fortunoso viaggio dalla Grecia fino a Firenze verso il ‘400 in compagnia delle famiglie armene Stabolis e Aslan. Dopo un secolo sarebbe avvenuto il trasferimento in Cadore e, più tardi, anche ad Albina di Gaiarine e nel Vittoriese. I rami della famiglia hanno sempre avuto un collegamento tra loro (Cadore – Albina –Vittorio Veneto). "Il palazzo grande (Vittorio veneto): era di tutti i parenti. Lì avevamo il nostro appartamento per la villeggiatura, ma era troppo lussuoso: il papà non voleva che andassimo. Mia sorella Elena ci teneva…”, scriveva Suor Sergia.- Suor Sergia non possedeva notizie omogenee e cronologicamente confermate. Sotto certi aspetti può essere stata imprecisa. Periodo antico La famiglia era stata insignita di “Privilegio nobiliare” e alzò “Stemma gentilizio”. Nel 1208 un Vanerio de Carlo fu teste giurato nel trattato di pace tra le città di Pirano e Rovigno. Nel 1379 un certo Pietro figurava tra i sovvenzionatori della Repubblica di Venezia. Nel 1426 Giacomo esercitava la professione di Notaio a Vicenza. Verso la fine del 1700 la famiglia risulta titolata e compresa nel Consiglio Comunale di Venezia, ma è un ramo proveniente da Capodistria. Tutto ciò è documentato insieme a parecchi personaggi minori della famiglia. Nel 1500, come informano le “Notizie storiche su Cordignano”, la famiglia possedeva a Ponte della Muda prati irrigui e sufficiente bestiame. Siamo dunque dopo la divisione dei beni tra i tre fratelli cadorini, accennata da Suor Sergia. Altri componenti della famiglia sono attestai a Oderzo, Portobuffolè, Brugnera. Il Catartico Amalteo (MS 1401), Biblioteca Comunale di Treviso) nomina Zamaria de Carlo da Albina. Periodo recente Interessante è il testamento n. 1620 conservato presso l’Archivio di Stato di Pordenone: “Il 6 dicembre 1694 i fratelli Pietro, Giovanni e Bortolomeo de Carlo incaricano il loro cugino Gio Batta Lollo (oggi la famiglia Lollo si chiama Pezzuto) di effettuare la divisione dell’eredità paterna e di fissare compiti e doveri nei riguardi di Bartolomeo che, purtroppo, non è del tutto normale. Il Lollo fissa allora alcune clausole che così si possono riassumere: - Ricorda ai tre fratelli la volontà del padre, che debbano vivere fraternamente in pace et amore. - Poiché Bartolomeo è minorato, Pietro e Giovanni dovranno pagare un famiglio che lo serva, occorrendo, giorno e notte. - Dovranno mantenere un asinello per la di lui sedia per condurlo alla Santa Messa…et un servitore che nel tempo libero sia al servitio di tutta la famiglia.. - Dovranno provvedere a nutrirlo e vestirlo decorosamente, ma arrivato ai sessant’anni Bartolomeo avrà diritto solo a pane di frumento e companatico! - Dovranno dargli cinque ducati all’anno per i suoi bisogni dietro promessa da parte sua di non inquietare, molestare, perrurbare, ne meno strapazzare né cugnate, ne nezze ne nipoti, ma solo vivere quieto in pace et con carità, d’amore commendare a tutti, ne meno ingerirsi nelli fatti di casa…, e inoltre dovranno permettergli di usare la chiave della caneva e del formaggio…affine possi valersene alli bisogni entro però il limite delle ragioni tanto per esso come con qualche parente o amico…- - In cambio di tali servizi che devono rendergli per la sua infermità, i due fratelli si divideranno la sua quota di beni ereditari e Bartolomeo potrà disporre di 200 ducati per le sue volontà testamentarie. I nomi propri Giuseppe, Pietro, Bortolo, Marco, Angelo, Giacomo…ricorrono sovente tra i componenti della famiglia. Questa è variamente articolata in pianura, ma un ramo ha continuato a Calalzo e a Pieve di Cadore con scarse notizie prima del 1824, cioè antecedenti a DE CARLO GIACOMO di GIUSEPPE, nato a Calalzo il 10.02.1824, coniugato in data 11.02.1850 con Granelli Maria e deceduto il 12.08.1896. Egli abitava a Pieve (Piazzoletta n. 21) dall’ 11.02.1850, cioè dalla data del suo matrimonio e , si suppone, dell’abbandono della casa paterna per il trasferimento a Calalzo. Il manoscritto inedito “La casa di fronte” di Giacomo Camillo de Carlo ne parla ampiamente. Questi aveva espresso la volontà testamentaria di essere sepolto nel sagrato della chiesa degli Alpini a Calalzo. Il ricco lascito fu accettato dalla città di Vittorio Veneto, il desiderio della sepoltura no! Il Comune di Pieve non dispone di notizie precedenti alle date suddette perché allora l’anagrafe era curata dalle Parrocchie. L’ Arcidiacono di Pieve conserva i registri fin dal 1500 (Concilio di Trento) e il nome DE CARLO ricorre. Una ricerca dovrebbe riguardare Giuseppe, genitore di Giacomo, e andare a ritroso. L’ Arcidiacono di Pieve ha espresso disponibilità al riguardo.


Motivazione storica del nome

De Carlo è una variante patronimica e significa figlio di Carlo. Essa risale al nome personale “Carlo” di origine germanica e di tradizione francone. “Carlo” deriva dall’antico aggettivo “Karla”, cioè uomo libero. Presso i Franchi assunse un significato speciale di “maestro di palazzo”, alto funzionario della corte dei Merovingi e, a partire da Carlo Martello, divenne nome tradizionale dei Carolingi. E’ popolarissimo grazie alla fama di Carlo Magno (tanto che in alcune lingue germaniche e slave “Karl” e le varianti “Kralj” sono sinonimo di “re”, “imperatore”, alla maniera di Cesare, Kaiser, Czar, Zar). (Da “Come ti chiami?”, Spes edizioni)


Bibliografia essenziale

La storia dei Cimbri / Nerio De Carlo, in: I Cimbri del Cansiglio. - [S.l. : s.n., dopo il 1990] Una battaglia per Sacile : racconto storico e fantastico / Nerio De Carlo. - Treviso : Marton, 1984. Vocabolario italiano-tedesco, tedesco-italiano / realizzato dalla Sezione lessicografica dell'European Book diretta dal prof. Panfilo Schnellinger ; monografie grammaticali: "Le preposizioni nella lingua tedesca", "Le congiunzioni nella lingua tedesca" di Elisabeth Kottmann e Nerio De Carlo. - Milano : European Book, stampa 1986. Mansuè : l'evoluzione della crescita / a cura di Annalisa Fregonese ; in collaborazione con Luigino Covre ; [testi di Nerio De Carlo all’int.]. - Mansuè : A cura dell'Amministrazione comunale, stampa 1990. Leggenda, storia e cultura (Villorba : Grafiche Marini). Le stelle forse non esistono nemmeno : racconti del nobile trovatore Bosco della Vizza / Nerio De Carlo. - Oderzo [etc.] : Associazione Commercio Turismo e Svervizi ; [S.l.] : Cassa rurale ed artigiana del Piave e del Livenza, 1991. Vocabolario italiano-tedesco, tedesco-italiano / realizzato dalla sezione lessicografica dell'European Book ... - Milano : European Book, 1993. Contiene: Le preposizioni nella lingua tedesca ; Le congiunzioni nella lingua tedesca / di Elisabeth Kottmann e Nerio De Carlo Poenta e scopeton : poesie dell'emigrazione / Nerio De Carlo ; a cura di Sezione Trevisani nel mondo di Oderzo. - [S.l. : ICA, 1995]. La leggenda del Santo Trovatore / Nerio De Carlo. - [Oderzo : Associazione trevisani nel mondo, 1999]. Conti di Treviso, di Collalto, di Collalto e San Salvatore / Nerio De Carlo. - Ponte della Priula (TV) : Comitato imprenditori veneti Piave 2000 : Linea del Piave terzo millennio, [2000]. Il popolo nascosto / Nerio De Carlo. - Ponte della Priula (TV) : Comitato imprenditori veneti Piave 2000, 2002. L'anno del Piave : 1917-1918 / Nerio De Carlo, Diotisalvi Perin. - Ponte della Priula (TV) : Comitato imprenditori veneti Piave 2000 : Linea del Piave terzo millennio, 2003. La battaglia del solstizio : 1918 / Nerio De Carlo, Diotisalvi Perin. - Ponte della Priula : Comitato imprenditori veneti Piave 2000 : Linea del Piave terzo millennio, 2003. La guerra nelle retrovie della linea del Piave : 1917-1918 / Nerio De Carlo, Diotisalvi Perin. - Ponte della Priula : Comitato imprenditori veneti Piave 2000 : Museo del Piave di Caorera di Vas, 2005.- "1866, l'anno delle cicatrici "(Raixe venete, settembre 2007). Sulle orme della grande guerra : [documentario con testi di Nerio De Carlo]. - Ponte della Priula : Comitato imprenditori veneti Piave 2000 : Linea del Piave terzo millennio, 2005. TRADUZIONI: Ura Linda : una saga indoeuropea: il popolo frisone / Testo e note a cura di Herman Wirth. - Saluzzo (CN) : Edizioni Barbarossa, 1989. Mezzaluna e Croce : Marco d'Aviano e la salvezza d'Europa / Erich Feigl. - Ponte della Priula : Comitato imprenditori veneti Piave 2000, stampa 2001. Una battaglia per Vienna : documentario con testo di Erich Feigl. – 2003.-
Il 30 luglio 2006 sono stati pubblicati dal Comitato Imprenditori Veneti "Piave 2000" e dal Museo del Piave" il "Memorandum per Lethbridge" di Carlo I d'Asburgo tradotto in italiano, e la "Canthòn de-e Canthòn" (il biblico "Cantico dei Cantici" tradotto nella parlata veneta della Sinistra Piave.- Nel mese di aprile 2010 è stata pubblicata la raccolta di racconti "La luna e il pozzo" (Racconti opitergini).

A dicembre 2010 sono stati pubblicati i volumi "Das Denkmal des Faschismus" e "Il monumento del regime".A febbraio 2012 è stato ultimato l'ebook "I nomi di luogo hanno radici".

Scritti in Lingua Tedesca

mmuibtSCRITTI IN LINGUA TEDESCA
Texte in deutscher Sprache


T U T T L I N G E N


Wenige Brücken über der Donau,
damit der Herrgott sie schnell
zählen konnte.

Häuser mit spitzem Dach
und zublinzelnde Gardinen hinter
den Fenstern.

Stockenten, Wasserrallen, Birken,
Tannen und sogar Vögel genannt
Raben.

Schöne, fleissige Hände,
die das harte Metall zwingen,

Retter der Kranken zu werden,
ohne den Namen des Meisters
zu verraten!


(WIR, Hausinformation der AESCULAP AG, 7200 Tuttlingen, Augabe 43, Juli 1990, S. 20).



DIE ROLLE DES PFANDLEIHHAUSES IN PADUA

Auf den Palast des Haupmannes in Padua wurde zwischen 1423 und 1437 eine monumentale Uhr mit allen astronomischen Hinweisen, den Tagen, den Stunden und dem Uhrschlag gestellt.- „Die Geschichte der Uhr – bemerkte Carlo Cipolla – ist die Geschichte der ersten Präzisionsmaschine…eine Kombination von Stadtuhr, Nützlichkeitsphilosophie und Interesse für die mechanischen Werke förderten ihre Verbreitung… die zunehmende Anfrage nach Uhren regte zu ihrer Zeit die technologische Entwicklung an, und am Ende des 13. Jahrhunderts stellte man Uhren her, die die vollen Stunden und Viertelstunden schlugen“.
Die Uhr wurde also erfunden, um die Zeit zu messen, aber bald regelte sie mit Genauigkeit die Arbeits- und Versammlungszeiten der in den nahen Palästen wirkenden Einrichtungen.
Die vor der Uhr betonten Stunden rufen auch die vom Zinsfuss betonte Zeit ins Gedächtnis zurück. Ein Markt lebt nur, wenn es Geldflüssigkeit gibt, und wenn die Liquidität fehlt, muss man sie durch Garantien und angemessene Belohnung schaffen. In solchen Geschäften unterschieden sich nach dem 13. Jahrhundert in Padua die Juden, die am Ende des 17. Jahrhunderts noch immer 500 waren. Trotz des strengen kanonischen Wucherverbots wendeten sich Privatpersonen, öffentliche Einrichtungen und die Kirche selbst an die Wucherer. Wegen der Missstimmung des Volks gegen die Wucherer und der humanistischen und wirtschaftlichen Gedankenänderungen des 14. Jahrhunderts plante die Kirchliche Rangordnung, die Befreiung der Masse von der wirtschaftlichen Unterdrückung zu verwirklichen.
Es entstand somit der „Monte di pietà“, d.h. das Pfandleihhaus. Die Institution richtete sich nach dem scholastischen Grundsatz vom „bonum commune“ und wurde von den Franziskanern gegründet, die aus Tradition die Volksleiden verstanden und die Missstimmung der Armen in eine organisierte Einrichtung leiten konnten.
Das Pfandleihhaus befand sich in Padua in der Nähe der Hauptplätze, wo die Behörde ihre Kontrolle ausübten konnte, genau im alten Gebäude zwischen „Via del Monte“ und dem Domplatz, nicht weit von der schützenden Bischofsresidenz. Das Pfandleihhaus bereitete dem Stadtvogt mehrere Sorgen. Man liest in den Berichten, dass die Einrichtung im Jahre 1491 gegründet wurde und dass es Kapitalangriffe, Verwaltungsunregelmässigkeiten und Unterschlagungen gegeben hat. Die Jahre 1566 und 1735 sind die schlechtesten gewesen, da die Kasse bzw. Nur 300 und 80.000 Lire enthielt. Die wohltätige Institution erfüllte (unter der Aufsicht der Statthalter) sonst immer gut ihre ursprünglichen Zwecke und Tätigkeiten.
Die Schalter des Pfandleihhauses von Padua übten ab dem 16. Jahrhundert das Amt von eigentlichen und einzigen Bankschaltern für die Märkte und das Volk aus. Der Stadtvogt Bernardo Novagero schrieb im Jahre 1549: „Das Pfandleihhaus, Grundlage und Ausschmückung der Stadt, entstand wegen der Ermahnungen des Seligen Berbardinus von Feltre unter dem anregenden Schutz des sehr vortrefflichen Bischofs Barozi…., es entwickelte sich nach dem Jahre 1535, so dass es über 30.000 Dukaten vom eigenen Geld und ebensoviel von den Anlagen besass. Dieses Geld diente vielen Leuten, und jedes Jahr schlossen die Bankherren über 60.000 Geschäfte ab, was für die Stadt und die ländliche Umgebung eine unendliche Wohltat bedeutete….“
Die wichtige Rolle des Pfandleihhaus in Padua wurde auch vom Vizestadtvogt Andrea Capello und vom Stadtvogt Giovanni Benedetto Giovanelli betont. Der erste schrieb am Ende des 17. Jahrhunderts: „Die Geldanlage im Pfandleihhaus entspricht einer Summe von 1.200.000 Lire, obwohl das Eigenkapital 800.000 Lire nicht erreicht“.- Der zweite berichtete im Jahre 1775: „Der Betrieb dieses heiligen Pfandleihhauses arbeitet mit gewöhnlichen Verfahren. Es wird von ehrlichen Vorsitzenden und von erfahrenen Verwaltern betreut. Es laufen über 3.500.000 Lire um….“-
Es ist übrigens bekannt, dass der gesunde Betrieb vom Pfandleihhaus auch die Grundlage der modernen Sparkasse von Padua gewesen ist.
Der Erfolg des Pfandleihhauses bedeutete für Padua eine Verminderung des Wuchers, und die früheren Ausleiher mussten ihren Beruf wechseln. Die Jüdische Gemeinschaft in Padua stellte im Jahre 1772 über 100.000 Seidenstücke her und stellte nicht weniger als 5.000 Arbeiter an.

BIBLIOGRAPHIE

La struttura classica del „pignus“, in „Studi in onore di F. Cammeo” (Die klassische Struktur vom “pignus”, in “Studien zu Ehren von F. Cammeo“), Padua 1933, II°, S. 3.
Natura giuridica del pegno di credito (Juristische Natur des Kreditpfands), Mailand 1928.
La tradizione del titolo nel pegno dei crediti (Die Tradition der Unterlage im Kreditpfand), Città di Castello 1893.
A. Saperi, Per la storia delle banche in Italia fino al 1815 (Zur Geschichte der Banken in Italien bis 1815) in: History of the principal public Banks, Den Haag 1934, S. 373 ff.
L. Degani, I momti di Pietà (Die Pfandleihhäuser), Turin 1922.
Fulvio Reiter, Piazze e mercati (Plätze und Märkte), Grafiche LEMA, Maniaco (Pordenone) – September 1982 – S. 108-110.

(Forschungen zur Rechtsarchäologie und Rechtlichen Volkskunde. Herausgegeben von Louis Carlen (Universität Freiburg) . Band 7. Schulthess Polygraphischer Verlag AG Zürich 1985.)


Auf der Suche nach der verlorenen Weiblichkeit in Friaul

Alte friaulische Frauenbilder sind sowohl vorzügliche Zeugnisse der Volkskunst und wertvolle Belege der kulturellen Identität als auch sichere Spuren, um eine Vergangenheit wieder aufzusuchen, in der jede Stufe der Existenz von genauen Ritualen betont und in einer authentisch sakralen Gemeinschaftsdimension aufgenommen war: harte Blicke und Gesichter, die das anständige und würdige Wesen des friaulischen Volks zeigen. In diesen Bildern gibt es fast immer eine ikonographische Eigenschaft, die interessante Gesellschaftsbestimmungen erwähnt: die Schlüssel.
Die Frau spielte eine bedeutende Rolle in der friaulischen Gesellschaft und hatte in der Hausordnung die Vollmacht. Die männliche Auswanderung verstärkte diese Lage, und die weibliche Verantwortlichkeit wurde auch in der Verwaltung der Gemeinden ausschlaggebend (1). Nach einem Bericht vom 8. Juni 1719 gab es im Dorf Gorto 164 Familien, deren 93 von Frauen vertreten waren. Auch in anderen entscheidenden Augenblicken des existentialen Verlaufs wurde der Frau grösste Bedeutung zugeschrieben. Nach jeder Entbindung händigte eine Frau dem Mann der Wöchnerin den Mutterkuchen aus, damit er ihn vergraben sollte, um der Mutter Erde ihr eigentlichstes Sinnbild zurück zu geben (2).
Eine Frau sollte ausserdem die Wöchnerin in die Kirche für die rituelle Purifikation oder besser für den „rituellen Spaziergang durch das Gebiet“, wie Van Gennep kritisch ausgelegt hat (3), begleiten. Dieses Ereignis entsprach einem besonders schwierigen Augenblick, so dass die Anwesenheit einer Vermittlerin notwendig war, um die negativen Einwirkungen zu neutralisieren und die Wiederherstellung der Wöchnerin in die Gesellschaft nach der Entbindung und der Quarantäne zu erleichtern.
Es ist bedeutungsvoll, dass die Rolle des Vermittlers zwischen einem Negativen und einem Positiven gerade von einer Frau gespielt wurde, die oft in der sinnbildlichen Überlieferung dem Mond, dem Vermittler schlechthin zwischen Sonne und Erde, Leben und Tod, Licht und Finsternis, Wachen und Schlaf, verglichen wurde (4).
In der Verbindung der Frau mit der lunaren Symbolik entfaltet sich die typische Art Art des weiblichen Bewusstseins, das „weniger klar als das männliche Gewissen ist, aber fähig, in einem weiteren Bereich die Sachen zu verstehen, die noch schattig sind. Die Sehergabe und das intuitive Erkennen der Frau sind immer eingestanden worden. Ihr nicht auf einen Brennpunkt gerichtetes Augenblick gibt ihr die Erkenntnis der unverständlichen Sachen und die Macht, mit schärferen Augen zu sehen, was verborgen ist“ (5). Immer auf der Spur dieser symbolischen Bedeutsamkeiten ist es möglich, die Segnung des Brautpaars zu verstehen (6).In dieser zarten sakralen Geste ist die Einweihung zu erkennen, da Worte bei dieser Gelegenheit ausgesprochen worden waren, die das Leben in seiner Fülle und Gesamtheit als die Begegnung und die Vereinigung der Gegenteile bezeichnete (7).
Auf der Grundlage dieser Voraussetzungen ist die Tradition zu verstehen, wonach die Schwiegermutter nach der Hochzeitsfeier auf die Schwiegertochter an der Türschwelle gewartet und ihr ein Glas Weisswein und ein Glas Rotwein bzw. Sinnbilder der Sorgen und der Freude angeboten hatte. Die junge Frau trank einen Schluck von einem und vom anderen Glas und durfte somit in ihr neues Haus eintreten (8).
In anderen friaulischen Ortschaften gab es, ausser dem Angebot vom Wein, auch die Übergabe vom Besen und vom Suppenlöffel, d.h. von den traditionellen Sinnbildern des Rechts auf Eigentum und des Zwangs zur Arbeit.
In Aviano und Cordovado (Provinz Pordenone) bot die Schwiegermutter der Schwiegertochter einen Brotlaib an, der die vollständige Aufnahme der jungen Braut in die Familie darstellte (9).
In den karnischen Gebieten übergab die Schwiegermutter dagegen auch die Schlüssel, um zu beweisen, dass sie wohlgesinnt war, mit der Schwiegertochter die Hausmacht zu teilen. Die Schlüssel sollen aber auch einem Vorzeichen für die künftigen Mutterschaften entsprochen haben (10), da die Schwiegermutter am Ende der Hochzeitsfeier auch die Aufgabe hatte, das Ehepaar ins Schlafzimmer zu begleiten und das Licht auszublasen (11).
Diese Symbolik ist heute dem allgemeinen Bewusstsein selbstverständlich verlorengegangen, da jede Einzelheit durch die Zweckmässigkeit geprüft wird, aber der Wunsch bleibt, diese verlorene Gebärdensprache in der Gegenwart zu beugen.


-------------------------------------------

(1) G. Perusini,Priesterwahlen und Bestimmung der Frauen, in „Sot la nape“, SFF, 4 (1o), Oktober-Dezember 1958.
(2) A. Nicoloso Ciceri,Volksüberlieferungen in Friaul, Reana del Rojale, 1982, S. 130.
(3) A. Van Gennep, Les rites de passages, Paris 1909.
(4) M.G. Brioschi,La vecchia soccorrevole: un simbolo del processo di individuazione femminile (Die alte hilfsbereite Frau: ein Sinnbild des weiblichen Individuationsprozesses), Centro Italiano di Psicologia Analitica, Istituto Milanese, Mailand 1981, S. 25 ff.
(5) E. Jung, Animus e anima, New York, 1969, S. 25-26; S. Di Lorenzo, La donna e la sua ombra (Die Frau und ihr Schatten), Mailand 1980, S. 113.
(6) In der friaulischen Sprache: “La màri ‘evèn fûr cun t’une tàce di àghe sànte, par benedìju quan’che pàssin par là indevant“ (Die Mutter geht mit einem Glas Weihwasser aus, um das Brautpaar zu segnen, wenn es vorübergeht, um sich auf den Weg zu begeben).Lea D’Orlandi, Einige Ehesitten in Friaul, in „Ce fastu?“,SFF, 1-6 (36), Januar-Dezember 1960, S. 99.
(7) In der friaulischen Sprache: “Stàit atènz duc’ i dòi e vàit d’acòrdo; amàisi e volèisi bèn. Ce chel al è par un al à di sèi àncje par chel àltri. Atenziòn: amàisi e volèisi bèn“ (gebt gut acht, alle beide, und lebt in Liebe und Eintracht; liebt euch und habt euch gern. Das Schicksal des einen soll auch dal Schicksal des anderen sein. Gebt gut acht: liebt euch und habt euch gern). P. Cracina, Hochzeit in der Vergangenheit in Friaul, Reana del Rojale 1974, S. 143-144.
(8) In der friaulischen Sprache: „Un gotùt par bànde, làgrimis e ligrìe“ (Ein Schluck von beiden Seiten, Tränen und Fröhlichkeit). Lea D’Orlandi, a.a.O., S. 101.
(9) Lea D’Orlandi,a.a.O., S. 101.
(10) P. Cracina, a.a.O., S. 155.
(11) A. Nicoloso Ciceri, a.a.O., S. 221-222.


DIE SPRACHE IST DEM MENSCHEN EIGEN


„Die Spache ist in Wirklichkeit die Heimat“

(W. von Humbold)


Wie die Vorderglieder und die unteren Gliedmassen die Tätigkeiten der Arbeit und des Gehens erlauben, ermöglicht die Sprache die wichtigste Ausübung des menschlichen Ausdrucks. Es gibt auch andere Mitteilungsformen, wie z.B. die Strassenmarkierung, die Bekleidung und die Schminke, aber die Sprache ist die artikulierste, persölichste und wirksamste. Glieder und Sprache sind also keine Funktionen, sondern echte Organen der Person.

Die Abnahme eines Gliedes wird nicht mal von den totalitärsten Regimen praktisch angewendet. Ganz anders war es für die Zunge. Die Inkas schnitten den Besiegten die Zunge ab, um ihre Sprache vermutlich zu löschen. Die Inquisition machte dasselbe mit Jordan Bruno, damit seine Botschaft stumm wurde.

Man beobachtet oft bei den Kolonisationsverfahren eine tiefe Abneigung gegen die Muttersprache in den untergebenen Ländern. Man würde nach dem Erlöschen der Ortssprache und der Ortsnamen durch die kriechende Auferlegung der hinzukommenden Redeweisen streben.Das ist eine naturwidrige Tat.
Die Sprachverstümmelung kann nach einer gewissen Zeit sogar den nachgiebigen Kolonisierten und ihren Knechtschaftskomplexen überlassen werden.Derartige Bedingung entspricht einer Selbstverstümmelung, die sowohl von der Rechtswissenschaft als von der Literatur verurteilt wird: Man darf ein Pfund des eigenen Fleisches wirklich nicht ausschneiden (s. Shakespeare).Diese Gefahr liegt aber immer im Hinterhalt. Wenn man plötzlich vier Reiter im Galopp am Horizont bemerkt, ist es deshalb vernünftig zu überprüfen, ob sich die Apokalypse eventuell nähert.

In dieser Zeit versucht man, eine gesüsste Darstellung des Faschismus auftauchen zu lassen (La Repubblica, 23. April 2008, S. 1 und 41). Man möchte mit anderen Worten die Schuld des regimes mit den Rassendiskriminierung umgrenzen. Die Diktatur unterdrückte in Wirklichkeit auch die Wort- und Pressefreiheit. Sondergerichte wurden errichtet, um die Gegener einzusperren und sogar zu ermorden. Die Sprachen der Andersprachigen wurden gehässig verfolgt. Eine gewisse Denkweise trauert noch heute der Sprachunterdrückung nach. Es ist manchenheiseren und veralteten extremistischen Sirenen noch nicht gelungen, mit der Vergangenheit kulturell abzurechnen. Leider gibt es auch Einheimische, welche sich Bürger zweiter Klasse fühlen, wenn sie oft mit lächerlichen Ergebnissen die Sirenenverlockung nicht beachten. Diese wissen nicht, dass jede Sprache ein Teil des Menschen und der Umwelt ist: So hat der Schöpfer bestimmt.

Nach Adam aus Lilla ist die Sprache die treue hand des Geistes. Hinter der Zunge befinden sich nicht nur die mandeln, sondern auch die Stimmung, der Charakter, der psychologische Moment einer Gemeinschaft. Die Sprache ist eine Sache, die man überall mitnehmen kann. Es würde noch fehlen, dass man sie nicht im eigenen Land verwenden könnte!- Die Sprache besitzt die Wahrheit der landschaft, weil „Tod und Leben steht in der Zunge Gewalt“ (Sprüche, 18-21).
Die Muttersprache ist eine von Kind auf aufgesaugte Sprachausstattung und das Wort ist ein Behälter für einen Sinn und für eine Kultur die es rechtfertigen und die fats alle Ursprünge zusammenzählen. Dank der Weltanschaung kommt man zum Gedanken an. Deswegen ähnelt das Wort „danken“ dem Wort „denken“ in der deutschen Sprache. Wenn der Reichtum der Sprache „koffeinfrei“ wird, werden die Sprechenden unfähig zu denken und die eigenen Gedanken auszuarbeiten. In diesem bedauerlichen Fall werden die Leute tatsächlich Bürger zweiter Klasse. Emile Cioran hat behauptet:“Die eigene Sprache umtauschen, ist wie einen Liebesbrief mit einem Wörterbuch schreiben“. Auch ein Herdewechseln ist übrigens für ein Schaf keine vorteilhafte Lösung, sondern nur eine Öse ohne Nadel.

Die Macht fordert jedoch die Auferlegung der eigenen Sprache. Die Politiker und besonders die Paragraèhenreiter übersehen die Lehre von Hl. Stephan von Unganrn:“Unius Linguae uniusque moris regnum fragile est = Jedes Reich mit einer einzigen Sprache und mit einer einzigen Sitte ist schwach“ (Monita).
Die Macht weiss nicht, dass auch ihre staatliche überschätzte Sprache am Ende trügerisch ist, wenn es sich handelt, den geometrischen Punkt, den Abstand zwischen Vergangenheit und Zukunft oder den Begriff von Absolute, usw zu bestimmen. Jede Überlegenheitszumutung ist also unberechtigt.
Die Macht soll endlich verstehen: Wer eine andere Sprache spricht, ist kein rechtswidrige Mensch. Die Schirmherrin der Bürger, d.h. Hl. Geduld, wird helfen, damit ein Naturrecht aberkannt wird. Anderenfalls kann der Bürger den gebildetesten Behörden eine Kahnfahrt mit Charon stillschweigend raten.Füdie stumpfesten Aufdringlichen ist dagegen die einfachere aber unmittelbare Mahnung „Geh zum teufel“ im Geiste angemessen.Es würde wie ein geistiger Einlauf wirken.

D A S P A T O I S

“Wenn die verstorbenen Alten uns im Traum erscheinen würden,
würden sie Dialekt sprechen und viele unter uns könnten
sie nicht verstehen.“


Das Ackerland hat die Stadt aufgebaut und nicht unmgekehrt.- Die Stadtbewohner hielten jedoch kulturellen Abstand vom Grundkontext. Die Gegenüberstellung hat oft sogar die Umrisse der Verhöhnung und der Verachtung eingenommen. Das Wort „Patois“ wurde im 13. Jahrhundert von den Städtlern erfunden, um die seltsame Mundart der Bauern zu bezeichnen. Nach dem französischen Linguisten Dauzat kommt das Wort „Patois“ aus dem Französischen „pattes“, d.h. Füsse (Nouveau Dictionaire etymologique).

Der mittelalterliche Fluch gegen die Mundarten, d.h. gegen die traditionellen Sprachen der Bauern, ist heute nicht mehr dem Vergleich Stadt und ländliche Umgebung beschränkt. Er entfaltet sich im Kampf der Kolonisatoren gegen die Kolonisierten. Es ist also eine kulturelle Pflicht zu erwähnen, dass viele Sprachen einst nur „Patois“ waren: Italienisch und Französisch waren z.B. beziehungsweise die Dialekte von Florenz und Paris. Man soll also den verächtlichen Brauch ablehnen und behaupten, dass alle Menschen mit dem Mund und mit dem Herz sprechen. Niemand spricht mit den Füssen und die Mundart stellt eine Tiefe dar, welche die Pianisten in der Musik durch das Klavierpedal erreichen können. Die Mundart ist wie ein Traum: Sie besitzt etwas Fernliegendes und Enthüllendes.

Die Funktion der Sprache ist wesentlich für das Wiederaufleben eines Volks. Die kulturelle Erhebung bedeutet nämlich auch wirtschaftliche und soziale Entwicklung. Wer hat Interesse, dass seine Umwelt rückständig bleibt?

Wenn der Verfall einer Sprache auch sozialer Verfall bedeutet, wie J.L. Calvet in seinem Werk „Linguistik und Kolonialpolitik (S. 53)“ behauptet hat, ist es sicher, dass das soziale, politische und wirtschaftliche Wiederentstehen eines Volks gerade durch die Wiedererlangung und durch die erneute Schätzung der eigenen Sprache erfolgt. Der Verzicht lohnt sich nicht.

Die korrekte Anwendung der eigenen Sprache bedeutet jedoch auf keinen Fall Ausstopfung. Der Mensch ernährt sich von Fleisch und Pflanzen. Er lehnt die neuen Zellen nicht ab, weil diese von anderen Wesen herrühren. Sowieso gilt das auch für die Menschen, die sich als Ziel das Überleben der eigenen Sprache im eigenen Land setzen. Der menschliche Körper verwandelt die fremden Zellen in eigene Gewebe. Der sprachliche Stoffwechsel kann jeden Gedanken und jede Gemeinschaft verstärken. Modernität heisst nicht Erschaffung,
Man kann behaupten, dass sich ein Volk nie von einem Kolonialjoch befreien wird, indem es auf die eigene Sprache verzichtet, um die Sprache des Kolonisators einzunehmen. Die Verteidigung und die Sauerstoffanreicherung der Volkssprache bedeuten im Gegenteil sowohl einen Kampf um die kulturelle Identität als einen Anspruch, gegenüber der Alleinsprache Widerstand zu leisten, weil die Mundsprache die uralte Sprache der Märchen ist, welche das Gefühl der Dinge ausdrückt.
Die Verzichtenden hoffen naiverweise, eine andere, berühmtere Person zu werden, wenn sie die Amtssprache ständig aufnehmen. In der Tat werden sie nie eine neue Identität einnehmen. Sie können höchstens einen Druck auf ihrer früheren Natur erleben: Sie werden niemand mehr sein!
Die berühmte Heilige Treppe in Rom lehrt, dass es wohl möglich ist, die Stufen auf den Knien besteigen. Die Schwierigkeiten treten auf, wenn man auf den Knien herunterkommen soll.

SPRACHE UND ORTSNAMEN

Die Sprache nahm in Eden ihren Anfang:„Gott der Herr formte aus dem Ackerboden alle Tiere des Feldes und alle Vögel des Himmels und führte sie dem Menschen zu, um zu sehen, wie er sie benennen würde. Und wie der Mensch jedes lebendige Wesen benannte, so sollte es heissen“ (Mose, 2,19).Die Geschöpfe und die Umwelt beim Namen zu nennen ist also eine von Gott gegebene Aufgabe und es ist nicht klug sie zu entstellen., wenn man die Strafe von Babel vermeiden will.
Der ursprüngliche Ortsname ist die Seele der jeweiligen Landschaft. Ein veränderter Ortsname ist, als würde man einen Liebesbrief mit dem Wörterbuch lesen.
Die Ortsnamen sind das Blut der Sprache. Mancher Ausdruck hat schlechtes Blut in den Adern. Das führt unweigerlich zum Zusammenbruch des „Wort-Kreislaufs“ , zum „Silben-Fieber“ und zur „Buchstaben-Geschwulst“ und schlieβlich zum Tod der Sprache.
Durch die Weltanschaung, die ein Geschenk ist, gelangt man beim Gedanken an. Deswegen ähneln sich die Verben „danken“ und „denken“ in der deutschen Sprache so sehr. Die Umgangssprache hat nicht nur eine einfache Funktion, sondern ist ein lebendes Organ, ein Körperteil. Im Jahre 1682 hat Peter der Grosse versucht, das Französische als Staatssprache in Russland einzuführen. Das war ein Irrtum, eine Pleite, entstanden aus gewissenloser Unkenntnis. Der Zar hätte doch die „Monita“ des Hl. Stephan von Ungarn kennen sollen:“Unius linguae uniusque moris regnum fragile est = Ein Königsreich mit einer einzigen Sprache und mit mit einer einzigen Sitte ist zerbrechlich“.

Die Ortsnamen teilen nicht nur mit, sie bringen immer auch etwas in Erinnerung. Sie ermöglichen, die Welt von einem anderen Gesichtspunkt aus zu betrachten. Wer nur die kapitolinischen Gänse kennt und wer die Völkerwanderungen des frühen Mittelalters lediglich als „barbarische Einfälle“ interpretiert, der kann die Welt und die Zeitgeist nicht verstehen.

Die Kolonialpolitiker verachten die einheimischen Ortsnamen als „versteinerte Wörter“ und die Ursprache der Kolonialgebiete im Allgemeinen. Sie wissen, dass es sich nicht um ein von einer Sprache vereintes Land handelt, sondern um eine Pflichtsprache, die dazu dient, einen Staat zu rechtfertigen. Zu diesem Zweck sind manche Behörde in ihrem Überlegenheitswahn sogar immer wieder zum Verstoβ gegen die eigenen Gesetze bereit. Leider beteiligen sich daran viele Kolonisierten in verschiedenen Ländern. Sie nehmen eine andere Sprache an, indem sie glauben, die Krankheit mit einem Gift heilen zu können. Doch dieser Ablauf ist nicht irreversibel, wie es Algerien, Istrien, Lettland usw. beweisen.
Die feindselige Neigung gegen die Ursprache und die alten Ortsnamen verschwindet selbst dann nicht, wenn die veränderten Umstände zum Umdenken zwingen. Sie besteht fort, wie viele ärgerliche Einträge im Gästebuch des Museums in Kobarid/Karfreit (Slowenien), und so manches Mienenspiel der Gesichter in den Ämtern verraten. Jeder alte Ortsname entspricht nämlich dem Bewusstsein, dem Gedächtnis oder besser gesagt dem Auftauchen von etwas, das seit immer in unserer Innerlichkeit und in jenen absoluten Richtigkeiten existiert, und uns erlaubt, vollständige Menschen zu sein. Die Übersetzung eines Ortsnamen trachtet dagegen nach der Zerstörung der Erinnerung, die vom sozialen Konformismus schon bezweckt wird.
Um die Bedeutung der Ortssprache und der mündlichen Überlieferung abzuwerten, behaupten die Neunmalklugen, dass man im kolonisierten Land keine Sprache, sondern nur einen Dialekt spricht. Diese unqualifizierten Linguisten sollten doch wissen, dass nur 6% der italienischen Bevölkerung im Jahre 1860 ausserhalb der Toskana Italienisch konnte, wie Tullio De Mauro bezeugt. Die italienische Sprache war der Dialekt von Florenz wie die französische Sprache die Mundart von Paris war. Man könnte hinzufügen, dass Italien König Viktor Emanuel II. in Teano auf Französisch und nicht auf Italienisch "ausgehändigt" wurde. Wem das noch nicht genug ist, dem könnte man noch die Worte von Martin Walser in Erinnerung bringen, dass der Dialekt der Körper der Sprache, während die Schriftsprache nur der Anzug ist.
Der Dialekt reichert die Sprache mit Sauerstoff an. Er ist wie ein Traum: etwas weit Zurückliegendes und Enthüllendes. Wenn uns die alten Toten im Traum erscheinen würden, würden sie sich im Dialekt an uns wenden und es wäre eine Schande, wenn wir sie nicht verstehen könnten.
(Zeitschrift "Mitteleuropa", Juli 2009)

Tuesday, June 27, 2006

Linguistica

ETIMI E TOPONIMI DI DERIVAZIONE TEDESCA NELLA LINGUA ITALIANA

E’ un fatto acquisito che la quasi totalità dei termini culturali moderni provengano dal greco o dal latino. Le parole “filosofia”, “chimica”, “geografia”, “nevralgia”….entrano pacificamente a far parte del patrimonio linguistico di tutti i paesi, ma forse il fenomeno del prestito linguistico è più vasto di quanto si creda.

Un esperimento su un dizionario etimologico francese contenente 4.635 vocaboli francesi ha evidenziato le seguenti derivazioni, come risulta dalle relazioni degli studiosi della Columbia University:

n. 2.028 dal latino
n. 925 dal greco
n. 604 dal tedesco
n. 154 dall’inglese
n. 285 dall’italiano
n. 119 dallo spagnolo
n. 34 dal turco
n. 99 da lingue asiatiche
n. 62 da lingue amerindiane
n. 146 dall’arabo
n. 96 dal celtico
n. 10 dal portoghese
n. 36 dall’ebraico
n. 25 dallo slavo
n. 4 dall’ungherese
n. 2 da parlate australiane
n. 6 da altre radici
----------
4.635.= (*)
======

I conti tornano, ma non c’è un solo termine in quel dizionario che possa essere considerato completamente francese. Per quanto riguarda la lingua italiana potrebbero variare gli addendi, ma la somma non cambierebbe.
Si ha subito l’impressione che vocaboli come “abbandonare”, “allocco”, “landa”, “borgo” e “gualdrappa” siano di derivazione germanica. Ma quanto vasto è in realtà il fenomeno? Il presente studio è appena indicativo e non esaustivo.
I toponimi con le desinenze in “ago”, “aga”, “igo” ed “iga” (Asiago, Soligo, Lorenzaga, Alpago, Grassaga, Maniago, Moriago, Osigo, Orsago, Umago, Vedelago, Lancenigo, Francenigo, Pianica, Lonigo….) risalgono alle antiche fattorie protoceltiche e galliche. Lo stesso si può, almeno in parte, dire delle località, come Basalghelle, che hanno conservato in qualche modo uno dei suoni suddetti nel corpo del toponimo.
Le desinenze in “lano” (Conegliano, Milano, Terlano, Martegliano, Pianzano, Primolano….) derivano dal tedesco “Land”. I fiumi hanno spesso dato il loro nome alle vicine località. Le radici celtiche “avon”, “asio”, “esa”, “iso” (Piavon, Treviso, Nervesa….) indicano insediamenti sui fiumi. Dal termine celtico “Bona = Burg = Castrum = Castello) derivano Bonomia = Bologna, Bonassola, Bonate, Bonea, Bonavigo e molti altri nomi di paese. La “Berghem” dei Galli Cenomani (“Bergheim “ in longobardo = Casa sulla montagna). Il termine celtico “brigo” voleva dire “altura”. Lo steso dovrebbe valere per i toponimi Berico, Spilimbergo, Solimbergo, ed altri. Dal vocabolo “seg” (tedesco “Sieg = vittoria”) derivano Susa, Segusio, Segusino…, Susegana, ma anche il nome del fiume “Rasego”, il quale indica una località nei cui pressi è stata conseguita un’ antica vittoria.

Numerosi sono anche i toponimi di derivazione gotica e la storia fornisce molte ed autorevoli motivazioni al riguardo: Castello di Godego (Castello dei Goti), Godega di S. Urbano (Gotica, ma anche S. Urbano dei Goti), Goito, Godiasco, Rovigo (anticamente “Rodigo”, tanto è vero che gli abitanti si chiamano “rodigini”). Treviso stessa fu una città gotica, ove sarebbe tra l’altro nato il Re Totila.
Anche i Franchi lasciarono indelebili tracce della loro presenza. Ne è prova il nome del paese di Colfrancui presso Oderzo, che deriva da “Curtis Francorum”.
Dalle tribù longobarde derivano le varie Farre (di Soligo, di Mel, di Alpago, d’Isonzo…).-“Faran” (tedesco “fahren”) significava viaggiare, spostarsi. Le migrazioni germaniche sono state gli spostamenti per eccellenza. Dai termini “Mahr = cavallo” ed “Hemma = recinto” deriva la Maremma, mentre “Gastaldo” proviene da “Gast = ospite” e “Halt = sostegno). La federa rimanda al morbido significato di “piuma fine” (“Feder” in tedesco), mentre la grinfia ricorda “grifan = afferrare”. La stamberga deriva da “steinberga”, cioè “casa di pietra”, mentre tanfo risale a “tampf” (“Dampf” in tedesco moderno con il significato di “vapore”).

Numerosissimi i cognomi. Anche per questi è qui possibile soltanto un accenno: Alighieri, Leopardi, Aldovrandi, Aliprandi, Arcibaldi, Araldi, Astolfi, Bernardi, Gonfalonieri, Gandolfi, Grimaldi, Rambaldi, Rinaldi, Tebaldi, Ubaldi….Garibaldi. E poi Bonaldi, Carli, Cappelletti, Corradini, Frigo, Franchi, Fedrigo, Ghirardi, Gottardi, Guicciardini, Salmoiraghi, Uberti, Lancellotti, Nardi, Zanardi….- Spesso si tratta di patronimici, i cui capostipiti componevano questa o quella migrazione dalle terre del nord sospinta da chissà quali eventi metereologici o sociali.
I vocaboli “arduo”, “bicchiere”, “bigotto”, “bottino”, “bretelle” (i Germani portavano i pantaloni!), “bugia”….derivano dalle parole longobarde “hard = hart = forte”, “behhari = Becher = bicchiere, “bi-god = per Dio, presso Dio”, “buite = Beute = spartizione, preda”, “brittil = redini”, “bausja = cattiveria, inganno”.

I toponimi sono più importanti e resistenti di qualsiasi altra parola, di qualsiasi monumento. Quando la gente ha chiamato un luogo con un nome, potrà cambiare tutto, ma quel nome rimarrà. Torniamo dunque ai toponimi. La Val Lagarina deriva dalla voce longobarda “lagaris”, oppure gotica “lagar”, nel senso tedesco attuale di “Lager”, cioè accampamento. Il fiume Bacchiglione rimanda alla radice germanica transitata nel tedesco moderno col termine “Bach = ruscello”. La città di Soave, invece, deriva da “Schwaben = Svevia” in ricordo di un’antica migrazione da quella regione per volere di Carlo Magno.

Intere espressioni come “far pagare il fio”, richiamano l’usanza germanica di pretendere un risarcimento in bestiame (Vieh, appunto) per cancellare un’offesa.

Eventi bellici, come quello del 286 a. C., convinsero i Romani a prendere atto della situazione etnica in talune zone e chiamarono Sena Gallica la nuova colonia, che è l’odierna Senigallia. Meta Langobarda divenne invece Mezzolombardo. In Veneto parecchie località confermano la presenza dei Galli (Prà dei Gài, località Gài….), come il cognome Ongaro e le “strade ongaresche” sono certamente da ricollegarsi con gi Ungari e con altri popoli così impropriamente denominati dalle scarse cognizioni popolari dell’epoca. Gli Ungari dovettero incidere profondamente la coscienza collettiva veneta, se nelle rogazioni per implorare la pioggia esiste perfino una litania che dice: “Ab ira Hungarorum libera nos Domine!”.

Non si creda che la rilevazione di prestiti linguistici germanici sia una scoperta recente. Almeno una ventina furono gli scrittori latini classici che, essendo di estrazione gallica, introdussero nei loro scritti numerosi celtismi. Di preferenze si trattava di termini relativi alle armi, all’agricoltura, ai veicoli, all’abbigliamento, all’allevamento del bestiame, al commercio.

La presente relazione considera in prevalenza etimi e toponimi ricorrenti soprattutto nelle regioni nord-orientali, ma utile sarebbe una completa rassegna di tutti i termini transitati dagli idiomi nordici nelle varie parlate di tutte le regioni dello stato italiano. Servirebbe sia per una seria valutazione culturale di indubbio interesse, sia per un’auspicabile revisione di numerose convinzioni non sempre giustificate dal punto di vista storico, nonché per un corretto rapporto tra i popoli che una vocazione europeistica, se autentica, presuppone.

(*) M. Pei. Histoire du language. Pag. 107.

(Convegno Internazionale di Germanistica, Treviso , Casa dei Carraresi, 23 marzo 1990).




LA LINGUA UMANA

“Ora la terra continuava ad avere una sola lingua e le stesse parole” (Genesi, 11;1)

Una lingua è più che una semplice somma di parole: essa è un sistema di simboli aperto. Per parole e proposizioni s’ intendono segni che rappresentano, ma non raffigurano, i concetti di esprimere. Il sistema aperto è basato su un ordine interno, realizzato mediante apposite regole, che consentono la formulazione di ulteriori espressioni, benché non ancora consolidate nel sistema stesso.

Le dimensioni della lingua sono:

a) comprensione e produzione di suoni (fonologia);
b) patrimonio lessicale (lessico);
c) regole che collocano le parole in periodi grammaticalmente corretti (sintassi);
d) significati di vocaboli e periodi (semantica).

La linguistica studia la lingua in quanto sistema di segni. La psicolinguistica considera le facoltà mentali coinvolte nel linguaggio. La pragmalinguistica esamina la lingua nel suo ruolo di comunicazione sociale. La sociolinguistica si occupa del comportamento linguistico tipico di un dato gruppo.

Venticinque secoli fa il faraone Psammete compì un esperimento, che oggi sarebbe certamente proibito agli studiosi del comportamento. Il suo scopo era di stabilire quale fosse stata la lingua originaria dell’ uomo ed a tal fine fece trasportare due neonati in una località desertica. Due anni più tardi i piccoli furono ricondotti a casa e si constatò che gli unici suoni, che essi erano in grado di pronunciare, assomigliavano al belato degli ovini, loro unici compagni nel deserto. Qualcuno osservò che “bekos” in frigio significava oltretutto “pane” e si concluse un po’ semplicisticamente che il frigio doveva essere la protolingua dell’ umanità.
Questa conclusione non dovette tuttavia apparire soddisfacente, se nei secoli successivi gli interrogativi sull’ origine della lingua non solo non accennarono a diminuire, ma si riproposero con maggiore insistenza.
“Nel principio era la Parola”, esordisce il Vangelo di San Giovanni e la lingua viene proposta come il più umano e il più divino degli eventi. Nel 1769 Johann Gottfried Herder vinse il concorso indetto dall’ Accademia Prussiana delle Scienze con un saggio, secondo il quale la lingua non era da considerarsi un dono di Dio, bensì una scoperta umana. Da allora le ricerche sulla glottogenesi proliferarono ipotesi che andavano dall’ imitazione dei suoni più familiari ai significati inconsci delle danze rituali, dalla significazione dei gesti alle naturali risonanze delle cose. La Società Linguistica Francese fu giustamente molto critica al riguardo e nel 1866 giunse a vietare nei propri statuti sia ogni teoria glottogenica, sia ogni proposta per la realizzazione di lingue cosiddette universali.

Le scienze interessate all’argomento tuttavia non disarmarono. Mentre veniva registrato un gran numero di comportamenti linguistici infantili, furono escogitati ingegnosi giuochi per i bambini ed eseguiti minuziosi confronti anatomici. Sulla genesi della lingua si sviluppò un’ ampia letteratura, specialmente negli ultimi vent’ anni, e benché una esauriente spiegazione non sia ancora stata data, possiamo almeno affermare di essere meno disinformati sull’ importante questione.

Alcune certezze

Per prima cosa fu accertato che il linguaggio infantile non corrisponde in alcun modo alla lingua degli adulti resa frammentaria e sfigurata dall’immaturità. I bambini imparano l’idioma materno in fasi successive, secondo un programma universalmente valido e non influenzabile da metodi pedagogici, cosicché l’accelerazione o il rallentamento dell’apprendimento risulta immune contro ogni intervento esterno. Per nulla interessati alla rettifica del loro discorso, i bimbi acquistano la capacità di esprimere correttamente un certo numero di frasi, indifferentemente dal fatto che il messaggio sia loro giunto in maniera incompleta e difettosa. La lingua, cioè un complicatissimo sistema di regole, viene appresa in tenera età, anche da individui psicologicamente meno dotati, secondo un procedimento diverso da quello degli adulti, che spesso dimostrano una mai superata difficoltà nel corretto impiego di talune regole grammaticali che pure sono d’uso comune.
L’apprendimento della lingua materna segue un iter che non è paragonabile ai metodi per il successivo studio delle lingue straniere, in quanto il primo risulta più agevole, meno faticoso, più profondo. Non si tratta di un esercizio cosciente, bensì di una generalizzata imitazione. All’ età du due anni il 20% delle espressioni corrisponde esclusivamente a ciò che è stato udito, ma un anno più tardi tale percentuale è già ridotta al 2%. Sotto certi aspetti si potrebbe affermare che il lobo cerebrale deputato al linguaggio legge soprattutto le consonanti. Le vocali servirebbero per veicolare le connessioni grammaticali. Il sistema assomiglierebbe, per assurdo, ad un codice fiscale.
Decisiva per l’acquisizione linguistica è l’ interazione. Fino al terzo anno di vita questa è limitata ai genitori ed in seguito allargata ai coetanei. E’ stato osservato come i figli di genitori sordomuti, benché abbiano spesso l’ occasione di udire interi discorsi tramite la televisione, non imparino a parlare, bensì ad usare il noto linguaggio gestuale. E’ pertanto probabile che molti, petulanti “perché” rivolti dai bimbi ai genitori non corrispondano tanto ad un’ esigenza conoscitiva, quanto alla necessità di mantenere la continuità del dialogo.
L’apprendimento linguistico procede molto speditamente. A diciotto mesi il bambino comincia a parlare, ma il lessico si triplica tra i due ed i tre anni e mezzo, passando dai cinquecento ai più di milleduecento vocaboli. A cinque anni il bambino conosce già le regole fondamentali e le più importanti eccezioni della propria lingua. All’ inizio della pubertà la fase di accumulazione linguistica è praticamente conclusa e chi non abbia già appreso la propria lingua materna, non la imparerà più.
Una conferma di ciò è stata fornita da un episodio quanto mai crudele scoperto in California nel 1971. Una ragazza era stata segregata dalla propria famiglia fin dall’ età di venti mesi e ogni suo tentativo di parlare era sempre stato punito. Quando, dodici anni più tardi, la segregazione finalmente cessò, l’ adolescente non solo non era in grado di capire, ma apprendeva il linguaggio con estrema lentezza.
Il fatto fu confrontato con il caso di un’ altra ragazza, resa cieca dalla meningite all’età di diciannove mesi. Questa crebbe comunicando in un primo tempo mediante un proprio linguaggio gestuale. All’ età di sette anni un’ intelligente maestra cominciò a scriverle qualche parola sul palmo della mano e due mesi più tardi la bambina conosceva già duecento parole. Un mese dopo fu scritta la prima letterina e a dieci anni il lessico era completamente uguale a quello dei coetanei. Era accaduto che il tatto aveva sostituito l’ organo della vista.

La parola prima e dopo la nascita

Lo sviluppo linguistico inizia già nel grembo materno ed ha più precisamente sede nella corteccia cerebrale sinistra, a meno che il nascituro non sia mancino. Come è noto, la specificità della massa cerebrale è già determinata nella ventesima settimana dopo il concepimento e l’ embrione reagisce a sinistra a stimolazioni linguistiche e a destra agli altri stimoli.
Immediatamente dopo la nascita il neonato è in condizione di distinguere la voce, cioè il linguaggio, dagli altri rumori. Soltanto due mesi più tardi è la volta delle voci note e sconosciute, maschili o femminili, espressioni di gioia o di collera. Tutto lascia intendere che l’ essere umano disponga di rilevatori linguistici innati che gli consentono di riconoscere prima la lingua e poi di isolarne le componenti. La ritmizzazione del balbettio compare nel secondo semestre di vita ed incomincia così ad attestarsi una voce di comunicazione. Verso l’ ottavo mese inizia la prosodia, cioè l’ imitazione della voce materna. E’ comprensibile come l’ individuo non sia mai più in grado di apprendere un altro linguaggio con la perfezione di quello materno, alla cui prosodia egli si è trovato esposto fin dai primi istanti di vita. Sempre intorno all’ ottavo mese il bambino inizia il raddoppiamento sillabico dei propri suoni, dando origine a manifestazioni come “baba”, “nana”, “papa”, “mama”, “tata”, sorprendentemente uguali presso tutti i popoli. Nella lingua georgiana il vocabolo “mama” significa padre, come “dada” significa madre, ma la novità sta nel fatto che si tratta di un’ autoimitazione e non più di suoni sentiti, o meglio un collegamento tra l’udire ed il parlare che porterà, tra il 12° e il 18° mese, alla prima formulazione di parole vere e proprie.

La primavera della lingua

La fase iniziale si manifesta mediante monosillabi che tuttavia non sono paragonabili a quegli degli adulti. Gli scienziati amburghesi Clara e William Stern hanno dimostrato, già all’inizio del nostro secolo, che il monosillabo ‘miao’ non significa soltanto “gatto”, ma “questo è un gatto”, “vorrei accarezzare il gatto”, “ho paura del gatto”. Il monosillabo contiene dunque il significato di un intero periodo.
Il bimbo si occupa dunque di analizzare sintatticamente la lingua che egli ode, benché non sia in grado di collegare logicamente nemmeno due delle sue parole. Al posto di quest’ ultima operazione si verificherà un allineamento verticale di singoli vocaboli, come potrebbe risultare dal seguente colloquio registrato:

Bimbo : Auto, auto.
Adulto: Che cosa?
Bimbo : Andare, andare. Corriera, corriera.
Adulto: Che cosa? Bicicletta? Vuoi dire bicicletta?
Bimbo : No
Adulto: No?
Bimbo : No.

Le espressioni infantili sarebbero state disposte orizzontalmente da un adulto come segue: “L’ automobile che ho appena udito mi ricorda che ieri abbiamo viaggiato con l’ autobus e non con la bicicletta”. Due momenti presiedono pertanto alla necessità di sviluppare una sintassi: il primo è analitico e scompone singole cose e procedimenti, cui vengono attribuiti dei nomi; il secondo è sintetico e collega i singoli dettagli con l’ aiuto della sintassi fino a costituire un’ unità provvista di senso. Nel periodo di tempo che intercorre tra il 12° e il 18° mese di vita il bimbo usa da 10 a 50 vocaboli cui attribuisce un intero significato preposizionale. Giunge poi la fase in cui sono presenti due vocaboli, come ad esempio: “Palla qui, vino no, zucchero si”.
Negli anni ’60 un linguista americano credette di aver scoperto le leggi grammaticali che presiedono a questa fase periodale di due parole: le parole-perno (poco numerose, di difficile contenuto) e le cosiddette parole aperte (il cui numero cresce celermente). Il discorso del bambino in due termini consisterebbe sempre in una parola-perno e in una parola aperta. Questa ipotesi fu però contraddetta da numerosi specialisti del linguaggio infantile, tra i quali il famoso psicologo Roger Brown dell’Università di Harvard.
Una fase successiva, vale a dire quella dei periodi con tre parole, non esiste. Essa appartiene al normale sviluppo linguistico infantile. A questo punto assumono importanza le relazioni tra cosa e cosa ed i bambini non si limitano più a chiamare gli oggetti col loro nome. La presenza di un oggetto, la sua collocazione o la improvvisa sparizione (vale a dire la relazione della cosa con se stessa), le azioni di persone in qualche modo collegate con un oggetto, nonché il luogo dove le cose si trovano, risvegliano il massimo interesse. I nomi corrispondenti ad animali domestici o a giocattoli vengono imparati per primi, trattandosi dei centri di attenzione più mobili, e le parole esprimono in un primo tempo concetti dinamici, prima che statici, relativi sia alla propria nutrizione o al desiderio che altri agiscano in un determinato modo.
Dopo la fase dei due vocaboli subentra la necessità di strutturare gerarchicamente i periodi ed il bimbo si trova alle prese con la sintassi. Il mondo linguistico si divide in cose ed azioni, poi in soggetti, oggetti e relazioni tra le azioni stesse. Dalle precedenti relazioni bivocaliche “Tu libro” e “Leggere libro” si giunge al “Tu leggi libro” con tanto di soggetto, predicato e oggetto. E’ evidente che una tale parlata è ancora tanto povera di termini di funzione, mentre predominano i termini di contenuto, che Roger Brown la chiamò “lingua telegrafica”. Mancano inoltre gli articoli, le preposizioni, gli avverbi e parecchie desinenze.

La crescita dei significati

La psicolinguista Eve Clark dell’ Università di Stanford ha avanzato una interessante ipotesi. Il significato di un vocabolo non è un’ unità monolitica, ma consiste in un certo numero di particolarità. Il bimbo impara in un primo tempo soltanto una o due di tali particolarità, allargandone il significato in un momento successivo. Con la parola “miao” verrà pertanto indicato un primo significato dell’ intero concetto concernente il gatto, per esempio il pelo. La parola “miao” varrà dunque per tutti gli animali abbastanza piccoli, sia per le bestioline in stoffa, i colli di pelliccia, le pantofole felpate. Man mano che l’ apprendimento di altre parole progredisce, si completano anche gli altri significati riferiti alla prima parola.
Un fenomeno degno di nota è che le parole “meno” e “più” hanno un significato intercambiabile nel linguaggio dei bimbi intorno ai tre anni e mezzo. E’ probabile che in un primo tempo venga inteso il solo significato di ‘quantità’ e che i concetti di più e meno affiorino successivamente.
L’ampliamento dei significati sembra essere uno dei più importanti fattori dell’ apprendimento linguistico non solo dal punto di vista semantico, ma anche da quello sintattico. I bambini tentano di isolare le regole della lingua udita, introducendole sperimentalmente nella loro capacità di comunicazione fonica. In inglese i plurali si formano, ad eccezione di qualche caso, con la desinenza s. Un bambino può avere automaticamente imparato che il plurale di foot è feet, ma appena egli avrà imparato la regola generale, sarà portato a formare l’automatico, ma errato plurale “foots”, finché non si sarà abituato all’ eccezione. Le desinenze irregolari ed i complessi paradigmi dei verbi forti tedeschi non consentono al bambino uno schema pratico per formulare una regola. Egli procederà pertanto per tentativi, ma questi non gli saranno molto utili ed il risultato sarà che soltanto a quattro anni un bambino viennese o amburghese potrà raggiungere una certezza linguistica.
Il concetto della negazione compare a circa un anno e mezzo di età. Hennign Wode dell’ Università di Kiel ha studiato come ciò avviene nei bimbi di lingua tedesca. Prima compare la negazione monosillabica, cioè il rifiuto e basta. Poi si registra la negazione bivocalica, per esempio “no, caramella” nel senso di “questo è dolce e non amaro”. Questa negazione viene ampliata per giungere a concetti “no picchiare”, nel senso di “non picchiare”. Soltanto più tardi il ‘no’ diventerà ‘non’,sussistendo tuttavia ancora la difficoltà della negazione dei sostantivi e la problematicità dell’ avverbio ‘mai’.
Dopo il quinto anno di età il bimbo riesce a passare dalle proposizioni coordinate alle subordinate e alle relative. Frasi come “il ragazzo ha spinto l’ amico ed è fuggito” diventano “il ragazzo, che ha spinto l’amico, è fuggito”. Ciò corrisponde all’ introduzione di un principio di economia nella frase, che porta a una notevole semplificazione del discorso ed alla comprensione di molte parole nella loro plurima funzione. Per esempio l’ articolo femminile plurale nel concetto ‘le piante’ può esprimere sia una limitazione ad alcuni, sia una generalizzazione a tutti gli alberi. I passivi irreversibili vengono inoltre imparati prima dei passivi reversibili. “Il sasso è lanciato dal ragazzo” risulta più assimilabile che “Il bambino è amato dalla madre”, in quanto l’ illogicità del contrario (il ragazzo viene lanciato dal sasso” fissa immediatamente e facilmente il concetto nella mente.

Il ritorno alle origini

La speranza della linguistica del XIX secolo di risalire, mediante la grammatica storica, alla lingua umana originaria, andò delusa. Anche le più ardite scoperte non riuscirono a risalire oltre i diecimila anni, mentre l’ età della lingua umana è collocabile tra i 40.000 ed i 4 milioni di anni.
La comparsa della lingua fu posta in relazione con l’ ampliamento dei volumi cerebrali e potrebbe essersi sviluppata presso gli ominidi in un tempo assai lontano. Poiché però soltanto il 20% delle nuove masse neocorticali svolge una funzione connessa col linguaggio, questa ipotesi non è vincolante e la lingua poteva esistere prima o essere comparsa anche dopo.
Qualche teoria insiste su una primitiva lingua gestuale, dalla quale si è poi sviluppata una serie di suoni, che ha sostituito gradualmente la funzione dei gesti. Un’ altra ipotesi pone in stretta relazione lo sviluppo linguistico con quello degli attrezzi impiegati dall’ uomo, lasciando intendere come una grammatica utensile risulti per lo meno tanto complessa quanto quella linguistica. Altri hanno indicato nei suoni emessi dai primati superiori le lontane matrici delle attuali nostre parole. La posizione eretta sembra essere stata determinante, grazie alle sue conseguenze anatomiche, per l’ acquisizione del linguaggio umano. La laringe è scesa di parecchio e le cavità orali e nasali hanno assunto una particolare angolazione rispetto alla cavità faringea. L’ impedimento della contemporaneità delle funzioni respiratorie e deglutitorie aumentò inoltre lo spazio per la modulazione dei suoni nei pressi delle labbra vocali.
Lo scienziato americano Philip Liebermann eseguì, negli anni ’70, minuziosi confronti tra i crani dell’ uomo di Neandertal e dell’ uomo moderno. Ne risultò che il primo non era in grado di pronunciare le vocali a, i ed u, e che il suo linguaggio poteva tutt’ al più apparire molto infantile. L’ anatomista nuovaiorchese Jeffrey Laitman ha tentato più recentemente di ricostruire le possibilità fonetiche dell’ uomo primitivo, prendendone in considerazione la base cranica. Ne derivò che l’ australopithecus africanus, vissuto circa tre milioni di anni fa nelle savane africane, non disponeva di facoltà fonetiche superiori a quelle delle scimmie antropomorfe. L’ uomo di Neandertal possedeva invece, centomila anni fa, un’ articolazione fonetica paragonabile a quella di un bambino tra i 2 e gli 11 anni. Soltanto all’ uomo di Cro-Magnon è attribuibile la completa facoltà linguistica e ciò è databile a circa 40.000 anni fa.
Fino agli anni ’60 si riteneva che nessun animale disponesse di una qualsiasi forma di linguaggio. Poi alcuni psicologi americani riuscirono ad insegnare una specie di lingua gestuale a qualche scimmia antropomorfa. Tale avvenimento sollevò il problema della quantità di intelligenza necessaria per poter giungere alla lingua. Una asimmetria anatomica dei due emisferi cerebrali esiste anche nelle scimmie, ma la relativa funzione non fu mai chiarita. A ciò si aggiunga che molti animali sono in grado di distinguere tonalità linguistiche.
Un principio della lingua è la capacità di esprimere concetti. Prendiamo ad esempio il concetto ‘albero’.Evidentemente esistono concetti prelinguistici. Lo spirito può avere il concetto di albero senza disporre di un’ apposita parola per definirlo. La concettualità presuppone una capacità classificatrice che a sua volta disponga di facoltà di astrazione e generalizzazione. Di tutti gli alberi visti debbono così essere isolati gli aspetti che distinguono gli uni dagli altri e ciò che rimane verrà generalizzato in una categoria di cose che corrispondono a tutti gli alberi, compresi quelli ancora mai visti.
La concettualità fu considerata per molto tempo come una conseguenza della cosiddetta percezione plurimodale, vale a dire la capacità umana di sintetizzare i messaggi che giungono al cervello attraverso i sensi, in maniera che alcuni dati siano sufficienti ad integrarne altri nell’ immaginazione. Accadrà così che, sentendo nitrire, ci si possa raffigurare un cavallo. La percezione plurimodale, per quanto possa sembrare sorprendente, non è una facoltà esclusivamente umana, bensì comune ad alcuni animali.
Non esiste una lingua senza una sufficiente memoria, altrimenti le parole imparate svanirebbero subito. Ora la psicologia preferisce parlare di rappresentanza anziché di rappresentazione ed in effetti la lingua si basa su un alto grado di capacità rappresentativa. In un primo tempo vengono percepite le relazioni tra gli avvenimenti reali e la loro rappresentazione. I movimenti, mediante i quali l’ ape informa le compagne sulla disponibilità del cibo, non costituiscono probabilmente una rappresentanza delle cognizioni relative all’ ubicazione dei fiori e pertanto non possono essere considerati una lingua.
La lingua deve essere creativa. Essa non consiste in un repertorio rigido di segni, ma è aperta a nuove espressioni. Concetti come “cappello per viso” o “frutto che brucia e fa piangere”, presenti nel linguaggio di tribù primitive per significare rispettivamente la maschera e i ravanelli, dimostrano la presenza di questa creatività. Determinante per la lingua è tuttavia la capacità di destinare dati simboli sia al concetto di cose, sia al concetto di relazioni tra cose. Dato che tale capacità non sembra però essere un privilegio dell’ uomo, sorge spontanea la curiosità di conoscere il motivo per cui la natura abbia dotato i primati superiori di tanti presupposti, ma non abbia completato l’ evoluzione linguistica, realizzando un profondo vuoto tra questi e l’ uomo.
Il poeta Octavio Paz ha confermato la soluzione di continuità tra animali ed uomo con i seguenti versi citati da Dieter E. Zimmer nel suo studio sulla lingua, che costituisce il supporto del presente lavoro:

“La lingua è l’ abitazione di tutti,
la casa solitaria sull’ orlo dell’ abisso.
Scambiarsi parole è umano.”

Il pensiero dei linguisti

Le teorie sull’ ereditarietà linguistica sono avversate dalle seguenti considerazioni:

1) Nulla è ereditario in campo linguistico e tutto viene acquisito mediante condizionamenti. Il bimbo non impara singoli dettagli della lingua, non riproduce solo elementi mnemonici, ma isola regole dalle frasi udite, norme che verranno impiegate nella costruzione di nuove, proprie espressioni non necessariamente udite in precedenza. Ne consegue una parlata alquanto diversa dal modello materno, ma successivi aggiustamenti sono resi possibili mediante lodi o rimproveri.
2) Di opinione contraria fu il linguista americano Noam Chomsky, secondo il quale esisterebbero, sotto la struttura superficiale del periodo, particolari operazioni logico-formali capaci di trasformare un limitato numero di strutture grammaticali base nella varietà di tutti i possibili casi. Secondo questa ipotesi esisterebbero tra le diverse lingue stretti legami di parentela e la grammatica di Chomsky attribuisce maggiore rilevanza al pensiero che alla cosmesi linguistica ed ortografica. Un’ altra affermazione di Chomsky sostiene che le regole grammaticali sono stabilite da specifici geni linguistici e che pertanto sono innate. La lingua è dunque un organo come la vista o l’udito, ma soltanto l’ uomo ne dispone, benché il suo possesso non sia in relazione con l’ intelligenza. Soltanto l’ apporto genetico spiegherebbe come l’ uomo riesca a raggiungere la propria competenza linguistica utilizzando lo scarso materiale a disposizione.
3) Diverse ancora sono le conclusioni dello psicologo ginevrino Jean Piaget. Secondo quest’ ultimo soltanto il funzionamento dell’ intelligenza è fissato geneticamente e l’ acquisizione linguistica è un sintomo della facoltà cognitiva umana. La capacità di riconoscere i simboli si manifesta prima del linguaggio e quest’ ultimo se ne serve poi insieme ad altri elementi.

La controversi tra l’ ipotesi di Chomsky e le idee di Piaget non è ancora risolta, ma quest’ ultimo potrebbe avere ragione. In realtà sembra chiaro che il pensiero possa esistere anche senza la lingua, ma bisogna pur ammettere che il verbo influenzi la mens in qualche modo. Minuziosi studi condotti nel 1956 da Benjamin Lee Worf condussero alla enunciazione del cosiddetto principio di relatività linguistica. In altre parole l’ uomo sarebbe una specie di prigioniero della propria lingua, in quanto costretto dalla propria forma espressiva. Non si può negare, a titolo esemplificativo, che le parole apache destino nei bianchi una certa meraviglia, quando indicano la pioggia come qualcosa di bianco che cade dal cielo, ma a loro volta gli indiani hanno diritto di meravigliarsi sentendo nominare ferrovia ciò che nell’ espressione risulta come un sentiero femminile fatto di ferro.
Maggiori chiarimenti in proposito derivano dla test dei colori. Poiché i colori sono particolari frequenze dello spettro elettromagnetico, la loro percezione sarà probabilmente uguale presso tutti gli uomini, ma il numero di colori che trovano una denominazione differisce da lingua a lingua. La popolazione Dani della Nuova Guinea conosce parole soltanto per il bianco e il nero.
La sperimentazione ha stabilito che i più spiccati colori dello spettro, i cosiddetti colori focali, vengono percepiti e ricordati in maniera uguale dall’ uomo, sia che la lingua disponga, o meno, di adeguati vocaboli per denominarli. Le parole per i colori focali vengono imparate più celermente che quelle per gli altri colori. La possibilità di chiamare un colore con un dato vocabolo facilita nella memoria il riconoscimento di quel colore, ma ciò non significa che la lingua formi la percezione, bensì l’ opposto.

Le categorie percettive e linguistiche non sono separabili. Compito della ricerca futura sarà tuttavia di stabilire come le lingue, le culture e gli individui si comportino nell’ isolare, nel categorizzare ed infine nel denominare gli innumerevoli aspetti della natura.

(Le lingue del mondo, - 4 - Valmartina editore, Firenze.)



I WALSER E LE COLONIE TEDESCHE DELLA CARNIA E DEL CADORE

(saggio Prof. Ardito Desio)


Nel precedente incontro sui Walser, io ho avuto l’imprudenza di segnalare un fenomeno analogo che esiste in Friuli, e ho detto poche parole sulla presenza di queste colonie tedesche in due località del Friuli e in una terza, nel Cadore, ma molto prossima al Friuli.
Questa imprudenza mi è giovata di essere chiamato qui adesso. Io non sono uno specialista di questo argomento, ma vi posso dire soltanto che il fenomeno dei Walser si ripete in forma direi analoga anche in queste tre località del Friuli e del Cadore. Le località sono Timau, Sauris e Sappada. Sappada, dicevo, è in Cadore, non proprio in Friuli.
Vi dirò che la ragione principale che mi ha fatto pensare a una affinità con i Walser, è che anche qui si parla un dialetto tedesco arcaico, sul quale io non ho competenza, ma sul quale qualcuno qui presente potrà dire qualche cosa.
Riguardo alla quota in cui sono distribuiti questi villaggi, è giusto ricordare che in Friuli i limiti altimetrici sono molto più bassi in proporzione al resto delle Alpi. Per esempio, a Timau, il capoluogo è a 816 metri, ma è distribuito anche più in alto. In Friuli abbiamo i ghiacciai sotto i 2000 metri; tutti i limiti altimetrici del bosco, delle coltivazioni ecc. sono più bassi che nelle altre parti delle Alpi. Quindi 816 metri per noi è una quota molto elevata. Sauris, che forse è l’abitato più grosso, è distribuito fra 837 e 1462 metri. Quindi anche qui abbiamo un villaggio distribuito ad alta quota. A Sappada, il centro abitato è a 1217 metri.
Come vedete, il fenomeno di queste popolazioni che sono immigrate e poi rifugiate ad alta quota, si ripete in queste località del Friuli. Io non so, linguisticamente, se hanno affinità o meno tra loro, ma il caso vuole che proprio in questi giorni sia uscito un piccolo giornalino che pubblichiamo noi friulani a Milano, intitolato Il Fogolâr Furlàn di Milano. Vi ricordo che noi Friulani siamo dei Ladini e quindi facciamo parte di un ceppo linguistico diverso dall’italiano, ceppo linguistico che risale nei secoli molto più lontano dell’italiano e che corrisponde al latino della decadenza. In questo giornalino c’è un articolo dal titolo: Timau-Tischelwang: esistenze e destino di un’isola linguistica tedesca in Friuli. L’autore di questo articolo, il quale è un competente dell’argomento, è il dottor Nerio De Carlo. Poiché è presente, vorrei che ne parlasse lui.
Io ho portato qui una Guida della Carnia, che fornisce alcune notizie su queste località. Ne vorrei ricordare una sola, sulle origini di questa colonia di Timau, un poco singolari. L’autore di questa Guida, cui hanno collaborato tutti specialisti, è Giovanni Marinelli, un grande geografo friulano. Dice la Guida come Timau abbia visto aumentare la sua popolazione in seguito alla scoperta e alla utilizzazione delle miniere di rame argentifero, che risultano segnalate a Valgrande, Valpiccola e Pramerio e nello stesso pendio della cresta che gli sta immanente tra i 1470 e i 1578, ma certamente preesistevano a tale periodo e, stando ai documenti noti, non risalgono oltre il XIV secolo, mentre la villa di Timau è ricordata fino in atti del 1234, una singolarità rispetto ad altre fondazioni di colonie tedesche nel versante meridionale delle Alpi. Alla chiamata di minatori d’oltralpe è probabile che si debba l’origine tedesca della popolazione, la quale, come già vedemmo, parlava ancora l’antico dialetto, per quanto assai deformato e usato oggi solo dalle donne e dai ragazzi. Da tempo immemorabile la lingua della predica e della confessione è il friulano, quella della scuola l’italiano e, occorrendo, il friulano.

(Ardito Desio, Professore Emerito dell’Università di Milano e Accademico Nazionale dei Lincei, è presidente del Fogolâr Furlàn di Milano)

La Questione Walser – Atti della prima giornata internazionale di studio, Orta 4 giugno 1983, pag. 161-162. Fondazione Arch, Enrico Monti, 1984.





AFFINITA’ ELETTIVE TRA LE COLONIE TEDESCHE A SUD DELLE ALPI

Oltre a considerevoli “affinità ambientali” di ordine geografico, cui il Prof. Ardito Desio ha autorevolmente accennato, esistono molteplici “affinità elettive” che giustificano l’intervento di friulani in questo convegno sui Walser, cioè in un incontro improntato all’autentico significato di παίδεια, vale a dire confronto di modi d’essere.
Come è noto, in Sud America esistono cospicue comunità di emigrati friulani, non di rado raggruppate in floridi e vasti centri. In molti casi si tratta di allevatori e proprio uno di questi mi comunicò che alla vendita del bestiame provvedevano gruppi di “tedeschi” non meglio precisati, ma residenti nelle vicinanze. Da informazioni assunte in diverse sedi sembrerebbe che nella zona non esistano insediamenti costituiti da emigrati germanici, austriaci o svizzero-tedeschi, pur presenti altrove. Taluni indizi lasciano supporre che si tratti di Walser, partiti dalle loro terre al tempo delle grandi migrazioni.
Ciò premesso, e prima di parlare di altri insediamenti germanofoni a sud delle Alpi, sia concessa una precisazione. Nel corso degli interventi che sono preceduti, ma soprattutto in margine ad essi, è stato frequentemente denominato “dialetto” il linguaggio delle minoranze etniche. I friulani rifiutano la definizione di dialetto per le lingue non maggioritarie. In qualche occasione quest’ultime sono state definite anche “patois”, ovvero medi di esprimersi “da piedi”, dato che il termine deriva dal francese “pattes”, che significa appunto “piedi”. E’ il caso di rammentare invece che tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro appartenenza etnica, non si esprimono con le estremità, bensì secondo natura con la lingua, col cuore e con lo spirito.
Come sul versante meridionale delle Alpi occidentali abitarono, ed abitano, i Walser, sull’omonimo versante delle Alpi centro-orientali esistettero, e resistono, altre isole linguistiche di lingua tedesca. La peculiare collocazione geografica degli uni e delle altre costituì, e costituisce, senza dubbio un filo conduttore nel loro non facile destino.
Sull’Altipiano di Asiago c’era un tempo un’iscrizione, ortograficamente anemica ma di profondo significato:

“Dise saint Siben
Alte Kameün Prüdere Liben
Slege Lusaan Genebe Wüsche
Gell Rotz Roboan“.

Ecco la traduzione: “Questi sono i sette comuni, fratelli cari: Asiago, Lusiana, Enego, Foza, Gallio, Rotzo, Roana”. E’ singolare, ed esemplare, il costume di chiamare il viandante e l’ospite “fratelli cari”.
Maggiore la consistenza germanofona in provincia di Verona: tredici comuni. Di particolare interesse è inoltre l’insediamento nell’Altipiano del Cansiglio, al crocevia delle province di Treviso, Pordenone e Belluno.
Stiamo parlando dei cosiddetti “Cimbri”. E’ ovvio che non può trattarsi dei discendenti di quel popolo danese che nell’anno 101 a:C. fu vinto dal console romano Mario. Il loro linguaggio tradisce una provenienza bavaro-tirolese e l’emigrazione potrebbe aver avuto luogo nel XII secolo. E’ per esempio sintomatico l’uso di termini come “Pfeit” per “Hemd” (camicia), “Luppa” per “Käselab” (caglio), “Pfinztag” per “Donnerstag” (giovedì), “Ertag” per “Diestag” (martedì). Alcuni suoni medioaltotedeschi come la ê e la ô diventano inoltre ea ed oa, es. “schnea” per “Schnee” (neve) e “štroa” per “Stroh” (paglia). Si dice anche “pom” per “Baum” (albero) e “loga” per “Lauge” (lisciva).
Un tempo la consistenza numerica dei Cimbri dovette essere tutt’altro che esigua, specialmente in provincia di Vicenza. Si racconta che un comandante vicentino, casualmente alleato dei padovani, per non far conoscere il suo piano strategico nemmeno a quest’ultimi, (la prudenza non è mai troppa), si rivolse alle truppe in tedesco.
Quanto alla convinzione della discendenza cimbra, si dice che in occasione di una lontana visita di un regnante danese nella zona, questi sia stato ricevuto con il grido “Viva il nostro Re”. In realtà il nome della popolazione potrebbe derivare dal termine tedesco “Cimbarmann”, parola antica che significava “lavoratore del legno”, occupazione principale nella zona nei tempi passati.
La fama di sincerità dei Cimbri oltrepassò i confini degli antichi comuni. In talune zone del Veneto si diceva fino a poco tempo fa: ”Sei onesto come un Cimbro”. Il celebre poeta veneto Andrea Zanzotto usa, mi pare, il vocabolo “cimbrico” in una sua recente composizione per proporre situazioni dell’anima altrimenti non esprimibili con altro termine.
Fino all’inizio di questo secolo le isole linguistiche cimare godettero di una certa protezione: veniva perfino stampato il Catechismo in quel linguaggio. Poi tale considerazione divenne sempre più decaffeinata. Negli ultimi tempi la Regione Veneto ha dimostrato rinnovata sensibilità per i problemi di quella cultura. In Friuli e nel Bellunese esistono altre isole linguistiche tedesche: Sauris-Zahre, Timau-Tischelwang, La Val Canale-Kanaltal, Sappada-Pladen.
Il toponimo Tischelwang significa “bosco delle borse dei pastori” e deriva dal nome di pianta “Täschelkraut”, ossia la “Caspella bursa pastorum” molto frequente nella zona. Il linguaggio di Timau conserva tratti del tardo antico tedesco. Ne sono prova le sonorità delle consonanti “b”, “d” e “g”, il mantenimento dei suoni sillabici nelle desinenze e soprattutto l’inconfondibile e simpatico allungamento fonetico carinziano. Quanto al toponimo Timau, esso richiama l’antica divinità carsica “Timavus”.
E’ il caso di sottolineare che per secoli comunità etniche diverse convissero nel reciproco rispetto dell’identità e della cultura altrui. Nell’attuale, più ampio discorso europeo quel civile atteggiamento meriterebbe di essere citato come esempio per futuri sviluppi.
Questa esposizione sulle isole tedesche in Veneto ed in Friuli, cui sarebbe doveroso aggiungere anche Lusern/Lusern e la Val Fersina/Fersental, termina con la proposta di un saggio linguistico, riferito a quelle antiche culture, e di una poetica nota di nostalgia per una realtà che, purtroppo, si sta stemperando senza che la nostra società si renda conto della perdita.

Saggio linguistico di Timau/Tischelwang: (Bruno Petris, Tischlbong – Ud 1980).
Longast Kindar Reaslan
Dar lonast kimp mit groassa schrit,
unt da suna schaint sou schian.
Is schbalbl liap in eistlan
Un plianant glindarlan, stiawmiatarlan und engalan.
Da Kindar sent lusti und splint,
da olta muatar maudart in da suna
mit dar petsch in da hont.
Da nocht is stila und dar nachtlingar sink.
Dar monaschain laichtat sou schian
Una da stearna glonznt in himbl.

Frühling, Kinder und Blumen
Der Frühling kommt mit großem Schritt
Und die Sonne scheint so schön.
Das Schwälblein tut schön im Nest
Und es blühen Schneeglöckchen, Stiefmütterchen und Vergissmeinnicht.
Die Kinder sind lustig und spielen,
die alte Mutter träumt in der Sonne
mit dem Rosenkranz in der Hand.
Die Nacht ist still und die Nachtigall singt,
del Mondschein leuchtet so schön
und die Sterne glänzen im Himmel.

Primavera, bimbi e fiori

La primavera giunge con lungo passo
Ed il sole brilla così bello. La rondinella abbellisce il nido
E fioriscono campanule, viole del pensiero e nontiscordardimé.
I bimbi sono allegri e giocano,
la vecchia madre sogna al sole
col rosario in mano.
La notte è quieta e canta l’usignolo.
Il chiaro di luna luccica così bello
E le stelle brillano in cielo.

Botschaft

Winden aus allen Fernen, die ihr auf Reisen geht,
gebt meiner Sehnsucht Stimme, wenn ihr mein Land durchweht.
Grüßt mir die Heimatberge, grüßt mir die Wälder weit.
Grüßt mir die lieben, alten Wege der Jugendzeit.
Bringt mir noch einmal Kunde aus jener trauten Welt,
die mich mit tausend Banden jetzt noch umfangen hält.

Messaggio

Venti da ogni lontananza, che vi recate in viaggio,
date voce alla mia nostalgia, quando soffiate sul mio paese.
Salutatemi i monti della patria, salutatemi i boschi estesi.
Salutatemi i cari, vecchi sentieri della gioventù.
Portatemi ancora una volta notizie da quel fido mondo,
che ancor mi avvince con mille nodi.

(Erna Künast)


(La questione Walser – Atti della prima giornata internazionale di studio, Orta 4 giugno 1983,
- Fondazione Arch. Enrico Monti 1984).



IL VENETO E’ LINGUA, NON DIALETTO

“Sono appunti fatti per ajutar la memoria propria e altrui” (Nicolò Tommaseo)

La contrapposizione tra lingua e dialetto è un fatto antico.
Già nel Vangelo (Matteo, 26 – 73) si viene a sapere che Pietro venne riconosciuto da un’ addetta al Sinedrio a causa del suo dialetto, fatto che conferma che perfino Gesù e gli Apostoli usassero con disinvoltura tale linguaggio.
Con l’ apparizione del “volgare” la resistenza della lingua dotta deve essere stata tenace, a giudicare dai monumenti letterari in latino, peraltro pregevoli, risalenti ai secoli tra il X e il XIV. Altri tentativi di rivalsa furono esperiti nel XV secolo, durante l’ Umanesimo. Poi il “volgare” rimase l’ indiscusso interprete delle rispettive culture.
Diverso fu tuttavia l’ uso che della lingua “volgare” fecero gli abitanti della città e della campagna.Entrambe le classi adattarono il linguaggio alle circostanze e finalità quotidiane, spesso impermeabili anche se conviventi nelle medesime località.
Non ne seguì una contrapposizione come al tempo della comparsa del “volgare”, bensì un consolidamento di due modi di parlare, che si concretò anche in una generale dimensione di derisione, e spesso di disprezzo, nei confronti di quanti usavano il linguaggio parlato nella campagna.
Costituisce prova di quanto sopra affermato la comparsa, verso il XII secolo, del termine francese “patois”, che divenne successivamente sinonimo di “dialetto”. E’ il caso di rilevare, come anche il linguista francese Dauzat concorda, che la paroila “patois” deriva dal francese “pattes”, cioè “piedi”. Sarebbe come dire che gli abitanti della campagna parlano con i piedi.
Gli abitanti della campagna parlano invece, come tutti gli esseri umani, con gli organi della fonazione sapientemente e senza discriminazioni elargiti da madre natura!

Caratteristiche della lingua

Lo spagnolo, il francese, l’ italiano, l’ inglese… sono lingue. E che sarebbero mai il veneto, il bergamasco, il romagnolo? Si tratta forse di banali grugniti o di ragli sonori? Oppure di sommessi belati?
Il glottologo Angelo Monteverdi sostenne che un linguaggio che servisse a scrivere poesie, prosa di svago (racconti, fiabe, romanzi), prosa devozionale (prediche, vite di santi, catechismi), nonché atti giuridici e notarili, non è una lingua. Soltanto quando un linguaggio dimostrerà la sua idoneità in tutti i campi culturali, compresi i settori politico e amministrativo, può essere considerato una lingua.
Ne consegue che il francese del XII secolo, il prestigioso linguaggio della Chanson de Roland, non era una lingua. Nemmeno l’ italiano di Dante, Petrarca, Boccaccio era una lingua! Bisognerà attendere il Quattrocento, quando il dialetto toscano penetrerà anche nell’ Italia Settentrionale, nonché la sua normalizzazione condotta dal Bembo e dai teorici successivi. Anche il catalano sarebbe una lingua da poco tempo.
Se questa considerazione vale per lo sviluppo, essa deve valere anche per il declino delle lingue, comprese quelle che sono ritenute eterne.


Le caratteristiche necessarie per definire una lingua possono essere sintetizzate come segue:
1. Originalità grammaticale
a) nella fonetica,
b) nella morfologia,
c) nel lessico;

2. Originalità della genesi storica
3. Secolare tradizione letteraria
4. Coiné linguistica
5. La coscienza di parlare una lingua
6. L’ esistenza di un corpo sociale che la consideri come espressione di cultura.


La lingua veneta

Le prime cinque caratteristiche sono pacificamente presenti nel linguaggio veneto. Troppo lunga sarebbe l’ elencazione dei loro tratti, ma basti pensare alla presenza dei suoni come “dh” e “th”, all’ assenza del passato remoto e alla mutilazione del futuro, al cospicuo contingente di vocaboli assolutamente originali, alla vasta serie di voci latine semanticamente differenziatesi dai continuatori delle stesse basi nelle altre lingue romanze.
Il veneto fu per secoli una vera lingua che servì negli atti notarili, nei rapporti diplomatici, nella storiografia, nella poesia, nel teatro, nella conversazione colta dei ceti più elevati, nelle transazioni internazionali. Da un’ indagine sul Veneto, redatta per ordine di Napoleone nel 1806 da estensori impazienti di poter dimostrare che nulla era il resto del mondo di fronte ai lumi della ragione di estrazione francese, risulta inoltre che “il notissimo bel dialetto tuona maestoso nel Foro”.
Quanto alla coscienza di parlare una lingua, l’ esatta dimensione di questa realtà può desumersi dall’ alto grado di ostilità, che non sarebbe tale qualora l’ avversario da smentire non fosse così grande.
Viene spontaneo chiedersi come mai una tale lingua, come la veneta, possa essere improvvisamente declassata a dialetto per cedere il passo ad un altro dialetto, quello toscano. Nessuna giustificazione è valida, se non quella della costrizione o del gioco di potere. Ma, come si sa, il potere può anche disgregarsi col tempo.
L’ attuale situazione e la mentalità che ne deriva riservano dunque al riconoscimento dello Stato l’ ultima parola in fatto di classificazione di una parlata come lingua o come dialetto. Se ciò fosse logico, non è da escludere che il romagnolo parlato anche a San Marino possa diventare lingua ufficiale a tutti gli effetti, se il Governo di quello Stato lo deliberasse.
Ritorna spontaneo chiedersi se, con tali presupposti, la differenza tra lingua e dialetto esista davvero, oppure sia solo strumentale a questo o quel potere.

La congiura contro il Veneto

Per secoli la contrapposizione linguistica tra città e campagna in Veneto fu molto lieve: tutte le classi parlavano veneto. Recentemente si manifestò il disegno di imporre il toscano, peraltro già superato dal linguaggio dei politici (l’ italiese) e da quello televisivo anche nelle circostanze in cui tale veicolo è tutt’altro che indispensabile, come l’ambito familiare, le comunità agricole, l’artigianato…, settori da sempre ancorati ad un a dimensione veneta che ha delineato l’inconfondibile identità di queste colonne della società veneta. Forse il vero bersaglio non è il modo di parlare veneto (a chi gioverebbe ?) , ma la società veneta colpevole di essere dinamica, disciplinata, non incline a subire ricatti ed ottica mafiosi. Si vuole eliminare in fin dei conti un modello di società diverso da quello che si desidera avere.
Le metodiche per realizzare la congiura contro il veneto sono le solite:
- derisione mediante stereotipi di involontaria subalternità (la classica serva) appartenenti al passato prossimo;
- discriminazione nella scuola e nella pubblica amministrazione;
- svalutazione dei contenuti linguistici propri del popolo veneto.
E’ qui il caso di ricordare per analogia il comportamento dei francesi in Algeria durante la colonizzazione. Per convincere gli algerini a rinnegare la propria lingua araba e adottare il francese dei colonizzatori, quest’ultimi ripetevano (a mò di lavaggio del cervello) che l’arabo non era adatto ai tempi moderni, in quanto lingua medioevale sorpassata e incapace di adeguarsi al mondo industrializzato. Ora, stranamente, Parigi è la città con il più alto numero di scuole di arabo in Europa. Come coerenza, non c’è male.
Si traggano le debite deduzioni anche per quanto riguarda l’attuale denigrazione del veneto, intesa a classificare come cittadini di categoria inferiore coloro che lo parlano.

La pretesa superiorità delle lingue maggioritarie

Si dimentica troppo spesso che l’italiano fu il dialetto di Firenze, come il francese fu il dialetto di Parigi.
Nessun termine di cultura appartiene originariamente a queste lingue, in quanto la quasi totalità dei termini della cultura moderna provengono dal greco, dal latino, dall’inglese o da altre lingue. Parole come “teologia”, “chimica”, “computer”, “scienza”, “nevralgia”…erano parole sconosciute a quanti parlavano toscano qualche secolo fa.
La Columbia University ha compiuto un’indagine sorprendente su un vocabolario etimologico francese contenete ben 4.635 vocaboli base. Eccone i risultati: 2'028 termini provengono dal latino, 925 termini derivano dal greco, 604 vocaboli sono di origine germanica, 154 parole derivano dall’inglese, 96 dal celtico, 285 dall’italiano, 119 dallo spagnolo, 146 dall’arabo, 10 dal portoghese,, 36 dall’ebraico, 4 dall’ungherese, 25 dallo slavo, 6 da lingue africane, 34 dal turco, 99 da differenti lingue asiatiche, 62 da lingue indigene americane, 2 dall’Australia e Polinesia. Parole francesi: zero.
E’ stato intenzionalmente scelto un esperimento riguardante il francese per non urtare suscettibilità e per amore dell’imparzialità, ma chiunque può, per analogia, giungere a ben altre conclusioni anche rispetto all’italiano.
Dove risiedono, dunque,le motivazioni di una pretesa superiorità di altre lingue su quella veneta? Perché mai la lingua veneta dovrebbe avere un complesso di inferiorità?

Risultati della congiura contro il veneto

Gli spropositi linguistici ottenuti con lo stemperamento del veneto ad opera dell’italiano sono innumerevoli.Parte di tali risultati è stato purtroppo raggiunto grazie alla passività, alla collaborazione o alla complicità di taluni veneti, il cui autolesionismo supera in ciò perfino la loro tradizionale laboriosità.
I seguenti tre casi possono dare un’idea dei risultati ottenuti:
a) Una mammina rimprovera bonariamente il proprio figlio per aver indossato il pullover in maniera sbagliata: “Ma, Pierino, non vedi che hai infilato su il davanti per il di dietro?”
b) Una zitella in partenza per fare la conoscenza con i futuri parenti, compari,ecc., chiede al ferroviere: “A che ora parte la stazione?”
c) Uno scolaro, con riferimento ai bachi da seta (i mitici “cavalièr”), che quando diventano gialli non fanno bozzolo, vanno cioè “in vàca”: “Tutti i cavalieri della mia mamma sono andati a puttane”.
d) Un cittadino, richiesto se gli piacesse la domenica senza automobili, rispose: “piacissimo!”.

Conclusioni

Esiste un interesse estraneo affinché i Veneti siano laboriosi (in modo da pagare tante tasse), stupidi (in modo che altri facciano ciò che vogliono), rinunciatari (in maniera che altri abbiano radio, televisione, giornali, scuole), rassegnati quando la fabbrica chiude (in modo da emigrare senza creare problemi alla gerarchia importata).

Esiste un interesse dei Veneti affinché:
- la lingua materna dei veneti e di ogni altro popolo rimanga lo specchio dell’uomo e il veicolo verbale di ogni gente;
- non si verifichino l’alienazione di se stessi, il naufragio del singolare e il sacrificio dell’identità primigenia;
- i titolari della parlata veneta e di altri linguaggi non diventino tributari del neoimperialismo linguistico, cui corrisponde la crisi del rigetto psichico;
- venga rispettato da tutti il diritto alla parlata locale come momento espressivo prioritario;
- non intervenga la servitù culturale, che non sarà mai origine di miglioramento;
- il linguaggio pubblico non separi dal mondo dei sentimenti, dalla legge del cuore e dalla saggezza della coscienza;
- il monolinguismo alienante non turbi le leggi biologiche ed i limiti ecologici.
Abbandonare la propria lingua materna non significa sbagliare un calcolo, ma deviare la destinazione della vita.

Osservazione finale

Gli avversari della lingua e dell’identità venete conoscono perfettamente la teoria della penetrazione indolore. Essi sanno anche che cosa significherebbe il risveglio di un popolo di oltre cinque milioni di individui e procedono, perciò, con estrema cautela, fermandosi in caso di resistenza.
La narcosi fa parte della tattica ed è condizione indispensabile durante questa operazione di amputazione, cui il popolo veneto è sottoposto. La narcosi è il nemico da battere, altrimenti si verificherà una perdita ancora maggiore di quella sofferta dal popolo veneto, quando la sua parte migliore fu mandata a morire sul fronte russo.

(Quaderni Veneti, n. 1, 1991 – a cura del centro studi Agostino Bertoldo, Verona)



I C O N C E T T I D I M A S C H I L I T A’ E F E M M I N I L I T A’ N E L L A L I N G U A T E D E S C A

“Li creò maschio e femmina”
(Genesi, 1:27)

Il solo vocabolo “Mann” copre gran parte della casistica riferita all’ uomo, benché siano presenti nella lingua tedesca le separate espressioni “der Kerl = l’ uomo”, “der Junge = il giovinetto”, “der Knabe = il ragazzo”, “der Jüngling = il giovinetto”. Si tratta di vocaboli maschili e soltanto l’introduzione del neutro “das Jünglein”, per esprimere l’ultimo significato di cui sopra, sembra costituire eccezione, ma il motivo grammaticale e non naturale.
Diverso è il caso dei vocaboli che si riferiscono alla donna. La parola “Frau” è femminile, ma “Weib” è neutro, come “Fräulein” (1) e “Mädchen”, ma per quest’ ultimi due termini vale la sopra citata motivazione grammaticale. “Frau” e “Weib” si contendono, dunque, l’espressione del concetto femminile nella lingua tedesca da due posizioni. Il secondo vocabolo può significare “nascondere”, “velo”, “veste nuziale”, “la sposa velata”.
La terminologia privilegiata da Martin Luther nella traduzione dell’Antico Testamento è rappresentata da “Weib”, mentre raramente ricorre “Frau”, vocabolo che nel Nuovo Testamento è addirittura assente, anche quando Gesù si rivolge con tenerezza a Maria, come nell’ episodio delle nozze di Cana, o come, nei momenti drammatici della crocifissione, sempre rivolto alla madre, le addita Giovanni come figlio.
Certo, Martin Luther ha usato anche la parola “Männin” per “donna”: la derivazione da “Mann” = uomo” ricalca esattamente l’espressione ebraica “ischa”, che pure significa donna, in quanto “isch” significa uomo. In realtà Martin Luther ha insistito nel proposito di distinguere la donna dalla femmina dei generi animali, usando il bel vocabolo “frewlin” (come nella scena, ormai densa di nubi minacciose, quando Dio annuncia al patriarca Noè l’imminente diluvio), devolvendo “Weib”, specialmente al diminutivo “Weibchen”, al retaggio del mondo animale. – “Frau” conserva indiscutibilmente il significato di “moglie, signora, padrona, donna di rango”, anche nella traduzione di Martin Luther, ma il vocabolo ricorre raramente, come è stato accennato (2).
Si può ragionevolmente ritenere che nel XVI secolo la parola “Weib” fosse più frequentemente usata in riferimento alla donna, ma che successivamente siano intervenute rilevanti modificazioni per quanto riguarda il significato.
Attualmente non si può sostenere che “Weib” sia sinonimo di “Frau”. Intanto, al contrario di quanto avveniva nel XVI secolo, la prima parola è ora usata raramente ed assume connotazioni peggiorative, paragonabili alle forzature italiane “pescivendola” o “lavandaia”, pure non sempre giustificabili in riferimento alle corrispondenti professioni.
La riesumazione del vocabolo “Weib” non è assente nella moderna letteratura tedesca. Basti pensare a Friedrich Nietzsche, che anche stilisticamente deve essere considerato un maestro della lingua tedesca. E’ però subito doveroso aggiungere che gli accostamenti all’ altro significato ormai rappresentato da “Frau” in maniera consolidata, sono tali e tanti da supporre un’ intercambiabilità dei due termini. Si potrebbe tutt’ al più rilevare che Nietzsche usa di preferenza “Weib” al singolare e “Frau” (dunque “Frauen”) al plurale (3). In altra occasione, tuttavia, l’ autore ha usato ben 32 volte “Weib”, oppure il diminutivo “Weibchen”, e solo 2 volte “Frauen”, il che è pure significativo (4).
Le implicazioni del termine “der Mann = l’ uomo” o delle altre parole connesse con lo stesso, ma differenziate specialmente in base all’età, sono relativamente poco numerose. Al contrario i termini “Weib” e “Frau” hanno sviluppato una quantità di parole nella lingua tedesca, che determinano altrettante situazioni non riscontrabili nel lessico di altre parlate. Abbiamo così il significativo “Backfisch” per la ragazzina (attualmente sommerso dall’ anglismo “Teenager”, che tuttavia non rende tutte le peculiarità indicate dall’ espressione tedesca), “Fräulein” per donna adulta nubile, “Braut” e “Verlobte” per la promessa sposa. “Frau, Gemahlin, Ehefrau, Ehegattin” per la moglie, e così via fino ad “Hausfrau” per la casalinga, mentre “Dame” e “Witwe” assumono unicamente collocazioni sociologiche ed anagrafiche, se si prescinde da pochi esempi, peraltro non trascurabili (5).
Si può dedurre che il termine “Weib” ha ceduto il passo alla parola “Frau” in conseguenza delle inevitabili trasformazioni che interessano lo sviluppo storico e culturale, che nei secoli ha influenzato tutte le lingue e, per quanto qui ci riguarda, la lingua e la società tedesca. Resiste con “Weib” il significato di rappresentante del sesso femminile, ma il contenuto non configura né un’ identità femminile umana, né un fenomeno fisico. Specularmene la delimitazione si trasferisce, ovviamente, nei rispettivi attributi “weiblich” e “fraulich”, conferendo loro caratteristiche meramente femminili, considerando, nel secondo caso, la donna quale valore base della famiglia e, quindi, della società.


(1) Il femminile di “Fräulein” non è completamente assente nell’ uso locale e nel linguaggio infantile è riferito alla maestra.
(2) (Salomone) ebbe settecento mogli, principesse…e le sue mogli piegarono gradualmente il suo cuore (I Re, 11,3).
(3) – Ich habe eine höhere und tiefere Auffassung des Weibes .
_ Man kann nicht hoch genug von den Frauen denken.
_ Wenig versteht sich das Weib auf Ehre.
_ In Sachen der Ehre sind die Frauen schwerfällig.
_ Du gehst zum Weibe? Vergiss die Peitsche nicht!
(4) Also sprach Zarathustra: Von alten und jungen Weiblein = Delle donnicciole vecchie e di quelle giovani-
- A. KrönerVerlag. Stoccarda 1953, pag. 60.
(4) Theodor Fontane: „Sie war überhaupt keine Frau: im güunstigsten Fall war sie eine Dame = Non era per niente
Una donna: nella più favorevole delle ipotesi era una signora (!).

(Le lingue del mondo, Valmartina Editore, gennaio – febbraio 1990.)



L’ORIGINALITA’ GRAMMATICALE DELLA PARLATA VENETA


Esistono diverse teorizzazioni circa l’ortografia della parlata veneta, ma nessuna sembra possedere quella solidità che la faccia emergere come norma certa ed indiscutibile.
Questa carenza non significa discontinuità nella koinè veneta, rappresentando essa soltanto una discontinuità nel tessuto linguistico, che è comune ad altre lingue maggioritarie o statali. In italiano, per esempio, ricorre talvolta più di una versione ortografica (camicia = pl. camicie o camice; provincia = provincie o province; figliolo o figliuolo) senza che ciò ne sminuisca la solidità ortografica.Per il linguaggio veneto si notano le presenze della “c”, della “zh”, delle “dh” e “th”, della “ô” e della “j”, ma l’esemplificazione risulta per difetto. Inoltre sono assenti la “q”, la “gl”, la “z” e, particolare notevole, le consonanti doppie.
Caratteristiche ancora più rilevanti si notano nel settore grammaticale vero e proprio. Emerge qui l’assenza del passato remoto. L’argomento meriterebbe un maggiore approfondimento anche alla luce della sociolinguistica, poiché il fenomeno si riscontra pure in altre lingue non neolatine. Lo studio delle costanti presenti nei vari linguaggi potrebbe far emergere una condizione storica, una mentalità comune, un modo di vedere la realtà forse condizionato dagli stessi eventi. Ma l’argomento potrà essere scandagliato in altra occasione, non dimenticando, ovviamente, eventuali motivazioni derivati da un precedente substrato linguistico, responsabili, forse, della mancanza della “m” davanti a “b” e “p”. Esiste, invece, un’allocuzione abbastanza originale per indicare il futuro, che pure esiste come verbo nella parlata veneta. Potrebbe essere definito come un tempo futuribile e si esprime con “sòn drìo…= sto facendo…”. Non è detto che la forma ricalchi quella tedesca, ma nella Germania meridionale è ancora in uso una specie di quarto ausiliare, cioè il verbo “tun” più l’infinito per esprimere una situazione linguistica del genere. E questo verbo significa appunto “fare”.
Molto frequente è poi il doppio dativo. Un esempio lo indica più chiaramente: “A mi me piàse = mi piace”. Lo stesso si può dire per il dativo al posto del nominativo: “Mì vàe = vado”. Il soggetto è dunque ben presente che in italiano e ridotti sono pertanto i casi del sottinteso: “Él me à dît = mi ha detto”.
Il verbo modale o servile “dovere” è reso nella parlata veneta con il verbo “avere” seguito dalla preposizione “da”: “Mì ò da ‘ndàr = devo andare; mì ò da vèder = debbo vedere”. Questa forma è obbligatoria anche nella proposizione interrogativa, ma stavolta il soggetto, oltre che obbligatorio, è proposto come nella regola tedesca dell’inversione: “Ó-jo da savèr ?= devo sapere?; vò-tu ‘ndàr? = vuoi andare?”.
A qualcuno queste differenze rispetto ad altri linguaggi contigui a quello veneto potranno sembrare anche modeste. Lo stesso si potrebbe affermare pre le differenze tra lo spagnolo ed il portoghese, ma non per questo le due lingue neolatine perdono la propria peculiare identità. Ad aumentare il numero dei “rari nantes in gurgite vasto” a vantaggio della parlata veneta, si possono comunque considerare le seguenti integrazioni.
Un’aggiunta vocalico-consonantica è presente nella preposizione articolata “nel”, la quale evidenzia anche un “te” sia al maschile e femminile, sia al plurale dei complementi di stato al maschile e femminile, sia al plurale dei complementi di stato e moto a luogo, come dimostrano i seguenti esempi: “in tèl cànp = nel campo; in te-a càneva = nella cantina; in te-e famèje = nelle famiglie”.
Le tre coniugazioni venete hanno desinenze prive di vocale nell’infinito presente. La caratteristica è presente in alcune lingue neolatine, ma non nell’italiano, per cui si potrebbe ipotizzare un influsso provenzale esercitato verso il 1300 dai molti Trovatori che nella nostra terra hanno trovato ospitalità. La presenza e l’importanza di questi poeti provenzali è testimoniata da ampia documentazione, ma soprattutto dal frammento di Vangelo apocrifo pervenuto tramite la Scuola dei Battuti di Conegliano e dal grande libro del Graal esistente presso la biblioteca arcivescovile di Udine.
Nella parlata veneta sono sconosciuti gli articoli “lo” ed “uno” davanti a vocaboli inizianti con “z” o “s” impura.Ma attira l’attenzione il rafforzamento di taluni verbi riflessivi mediante la preposizione “in” con valenza di moto a luogo figurato: “insognàrse, indormentàrse = sognarsi, addormentarsi”.
I participi passati sono pure degni di nota.Nella parlata veneta questo tempo della prima coniugazione ha la desinenza in “a” accentata: “’ndà, magnà, lavà, sburtà = andato, mangiato, portato, lavato, spinto”. La desinenza cambia invece in “st” nella seconda coniugazione: “podèst, vìst, bevèst = potuto, visto, bevuto”. Nella terza coniugazione la desinenza torna ad essere accentata, ma si tratta di una “i”, eventualmente seguita da una “t”: servì, dît, forbì = servito, detto, lustrato”. Nel passato prossimo il soggetto, anche se preceduto da aggettivo possessivo, viene ripetuto conservando la distinzione dei generi, come per accentuare l’appartenenza dell’azione al soggetto stesso: “lu l’è ‘ndà = è andato; èa la à catà = essa ha trovato; el nòstro portèl l’è serà = il nostro cancello è chiuso”. Ugualmente degna di nota è la ripetizione del complemento oggetto nell’indicativo presente, quasi a voler accentuare la consistenza dell’accusativo eventualmente con valenza di pssessivo: “Mì el scòlte el fiòl = ascolto il figlio; mì el scòlte el me fiòl =ascolto mio figlio”.
Le affinità obiettivamente riscontrabili tra il linguaggio veneto e altre realtà linguistiche neolatine non debbono necessariamente dimostrare una derivazione subalterna da quest’ultime. Si tratta tutt’al più di una morfologia ereditata da substrati precedenti. A quest’ultimo proposito è il caso di ricordare che che ogni probabilità anche la lingua venetica disponeva di un’unica forma di preferito, che evidenziava la desinenza in –r. Si può ragionevolmente pensare che già allora non esistesse il passato remoto Infatti anche l’aoristo stigmatico con la desinenza –to non alluderebbe ad una biforcazione tra imperfetto e passato remoto. Per aoristo s’intende un tempo passato “indeterminato” presente soprattutto nella coniugazione dei verbi greci.Le affinità tra lingua veneta e altre lingue neolatine sono, invece, la conseguenza di un processo che nei secoli fu obbligatoriamente seguito da ogni lingua per appropriarsi dei termini di cultura moderni. Tali termini risultano indispensabili per poter esprimere un discorso moderno, mantenendone sia la forma linguistica originaria, sia la pronuncia secondo i valori che le lettere hanno nella fonetica di quest’ultima.
Un paragone col corpo umano sembra pertinente. Il nostro organismo, nutrendosi di cellule vegetali e animali, produce nuove cellule umane. Nessuna allergia respinge questo processo avanzando il pretesto che gli alimenti sono composti di cellule estranee all’essere umano. Anche le lingue debbono nutrirsi di cellule provenienti da altre lingue, non importa se dominanti o morte, pur di ottenere i termini di cultura che man mano maturano.
Il prestito linguistico può essere sincronico o diacronico. Nel primo caso si ha un prestito verticale (ossia dalle lingue dominanti), oppure orizzontale (ossia dalla lingue moderne vicine). Nel secondo caso il prestito deriva dalle lingue morte. E’ il caso di ricordare che tali lingue sono il greco e il latino e che tutte le lingue moderne ne sono tributarie per termini di cultura in esse transitati.
Il “metabolismo linguistico” contrasta con le teorie di quanti propongono la purezza delle lingue. Se questi avessero ragione, una lingua sarebbe un ostacolo contro lo sviluppo mentale del popolo che la parla, il che è assurdo. Anche se i puristi si presentano come i conservatori della lingua, in realtà essi sono i responsabili deol suo indebolimento. Una lingua deve infatti proseguire, altrimenti i parlanti si troverebbero in una condizione di incomunicabilità, cioè d’impossibilità di leggere il mondo circostante che la lingua dovrebbe per definizione saper rappresentare ed interpretare.
Un altro sguardo alle originalità grammaticali della parlata veneta ci convince che, anche se vi transitano termini di cultura moderni, l’individualità linguistica è tutt’altro che compromessa.
Il linguaggio veneto evita in genere le parole composte, numerosissime invece nelle lingue neolatine e ancor di più in quelle germaniche. Si considerino come esempio i giorni della settimana, nei quali il sostantivo generalmente è preceduto dal complemento. In Veneto questo sostantivo è assente, tanto è vero che ben cinque dei suddetti giorni sono resi con “lùni, màrti, mèrcore, zhiòba, vènere”. Questo è un segno che l’influenza di altri linguaggi rispetto all’indicazione del tempo è uno degli strumenti indispensabili per dimensionare l’esistenza.
Degna di nota è anche la scarsa differenziazione, in certi casi, tra i generi espressi da forme pronominali, quasi a sottolineare l’importanza dell’individuo in sé, senza distinguerlo tra femminile e maschile. Questa peculiarità ricorre spesso nel dativo, per esempio: “Mì ghe dàe = gli do, le do, do loro”.

Non si è preteso in questo articolo di passare in rassegna tutte le originalità grammaticali della parlata veneta, ma di aver dato dei lineamenti che possono costituire motivo di curiosità o di studio più approfondito.

N.B.- Per le esemplificazioni è stato scelto il linguaggio della zona settentrionale della Marca Trevigiana ai confini con il Friuli, cioè la parlata del territorio di Mansuè – Oderzo, in modo da non escludere gli influssi ladineggianti, che da secolo sono patrimonio della parlata veneta. La punteggiatura, ancorché corrispondente ad accenti tonici, viene inoltre sempre evidenziata nelle esemplificazioni per una maggiore rispondenza fonetica.-

(Quaderni Veneti, n. 2, 1992 - a cura del centro studi Agostino Bertoldo, Verona)



LA PARLATA DI GOTTSCHEE

E’ convinzione comune, in tutte le isole germanofone situate oltre il confine linguistico tedesco, che le loro radici siano molto remote nel tempo e nello spazio. Così però non è, perché le origini sono la conseguenza di una migrazione dal Tirolo e dalla Carinzia. Più precisamente i coloni giunsero in Carniola, Friuli e Veneto dalle zone dell’alta Pusteria, del Goriziano e dell’Ortenburghese. Si trattò di una migrazione interna nell’ambito del Patriarcato di Aquileia, che si estendeva fino alla Drava, cioè fino ai limiti dell’Arcivescovado di Salisburgo. Il patriarca Bertoldo di Andechs, fratello del duca Ottone VII di Merano e della regina Gertrude d’Ungheria, madre di Santa Elisabetta, fu uno dei più assidui promotori di questi insediamenti. Si ritiene che l’iniziativa gli sia stata suggerita nel 1219 da suo fratello, il vescovo Ecchart di Bamberg. La parentela linguistica degli alloglotti di Pladen/Sappada, Zahre/Sauris, Tischelwang/Timau, Zarz/Sorica e Rut indica una comune origine.
Anche per Gottschee/Kočevje fu così, solo che la sua comparsa è collocabile all’inizio del XIV secolo. Come accadde ad altre popolazioni tedesche, stabili da secoli al di là dei confini linguistici, , anche gli abitanti di Gottschee dovettero lasciare la loro terra dopo seicento anni di ininterrotta, pacifica convivenza con la popolazione slovena. Oggi la numerosa comunità di Gottschee è sparsa specialmente in Germania, Austria e Stati Uniti. La sua parlata è diventata la lingua ufficiale dei periodici raduni o dei solitari mormorii casalinghi.
A seconda dell’originaria provenienza alcuni gruppi di Gottschee conservano particolarità linguistiche che si distinguono da altre componenti della stessa comunità. L’eredità pusterese si riconosce per esempio nelle seguenti espressioni:
- Nomal = crusca(medio alto tedesco ome). Mentre in Punteria si dice numal, a Sappada e Sauris noumal, nella parlata di Gottschee resistono ancora umail, numäl, umöl.
- Pacht = spazzatura (medio alto tedesco bâth). Nella Punteria orientale è usato il termine pocht e per Gotteschee puucht.
- Schirbe = tegame (antico alto tedesco scribi). A Sappada, a Sauris e in Punteria è mantenuta la versione širbe e similmente per Gotteschee šierba.
- Amma = balia (tedesco moderno Amme) diventa nella parlata di Gottschee ammain, ammo, ammaiš.
Interessante è il vocabolo zümittn = solstizio (tedesco moderno Sonnenwende), non tanto perché in Carinzia gli corrisponde il termine sunnewentn, ma perché da questo concetto deriva il nome della lucciola (Lampyris noctiluca), che è chiamata žümmitkhaaverle , cioè “coleottero del solstizio”.
La trasformazione della vocale “e” in “a” è frequente e denota uno stretto legame con le realtà linguistiche austro-bavaresi.
- Paar = orso (tedesco moderno Bär).
- Wakh = via (tedesco moderno Weg). Anche nell’idioma di Gottschee è inoltre presente la trasformazione in “oe” del suono lungo della vocale “a”, come ricorre sovente nel Tirolo orientale:poed per Bad = bagno, ploesn per blasen = soffiare, hoesn per Hasen = conigli e gloes per Glas = vetro. Si tratta di uno sdoppiamento vocalico di fronte a consonanti dentali, caratteristica del medio alto tedesco. Le strofe di un inno locale potranno meglio definire i tratti della parlata di Gottschee:

Testo originale Tedesco moderno Italiano

Dü hoscht lei oan Attein, oan Am- Du hast nur eoinen Vater, Hai solo un padre e una madre,
mein darzue. Eine Mutter dazu. Hai una patria sola,
ragazzo di Gottschee
Dü hoscht lei oan Hoimot, gött- Du hast nur eine Heimat, La gente di Gotteschee
Scheebarscher Pue. gottscheerischer Bub. ha lo stesso sangue:
De gotscheearbarschn Leite hent Die gottscheerischen Leute tutti sono come fratelli
Olle oan Plüet. Haben alle ein Blut, e tutti sono uguali.
Sheint olle bie Priedre, sie sind alla wie Brüder, Dio padre che sei in cielo,
sheint olle sho güet. Sind alle so gut. Ti preghiamo tanto,
Gott Vüeter im Himmel, Gott Vater im Himmel, permetti che la nostra
bier patn Di schean. Wir bitten Dich schön, terra resista nel
Sho liess ins insher Hoimot So lass uns unsere Heimat nostro cuore.
In Harzen petschetean. In Herzen bestehen.



(Etnie – Milano -, anno VI, 1985, n. 9)



IL VINO NELLE ISCRIZIONI VENETICHE

Venticinque secoli fa era già attuale l'invito a moderare l'assunzione di bevande alcoliche.Secondo recenti intuizioni è stato possibile tradurre 116 delle oltre 200 iscrizioni venetiche disponibili. Dieci riguardano il vino e il suo uso. Le traduzioni sarebbero apprezzabili informazioni ai visitatori dei musei se apposte accanto ai rispettivi reperti.Sul manico di un recipente per vino (Ca 5), rinvenuto in Cadore, si legge: "Avendo sorseggiato fin qui riattingi ancora del vino trimoscato".E' un chiaro invito a un bis. Ciò che sorprende è la denominazione del vino in questione, che sarà stato certamente sontuoso, e tutto lascia supporre che già allora esistessero diversi tipi di vite.Sempre in Cadore è stato trovato un secchiello (Ca 4) con la raccomandazione: "Ehi, quando ingurgiti sino qui, colpisci i cavalli". Stravolta è un avvertimento, affinchè il guidatore sia sobrio. Dala stessa zona proviene un'altra interessante scritta: "Rallegrandoti riattingi sino qui della limpida bevanda" La particolarità consiste nell'uso dell'attributo "sajnatej" che era solitamente riservato alla divinità. ed equivale qui ad una istigazione estetica. L'accostamento del vino alla massima ispirazione è evidente. A Canevoi di Cadola (Belluno) era affiorato un secchiello che ora non si trova più, ma del quale esiste uno schizzo (B 1) nel quale si legge:"E ora ubriaco a fianco di questo...secchio, abbi paura anche dei bimbi accanto, scarrozzando intorno". Vengono quindi identificate le possibili vittime dell' intemperanza.Nel 1911 fu scoperto in Slovenia un orcio (Ta 1) con due sole parole:"Rimani giovane". Si trattava delle presunte proprietà del vino locale di mantenere a lungo la gioventù. Ma che tipo di vino poteva mai essere? Forse il noto "vinum pucinum" che Livia, moglie dell'Imperatore Augusto, si faceva arrivare da Duino, che non è lontana dal luogo del rinvenimento? A Padova è conservata una piccola brocca (Pa 15) con la frase:"Chiunque entri, vstargli accanto Dio". In altre parole "Dio con voi". L'augurio sembra un'ottima pubblicità sia per il vino servito in quel recipiente, sia per la locanda di riferimento, l'osteria della speranza.Sempre a Padova si legge su un vaso (Pa 16):"In questa borraccia ci sono cento discordie". E' una chiara allusione alla rissosità di quanto esagerano nel bere. A questa iscrizione fa eco un altro avvertimento desunto da una tavoletta (Es 23) conservata ad Este:"Sebbene il duca sia potente, quando si ubriaca è un villano".- Su una ciotola di bronzo risalente al IV secolo a.C. (Es 120) si legge: "Ingordamente inghiottita, affrettandosi sulla strada sino aa noi dopo essere disceso dai monti". Il reperto, proveniente dalla zona dei Colli Euganei, è ancora oggetto di studi, ma è evidente che si tratta di un saluto al viaggiatore e di un invito a ristorarsi dopo aver superato l'asperità delle alture.Un boccale di ceramica infine (*Es 135), tovato ad Arquà Petrarca e ancora in fase di studio (come evidenzia l'asterisco nella sigla), riporta la scritta: "Dono del suolo, quanto volentieri (lo bevo)". In realtà l'iscrizione potrebbe anche significare "Dono del suolo, birra, questa mi piace (bere)".- L'espressione, oltre che elittica (cioè priva di qualche elemento grammaticale), è anche un anagramma e conserva lo stesso significato sia nella lettura da destra a sinistra che viceversa. In quest'ottica ci sarebbe un termine che significa "birra", ma il dono del suolo rimarrebbe soprattutto il vino.A questo punto l'unica sintesi possibile sembra quella formalizzata in un Salmo Responsoriale recitato a Valdobbiadene durante una cerimonia religiosa voluta dalla Confraternita del Prosecco nel 1986: Signore, che vita è mai quella di chi non ha vino?-

L I N G U E M I N O R I : P A R O L E S O M M E R S E

“Se i vecchi morti ci comparissero in sogno,
parlerebbero in dialetto e molti di noi
non potrebbero capirli”.

La campagna ha fatto la città. Non viceversa.
In un secondo momento gli abitanti della città hanno stabilito un distacco dal contesto base per ragioni professionali, economiche, culturali. Da tale separazione sono derivati non di rado confronti derisori e dispregiativi.

Il termine “patois” fu introdotto nel 13° secolo dagli abitanti della città per definire la particolare parlata del contado. Il linguista francese Dauzat spiega che il vocabolo deriva da “pattes”, cioè “piedi” (Nouveau Dictionaire etymologique). Sarebbe come dire che gli abitanti dei villaggi parlano con i piedi.
L’invettiva medievale contro le lingue locali non è rimasta limitata al rapporto città-campagna. Essa diventò strumento di politica coloniale intesa all’assimilazione. Sarebbe quindi un dovere della moderna presa di coscienza rammentare che molte lingue furono un tempo semplici “patois”: l’italiano e il francese erano, per esempio, i dialetti di Firenze e di Parigi.- Il rifiuto dell’uso dispregiativo dovrebbe quindi essere doveroso. Tutti gli uomini favellano infatti con la bocca e con il cuore. Nessuno parla con i piedi!- La parlata locale evidenzia inoltre una profondità raggiungibile dai pianisti in musica mediante il pedale.
Si nota, inoltre, che quanto avviene localmente contro le parlate di un determinato luogo, riguarda su scala continentale anche altre importantissime lingue di cultura non certo minori. Il monopolio letterario contagia e comprime in realtà le dimensioni e le forme da emarginare, spingendole verso l’esilio e l’espulsione dalle scuole con una prassi tale, da far sospettare una programmazione di potere e non di cultura o umanesimo.

La funzione di una lingua è determinante per la rivitalizzazione di ogni popolo. Risveglio culturale significa in realtà anche sviluppo economico e sociale. Chi avrebbe interesse ad insistere nell’arretratezza?- La lingua non è tuttavia soltanto una funzione. Essa costituisce un vero e proprio organo del corpo umano e, come tale, è soggetta a malattia. Le parole sono il sangue della lingua. Qualche frase ha cattivo sangue nelle vene: ciò porta al collasso della circolazione dei vocaboli: segue poi la febbre delle sillabe aggravata dal tumore delle lettere alfabetiche. Infine interviene la morte del linguaggio.

Se il declino di una lingua significa anche declino sociale, come J.L. Calvet sostiene nella sua opera “Linguistica e Colonialismo” (pag. 53), è certo e logico che il risveglio politico e sociale di un popolo possa verificarsi soltanto tramite la riconquista e la rivalutazione della propria lingua. La rinuncia è deleteria. Spesso vengono infatti emanate norme placebo in difesa degli idiomi locali, contando proprio più sul recesso dei parlanti che sull’intenzione di non applicare i provvedimenti divulgati. Si spera che anche la Legge di “Tutela, valorizzazione e promozione del patrimonio linguistico e culturale veneto” (Cons. Reg.le del Veneto, 28.03.07 n. 3901) non sia tra queste misure. In ogni caso l’unica difesa infallibile che può preservare una lingua minacciata, è la difesa immunitaria, cioè la sfiducia nei confronti di artifizi come il bilinguismo, che si traducono poi in un monolinguismo totalizzante.- “I politici che promettono uguaglianza sono esaltati o ciarlatani”, mise in guardia Goethe.-Valga l’indicazione di S. Stefano d’Ungheria, il quale sostenne nei suoi “Monita” che “Unius linguae uniusque moris regnum fragile est = È ben fragile uno stato che si fonda su una sola lingua e su un solo costume”.

Il concreto uso della propria lingua non deve significare imbalsamazione. L’uomo si nutre quotidianamente di carne e di vegetali. Egli non rifiuta perciò le nuove cellule derivanti da altri esseri. Lo stesso vale per quanti si pongono quale obiettivo la sopravvivenza della propria lingua nel proprio Paese. Come il corpo umano trasforma le cellule estranee in propri tessuti, il metabolismo linguistico può rinforzare ogni pensiero e ogni comunità. Modernità non significa indebolimento.
Si può affermare che un popolo non si libererà mai da un giogo coloniale, rinunciando alla propria espressione per assumere quella dei colonizzatori.
La difesa e la rigenerazione della parlata locale significano al contrario sia una lotta per l’identità culturale, sia una difesa contro la lingua dominante. La madrelingua è infatti l’antica lingua delle fiabe che esprime il sentimento delle cose. Il “Gatto con gli stivali” non può, per esempio, fuggire obiettivamente dalla sua favola per entrare in quella di “Biancaneve”!

Coloro che abdicano al loro linguaggio sperano invano, e ingenuamente, di diventare un’altra, più importante persona se adottano stabilmente la lingua del potere, del verme solitario della burocrazia, del contesto.- Ancora una volta Goethe indica il pericolo nel Faust (577 – 579):”Ciò che voi chiamate spirito del tempo è in realtà lo spirito dei dominatori”.- Chiaramente essi non raggiungeranno mai un’altra identità ritenuta di serie “A”. Essi potranno tutt’al più amputare ulteriormente la propria personalità avuta dalla natura con il risultato che non saranno infine più nessuno!

La famosa “Scala Santa”, che si trova a Roma, insegna che è certamente possibile salire sulle ginocchia, e con qualche sforzo, gli scalini. Le difficoltà si presentano poi quando si volesse scendere sempre sulle ginocchia.
(IL PIAVE, mensile. Giugno 2008)

E S P R E S S I O N E E C O L O N I A L I S M O

Le unificazioni nazionali del 1800 hanno trasformato parecchi Stati in regioni. Si pensi alla Germania. Esistevano parecchi Principati, Regni e Città Anseatiche, che ora sono diventati Länder seppure in un efficace assetto federale. La Baviera ha conservato la denominazione di “Libero Stato”. Le Città Anseatiche conservano in parte solo un accenno della loro autonomia nelle targhe automobilistiche.

In Italia i vari Regni e Granducati preunitari furono fusi nello Stato sabaudo con “criteri più conformi all’interesse immediato monarchico che all’esigenza democratica”, come sostenne L. Salvatorelli nel 1945. Le loro grandi Capitali sono diventate Prefetture. Secondo il dizionario la Prefettura era una semplice provincia dell’Impero romano oppure una circoscrizione ai tempi di Costantino.
Le unificazioni tedesca e italiana sono realtà differenti. La prima consente ampio margine socio-culturale e amministrativo alle comunità locali. La seconda evidenzia un centripetismo accentuato. Una affinità si riscontra tuttavia, purtroppo di segno negativo, nelle rispettive strutture verbali. Sia il tedesco che il veneto non hanno il passato remoto dei verbi. Occorre precisare subito che l’unificazione nazionale qui non c’entra affatto, perché le cause vanno cercate molto lontano.

Le terre dei Veneti e la Germania rientrarono nel programma di conquista romano. Il nuovo regime, come tutti i colonialismi, mirava allo sfruttamento dei territori occupati. Un proverbio dice infatti che il potere perde il lupo ma non il vizio, o qualcosa del genere. Il bottino era costituito da beni materiali e soprattutto da schiavi.
La mentalità capitolina che auspicava sempre nuove conquiste, è facile da intuire. Una autorevole formulazione giunge da Virgilio, incensiere dell’Impero. Nell’Eneide si legge:”Tu regere imperio, Romane, memento/ (haec tibi erunt artes) pacique imponere morem/ parcere subiectis et debellare superbos = La missione di Roma è quella di debellare le genti, di risparmiare i sottomessi, di debellare chi si ribella”. Tra i superbi c’erano naturalmente i popoli chiamati “barbari”, verso i quali c’era uno spiccato complesso di superiorità soprattutto intellettuale. Una superiorità non giustificata secondo Alano di Lilla (fine XII sec.), il quale assicurava:”La latinità è povera = Quia latinitas penuriosa est”.

Quale passato potevano mai avere i popoli che rientravano in quest’ottica? Nessun passato sebbene, o meglio, proprio perché la memoria è parte integrante della cultura.! Le radici profonde, quelle che secondo Tolkien non gelano, dovevano sparire dallo scenario spirituale dei colonizzati. Anche i Maia usavano, per la verità, mozzare le mani agli storici nemici affinché rimanessero sconosciute le origini dei loro popoli.- La lingua è il più sensibile sismografo degli eventi umani e nelle parlate veneta e germanica è sparito il passato remoto. I semplici imperfetto e passato prossimo, più contigui alla quotidianità, sopravvissero invece. Quando manca l’intera libertà di parola, vuol dire che manca la dignità umana, ha affermato il Premio Nobel Orhan Pamuk.
Si potrà osservare che dall’esortazione virgiliana (allora certamente commissionata dall’Impero) è ormai passato molto tempo. È vero, ma la riaffermazione di certi principi nel tempo non ha giovato per una eventuale rinascita linguistica. Ancora in data 2 marzo 1934 fu indetta a Roma una riunione governativa per “potenziare sempre più la coscienza imperiale della Nazione”. Un comportamento che sembra stregare, anche oggi, la politica italiana, per usare le parole di P.L. Battista riportate dal Corriere della Sera del 29 settembre 2007.
Anche da allora molte cose dovrebbero essere cambiate. Ma come commentare la trasmissione TV1 del 29 aprile 2005, in cui si sosteneva:”Ci sono molte zucchine sul mercato, ma siete sicuri che siano tutte italiane?”.- Sarà un caso, ma questo non è un indice di cambiamento di rotta. Si tratta se mai di insistenza. Due coincidenze fanno un indizio, scrisse Agata Christie.

L’assenza del participio passato potrebbe non essere l’unico danno provocato al linguaggio da lontani eventi colonialistici. Se ai sottoposti fu interdetto il ricordo del passato, la medesima cosa dovrebbe essere accaduta per il futuro. L’unico avvenire doveva essere quello dell’Impero e non quello di gente sottomessa. A quest’ultima, se mai, sarebbe stato concesso il colpevole piacere della soggezione e del silenzio che conserva la memoria delle parole. Ebbene, il tempo futuro non esiste in tedesco come singola forma verbale. Bisogna ricorrere a un verbo ausiliare che significa “divenire”. Si possono perciò immaginare le difficoltà sintattiche nella formazione delle proposizioni secondarie con verbi modali e forme passive, che necessitano dello stesso termine.
Nella parlata veneta esiste, per la verità, una larvata forma di futuro. Ma si tratta più che altro di un prestito strutturale. Più corretto sarebbe l’uso di un verbo che esprime un’azione in fase di compimento (mi sòn drìo de ‘ndàr = Sto muovendomi per andare).
Si potrà pensare che, forse, anche nel paleoveneto mancassero già i significati di passato remoto e futuro. In tal caso il colonialismo non avrebbe provocato alcun danno linguistico. Nel paleoveneto sono invece soventi i concetti di passato e di futuro, come recenti studi hanno dimostrato. È un argomento difficile, ma si può citare un esempio. Un celebre reperto paleoveneto conservato a Oderzo contiene i termini “podzros” e “huaios”, che significano “guarderai”e “sentirai”. In uno dei famosi elmi di Negovia si leggono inoltre le parole di non facile etimologia “hari” e vaijul”, che stanno per “battè” e “cacciò”. Futuro e passato remoto esistevano. Se ora non ci sono più, qualcosa deve pur essere accaduto.

La conclusione logica appare quindi che quando una parte del discorso cade in plurisecolare disuso, non è generalmente più recuperabile. La sommersione infatti affoga. Dal complesso di ragionamenti e deduzioni, che gli avvocati usano chiamare “castello indiziario”, questo sembra l’unico esito: anche il miglior radicchio diventa fieno se rimane ad appassire nel cesto.
(Il Piave, Conegliano Veneto, settembre 2008)



A T L A N T E D E L L A S T U P I D I T A’


“Se ci voltiamo indietro da dove ci hanno detto di andare, quello è il Nord”
(Compito in classe di uno scolaro veneto di IV^ elementare)


Nel “Cratilo” di Platone Ermogene è il personaggio che sostiene l’arbitrarietà del segno. C’è quindi differenza tra il significante e il significato. Ogni parola, ogni raffigurazione, ogni linguaggio non riesce ad esprime del tutto la realtà delle cose, dei concetti, dei ragionamenti, della rappresentazione del mondo.
Cratilo non concordava con Ermogene e riteneva che, alla fine, la parola, la formula, la frase, il sentimento, il segno pittorico e la capacità espressiva fossero in grado di dare una sufficiente dimensione alla realtà che ci circonda. I linguisti, da Ferdinand de Saussure in poi, ritennero che Ermogene non avesse torto del tutto e la sua tesi diventò la base della moderna linguistica. In effetti e per esempio, come nel termine “uovo” non si trova nulla di quella prodigiosa capsula che consente di viaggiare nel tempo, cioè di aspettare una stagione più propizia per l’esistenza, in molte circostanze il linguaggio appare limitato e il suo effetto rappresentativo risulta inadeguato, parziale perfino. La parola è certamente la combinazione del concetto con l’immagine acustica, ma in definitiva quest’ultima prevale poi sul concetto.
In un articolo della rivista Focus del giugno 2009 vengono rese note circa 80 parole usate nelle varie regioni per definire la condizione di stupidità delle rispettive popolazioni. Ci si accorge quindi che nell’Abruzzo, in Umbria e nelle Marche basta un solo termine. In Valle d’Aosta, Lazio, Calabria, Puglia e Molise sono necessarie 2 parole. In Campania e in Liguria ci sono rispettivamente 3 e 4 varianti. Anche il Trentino si ferma a 4. Per Toscana, Sardegna, Basilicata e Sicilia il numero arriva a 5. In Emilia-Romagna se ne contano 6. Le cose peggiorano in Lombardia e Friuli, dove il numero giunge a 7. Per il Piemonte si arriva a 8. Il record di parole per indicare la stupidità spetta però di gran lunga al Veneto: almeno12 (insonà, rindindòn, baùco, mòna, sèmo, guàgno, fòlpo, bìso,stornèl, insemenìo, zhùss, òc…)! Dal punto di vista della comunicazione e della linguistica sarebbe interessante poter calcolare il numero dei segni necessari per tradurre ed esprimere nel linguaggio dei sordomuti il vocabolo "stupido" a seconda delle diverse parlate locali, perché anche il linguaggio dei segni ha i propri dialetti.

Il vocabolo “stupido” significa in realtà “persona che ha ricevuto un colpo in testa, cioè mentalmente intorpidito”. Oppure “incapacità di reazione”. Sorprende il fatto che “stupido” e “stupore” abbiano la stessa radice “stu”.

Viene naturale chiedersi come mai esistano così tante parole per spiegare il torpore in un determinato gruppo sociale radicato in una data zona. Forse la tardità di mente appare in Veneto, o in molte zone della regione, più ampia e diversificata che altrove?- Già Goethe ebbe a scrivere nelle sue “Impressioni su Venezia” che “fu un puro caso che essi (i Veneziani) divenissero in seguito scaltri mentre tutto il mondo settentrionale era ancora nell’incoscienza”. In questo caso sarebbe giustificata una grande preoccupazione. Esiste forse un legame diretto tra parole e concetto, che la mente usa preferibilmente nel suo iter di comprensione del senso comune?- Anche tale circostanza meriterebbe la massima attenzione. La linguistica informa che la lingua è un codice grammaticale. Le sue caratteristiche sono socialità, passività, esteriorità, formalità. La parola, invece, è individuale, attiva, interna, sostanziale, variabile.

Il Veneto è una regione multietnica, anche se i diversi idiomi delle numerose componenti sono stati gradualmente e capillarmente omologati ad eccezione delle corde vocali. La sommersione linguistica è talmente vasta che, se i vecchi morti comparissero in sogno, parlerebbero in lingua locale ma la gioventù non sarebbe in grado di comprendere. Il Veneto è una terra di passaggio e di relazione che gradualmente s’inslavia e che non può essere confrontata con il destino di altre zone. Siffatta realtà non deve comunque essere intesa nel senso di “terra di nessuno”. Il concetto sarebbe riservato a luoghi dove la gente si sente male nella propria pelle e desidera traslocare nell'epidermide altrui. La conseguenza sarebbe che le persone non diventerebbero mai ciò che desiderano. Non sarebbero più nemmeno quelle che erano. in precedenza. Non sarebbero quindi più "nessuno"!-Siffatta eventualità non fu probabilmente del tutto estranea alle ragioni propedeutiche che ne determinarono l’annessione nel 1866 nei termini e con le modalità che si sanno. Nessuna meraviglia che altre realtà, Stati compresi, cambino colore della propria pelle in presenza di situazioni camaleontiche. In altre parole anche un Regno neonato potrebbe trasformarsi in uno Stato colonialista.Si tratta piuttosto un territorio che conobbe Celti, Franchi e Longobardi, ma che vanta antiche contiguità con l’Illiria. Per questo motivo è naturale che si guardi a Nord e a Nord-Est sviluppando una naturale vocazione internazionale, benché la scuola paracadutata nelle nostre aule si guardi bene dall’accennarlo. I lunghi secoli di storia con Venezia hanno determinato purtroppo un isolazionismo integrato da carenza alimentare, che ha impedito l’ulteriore sviluppo verso commerci, mercati e mentalità mitteleuropei non secondari benché privi di città eterne. Tutto girava intorno a uno spirito mercantile veneziano che poteva sembrare anche glorioso, ma che in realtà decaffeinava l’anima della gente. Se quei lunghi secoli non vengono ripresi, forse potrebbe corrispondere a verità quanto attribuito ai Veneti in fatto di stupidità o torpore mentale espresso con i 12 termini sopra citati.

Una cosa è certa. L’attuale remissività veneta può essere percepita come spirito di subalternità e di buona educazione coloniale, da perdonarsi finché non subentra la pigrizia che priverebbe le casse dello Stato di cospicue entrate. Se ciò fosse vero, sarebbe una condizione anche peggiore della stupidità statisticamente e, si spera, anche arbitrariamente attribuita o supposta da convinzioni esterne non prive di interessi egemonici. Ne deriverebbero sia un indebolimento del sistema immunitario sia una contagiosa neoplasia sociale.




L I N G U A E T O P O N O M A S T I C A

La lingua incominciò nell’Eden:”Ora Dio formava dalla terra ogni bestia selvaggia del campo e ogni creatura volatile dei cieli e le conduceva all’uomo per vedere come avrebbe chiamato ciascuna; e come l’uomo la chiamava –ciascun’anima vivente- questo era il suo nome” (Genesi 2,19).
Chiamare per nome le creature e l’ambiente è un compito assegnato da Dio e non è saggio stravolgerlo, se si vuole evitare di incorrere nella punizione di Babele.

La toponomastica originaria è l’anima di ogni paesaggio. Un toponimo cambiato sarebbe come voler leggere una lettera d’amore con un dizionario. I nomi di luogo sono il sangue della lingua. Qualche parola ha cattivo sangue nelle vene. Ciò porta inevitabilmente al collasso circolatorio dell’espressione, alla febbre delle sillabe, al tumore delle lettere alfabetiche e infine alla morte della lingua.
La visione del mondo è un dono divino, attraverso il quale si giunge al pensiero. Per questo motivo si assomigliano tanto i verbi “danken= ringraziare” e “denken=pensare” nella lingua tedesca. La lingua non è una semplice funzione, ma un vero organo, una parte del corpo.
Nel 1682 Pietro il Grande tentò di imporre il francese come lingua ufficiale in Russia. Fu un errore, un fallimento derivato da una incosciente ignoranza. Lo Zar avrebbe dovuto conoscere i “monita” di Santo Stefano d’Ungheria:”Unius libris uniusue moris regnum fragile ist = un regno con un’unica lingua e con un unico costume è caduco”.
I toponimi non comunicano soltanto. Essi ricordano sempre qualcosa. Essi consentono di vedere il mondo da un punto di vista differente. Chi comprende soltanto la lingua delle Oche del Campidoglio oppure si ostina a definire “invasioni barbariche” le migrazioni di popoli durante il primo medio Evo, non può comprendere né il mondo nè lo spirito del tempo.
La politica colonialistica disprezza in generale la toponomastica e la lingua delle regioni colonizzate classificandole come parole fossili. I suoi esponenti sanno bene che non si tratta di una lingua che unisce un Paese, ma di una lingua imposta per giustificare un Paese. Per tale motivo avviene che talune autorità nel loro complesso di superiorità giungano a contraddire perfino le loro stesse leggi. Si assiste purtroppo in talune circostanze anche a colonizzati che collaborano con gli intenti oppressivi. Taluni cambiano lingua nella illusoria convinzione di guarire una malattia assumendo un veleno. Questo processo non è tuttavia sempre irreversibile. Lo dimostrano per esempio l’Algeria,la Dalmazia, le Repubbliche Baltiche, l’Istria, ecc.

L’ ostilità contro la lingua e la toponomastica originarie non cessa nemmeno quando le mutate circostanze impongono una variazione di atteggiamenti. Essa insiste, come si può dedurre da minacciose frasi lasciate nel libro dei visitatori presso il museo di Kobarid/Caporetto (Slovenia), oppure come si percepisce da certi comportamenti specialmente in taluni uffici pubblici. Ogni antico toponimo deriva chiaramente dalla coscienza, dal significato o, meglio ancora, dall’emersione di qualcosa che esiste da sempre nella nostra interiorità con la sua assoluta fondatezza e che ci consente di essere persone complete. La traduzione di un nome di luogo tende piuttosto alla distruzione della memoria, che già è intaccata dal conformismo sociale.

Per denigrare le lingue locali e le rispettive tradizioni orali i sapientoni sostengono che nel paese colonizzato non si parla una lingua, bensì un semplice dialetto. Questi linguisti sprovveduti dovrebbero sapere che soltanto il 6% della popolazione italiana fuori dalla Toscana conosceva l’italiano nel 1860, come ricorda Tullio De Mauro. La lingua italiana era il dialetto di Firenze, come il francese era il dialetto di Parigi. Si potrebbe aggiungere che l’Italia fu consegnata a Vittorio Emanuele II a Teano in francese e non in italiano. Se ciò non fosse ancora sufficiente si potrebbero ripetere le parole di Martin Walser:”Il dialetto è il corpo della lingua. La lingua ufficiale è solo un vestito”. Il dialetto ossigena la lingua. Esso è come un sogno: qualcosa di lontano e di chiarificatore. Se i vecchi morti ci apparissero in sogno, ci parlerebbero in dialetto e sarebbe una vergogna se non li potessimo capire.


L ‘ A T T I L A

Viene così brevemente indicato un poema di Niccolò da Càsola, noto come “La guerra d’Attila”. L’opera sarebbe stata scritta nel 1358 in provenzale e consiste in due pesanti codici conservati presso la Biblioteca Estense di Modena. Le informazioni sull’autore sono scarse, ma egli potrebbe essere nato a Bologna tra il 1305 e il 1310.
Nel 1350 Giacomo e Giovanni Pepoli avevano venduto Bologna all’Arcivescovo Giovanni Visconti, signore di Milano. Seguirono malcontenti e anche Niccolò dovette esservi coinvolto, se i Visconti lo condannarono all’ esilio. Egli si recò certamente in Veneto e in Friuli, dove ebbe occasione di conoscere le gesta di Attila, appunto.
La narrazione comprende, oltre a località, persone e vicende storiche, notizie assolutamente inverosimili. Si cita, per esempio, Maometto. Ma il Profeta non era ancora nato ai tempi di Attila!- Non utile alla verità dei fatti, il manoscritto risulta invece interessante per la lingua usata.
Nel ‘Duecento e nel ‘Trecento non si parlavano soltanto il latino e il volgare toscano. Era diffusa in talune regioni anche la lingua provenzale. Specialmente nel Veneto si era sviluppata una fiorente letteratura veneto-provenzale, come documentano le 1045 poesie trovadoriche conservate nella Biblioteca Estense di Modena, tra le quali primeggiano le composizioni di Uc de Saint-Circ. A tale antologia è doveroso aggiungere, tra l’altro, la produzione di Sordello da Goito e di Ferrarino Trogni.
È giustificato chiedersi come mai documenti letterari così importanti siano finiti a Modena. Rizzardo VI da Camino era morto nel 1335. Sue eredi erano la moglie Verde della Scala e le figlie Beatrice e Caterina. Nacque tuttavia postuma una terza figlia: Rizzarda. Il sarcofago nella chiesa di S. Giustina a Serravalle mostra il defunto nell’atto di porgere un neonato alla Madonna. Potrebbe essere una allegoria di ben altra estrazione, ma potrebbe anche trattarsi della speranza di un erede destinato a continuare la dinastia, speranza andata delusa.
C’erano stati contatti tra Gherardo Da Camino, ricordato da Dante, e i signori di Ferrara fin dal 1294. Per la verità non era stato un sodalizio felice, vista la serie di omicidi che lo funestò.- Il 18 settembre 1351 Beatrice Da Camino, figlia maggiore di Rizzardo VI, sposò Aldobrandino III, marchese di Ferrara. Un fascio di carte e pergamene giunse in tal modo nella città. Poiché nel 1598 gli Estensi dovettero lasciare Ferrara e trasferirsi a Modena, la documentazione di cui trattasi dovette essere stata compresa nel trasloco. Tutto chiaro.
Il da Càsola non era mai stato in Francia. L’apprendimento della lingua potrà quindi essere avvenuto nella Marca Trevisana evidenziando qualche lacuna. Si nota una grande osmosi di termini francesi transitati nel volgare italiano e viceversa. Oggi si chiamerebbero “neologismi”.- “La guerra d’Attila” sembra un poema pensato in Italia ma scritto in francese. Si percepisce quindi lo sforzo, affinché tutti ne possano comprendere il linguaggio. Potrebbe essere che il da Càsola abbia fatto il seguente ragionamento: tutti i giorni gli uomini mangiano una grande quantità di fibre vegetali e animali. Queste si trasformano regolarmente in cellule e consentono una regolare esistenza. Perché non dovrebbe avvenire la stessa cosa tra le lingue?- I vocaboli dell’una possono integrare il significato dell’altra, quando ciò risulta necessario per una migliore comprensione. Un’indicazione da tenere presente.
Il poema riveste una grande importanza ai fini di una spiegazione relativa alla storia della lingua italiana. Il volgare toscano non rappresentava l’unica possibilità e alternativa. Alla fine del secolo XII Alano di Lilla sostenne anzi che la latinità era povera (Quia latinitas penuriosa est). Urgevano iniziative affinché la lingua diventasse la mano fedele della mente. Nulla imponeva che tali sollecitudini fossero unidirezionali. Sorsero così le lingue neoromanze, le quali non derivano dal latino, ma da una sua interpretazione popolare e locale. Il latino non fu l’unica radice delle lingue romanze, come l’architettura romana non fu l’unico presupposto di quella romanica.
(Il Dialogo, mensile, dicembre 2009)

AMMONIZIONE POSTUMA
Nel Museo civico di Oderzo è conservato un antico reperto contrassegnato come *Od 7. Si tratta di un sasso di porfido alpino, presumibilmente portato dalle correnti dei corsi d'acqua, inciso su entrambe le facce. L'iscrizione recita:"KAIALOISO / PAZROS POMPETEXUATOS". Esso viene presentato come "Ciottolo confinario venetico. Questi ciottoli del Piave venivano posti ai confini per segnare le proprietà".La funzione confinaria del ciottolone è alquanto improbabile. Esso sarebbe stato, infatti, spostabile e ne sarebbe conseguita incertezza sui limiti dei campi. I Veneti Antichi, primi Slavi della storia, erano forse ingenui per natura, non essendo ancora venuti a contatto con popoli con i quali bisognava tenere gli occhi bene aperti, ma non al punto da usare distintivi asportabili o mobili!- Anche la composizione minerale del ciottolone è discutibile. Se fosse trachite, come si dice, risulterebbe strano un rinvenimento a distanza di oltre cento chilometri dalla zona di estrazione. Come è noto, la trachite proviene soltanto dai Colli Euganei e avrebbe richiesto una propedeutica levigatura. Quasi nessuno, specialmente tra gli esponenti della cultura locale, ha dimostrato finora particolare interesse per una credibile interpretazione di quelle parole misteriose. Nell'opera "I Veneti Antichi" di G. Fogolari e A.L. Prosdocimi si allude a probabili influenze linguistiche celtiche. L'informazione sarebbe tuttavia incongrua. Il ciottolone risale al VI secolo a.C., mentre i Celti giunsero in certe località del Norico solo nel III secolo a.C., non esplicarono alcuna colonizzazione e non lasciarono iscrizioni. Lo storico Jordanes scrisse nel 551 d.C. che in principio gli Slavi si chiamavano Veneti e che soltanto a partire dal V secolo d.C. si frazionarono in tre gruppi: Veneti, Slavi e Anti. Questi ultimi erano un popolo profondamente slavizzato, che ricorre nelle informazioni dello storico bizantino Procopio nel VI secolo d.C.- Non sembri quindi strano che Plinio il Vecchio (I secolo), Tacito (II secolo) e Tolomeo (II secolo d.C.) conoscessero ai loro tempi soltanto i Veneti. L'iscrizione di *Od 7 è senza dubbio venetica. L'Antico Slavone Ecclesiastico, ma anche altri aspetti delle parlate arcaiche delle contigue popolazioni slovene e croate, potrebbero fornire degli utili elementi per la comprensione e la collocazione della misteriosa scritta. Siffatto percorso viene tuttavia avversato dalla cultura ufficiale e dalle sue connotazioni centripete. Un approfondimento, non politicamente corretto ma culturalmente utile, varrebbe la pena. Poi si potranno trarre le conclusioni. La prima parola potrebbe essere letta "kajajoj so". In sloveno esiste "kesajoci" e in croato cacaviano si trova un "kajot se", che significano "Tu che ti pentirai" e "pentirsi".- La seconda parola potrebbe leggersi "podzoros". In sloveno "pozor" ha a che fare con "interessamento" e "attenzione". Poi "pompetexuaios" potrebbe essere infine scomposto e adattato in "po m(e)", "petje" e "huajos". Andiamo con ordine:"po mojem" in sloveno significa "dopo il mio"; "petju" vuol dire "dopo il mio canto" e "hajat" sta per "badare a".- Ce ne sarebbe abbastanza per capire:"Con pentimento la guarderai (questa scritta) e sentirai la nostalgia del mio canto". Si tratterebbe di un'iscrizione funebre con funzione di richiamo e rimprovero per un'azione di cui un superstite avrebbe dovuto pentirsi. Gli eredi sono quasi sempre ingrati. L'argomento è in ogni caso degno di approfondimento e di eventuale contestazione. Ma non accadrà.
(Pubblicato da IL PIAVE in data lunedì 21 giugno 2010)